Dario Franceschini in campo tra Renzi e Bersani: “No agli strappi. E non si dica ‘voto’ senza legge”. Calenda isolato nel governo

Quando nel Pd il gioco si fa duro, quando volano gli stracci e tutto sembra crollare, scende in campo Dario Franceschini. Il ministro dei Beni Culturali media tra Matteo Renzi e Pierluigi Bersani, tra l’opzione ‘voto a tutti i costi entro giugno’ e l’opzione ‘prima il congresso e poi il voto nel 2018’. Franceschini non parla di date. Dice che soprattutto bisogna pensare a “come” si arriva al voto. E non si può dire “voto” senza prima aver compiuto tutti i passaggi fondamentali per arrivarci per bene: la legge elettorale e il cammino più consono all’unità nel Pd.

Tutto questo Franceschini lo spiega al Corriere della Sera in un’intervista che esce domani, a 24 ore da quella del ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda, convinto sostenitore del no al voto anticipato. Ecco, una cosa per ora è chiara: Calenda è isolato nel governo. Nemmeno Franceschini gli dà sponda. Tantomeno Graziano Delrio, uno dei ministri rimasti ancorati fino in fondo alla linea del segretario del Pd. “E’ vero che ci sono delle emergenze, Calenda ha ragione, ma un governo come questo può affrontare queste emergenze? – dice Delrio ospite di Bianca Berlinguer su Raitre – Serve un governo legittimato per questo e le elezioni fanno parte delle democrazie”.

Franceschini non è così ‘schiacciato’ su Renzi. E ci tiene anche a togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Pensa che sia un successo essere riusciti a “parlamentarizzare” la discussione sulla legge elettorale dopo la sentenza della Consulta sull’Italicum. Un successo, visto che invece la prima reazione del segretario del Pd è stata “andiamo al voto, la legge c’è”. Non c’è ancora, sostiene Franceschini, convinto in questo di avere un forte assist al Colle da Sergio Mattarella. E dunque bisogna che il Parlamento ci lavori: partenza il 27 febbraio alla Camera, c’è un mese di tempo per farsi trovare pronti all’appuntamento.

Insomma, non si può parlare di voto senza prima aver effettuato questi passaggi, è il ragionamento di Franceschini. E’ questa la stoccata a Renzi, il freno all’ansia del segretario di correre alle urne. Un freno che sia Franceschini che Orlando si sono premurati di comunicare a Renzi negli incontri di questi giorni.

L’obiettivo è stabilire una tregua nel Pd, intanto. “Procedere senza strappi”, dice Franceschini nel tentativo di riacchiappare sia Bersani e le sue minacce di scissione che Renzi e la sua fissazione di andare al voto entro giugno, costi quel che costi.

Il quadro sembra così ricomposto. Per ora. Time out per i pasdaran di entrambi i fronti. Anche Paolo Gentiloni isola Calenda: “Posizione personale”. Pur sottolineando che “non sono io a decidere la durata della legislatura: spetta al Parlamento, al presidente della Repubblica, alla dialettica tra le forze politiche alle quali guardo con il massimo rispetto”, specifica il premier.

Ma Calenda lascia una scia. I bersaniani guardano a lui come possibile nuovo leader. Più volte Bersani ha espresso apprezzamenti sul ministro, i contatti tra Calenda e l’ex segretario hanno finito per rovinare i rapporti con Renzi. Ma soprattutto tra i parlamentari Pd prevale la convinzione che dietro Calenda e il suo no al voto anticipato ci sia un pezzo di mondo imprenditoriale. Nello specifico il capo di Confindustria Vincenzo Boccia.

Del resto Calenda viene da lì, creatura di Luca Cordero di Montezemolo, arrivato in politica con Monti e Scelta civica, promosso da Renzi ambasciatore nell’Ue e poi ministro al posto della Guidi. Poi la fine dell’idillio. E ora i bersaniani lo ‘pesano’ come possibile ‘nuovo Prodi’. Già prima del referendum costituzionale, il suo nome girava come possibile premier dopo Renzi in caso di sconfitta. I renziani invece approfondiscono i propri sospetti su di lui. Per niente sorpresi dalla sua intervista al Corriere, ora però si chiedono se dietro non ci siano anche quei poteri europei che chiedono all’Italia una manovra correttiva e che quindi non vedono di buon occhio il voto anticipato.
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Consulta. Chi frena sul voto spera in Mattarella. Ma il Colle aspetta le motivazioni che scioglieranno i nodi

Sorrisi e mugugni. Il partito del voto subito e quello del voto nel 2018. Quando la Consulta dice la sua finalmente sull’Italicum, il Transatlantico della Camera si divide in due, quasi sembra il mar Rosso di Mosè. Ci sono i renziani contenti: sentenza subito applicabile, si può andare al voto. Così pure i Cinquestelle e la Lega. E poi c’è il partito del no al voto anticipato, quelli che allungherebbero i tempi anche fino al 2018. Dentro c’è il Pd non renziano, la minoranza bersaniana ma anche una bella fetta di maggioranza. Dentro c’è anche Forza Italia. Sono nervosi. E tutti ora guardano al Quirinale: cosa farà l’arbitro Sergio Mattarella? Intanto il presidente aspetterà le motivazioni della Corte Costituzionale che tra qualche settimana spiegheranno la sentenza di oggi e non è detto che non esprimano una valutazione sull’omogeneità delle due leggi elettorali tra Camera e Senato.

Così trapela dal Colle. E in effetti pare che la discussione in Consulta si sia dilungata proprio sul tema dell’omogeneità dei due sistemi. Rivisto l’Italicum, resta in piedi un impianto che alla Camera prevede un premio di maggioranza per la lista che raggiunga il 40 per cento dei consensi. Non così al Senato dove non c’è premio, ma c’è uno sbarramento su base regionale all’8 per cento. Ci sono i capilista bloccati, cioè decisi dai partiti. Non c’è più il ballottaggio. A grandi linee il sistema è di fatto un proporzionale, ma non proprio uguale per entrambe le Camere. Nel discorso di fine anno Mattarella ha chiesto al Parlamento di lavorare per avere un sistema omogeneo. Ma ora è possibile che anche questa grana venga risolta dalla Corte Costituzionale con le motivazioni che andranno a spiegare meglio la chiusa della sentenza di oggi, quel “suscettibile di applicazione immediata” che ha fatto contenti i renziani, i grillini e i leghisti.

Il partito del ‘voto non subito’ non si rassegna. Il Pd naturalmente si spacca. Velenoso il tweet di Enrico Letta:

Pierluigi Bersani attacca: “Il Parlamento comunque si deve esprimere sulla legge elettorale. Abbiamo avuto una legge votata con la fiducia, ora c’è la Consulta… E il Parlamento che fa? Una valutazione dovrà farla o no? Altrimenti andiamo tutti a casa…”. Roberto Speranza pure annuncia così la prossima battaglia: “Il cuore dell’Italicum è saltato: la nostra battaglia politica contro quella legge, per la quale mi sono dimesso da capogruppo, aveva un fondamento. Ora il Parlamento deve lavorare, nei tempi necessari, per un sistema elettorale che rispetti i due principi di un equilibrio corretto tra rappresentanza e governabilità” e non avere “mai più un Parlamento di nominati”.

La maggioranza Dem non renziana resta muta. Franceschini è impegnato a Londra e da lì non si sogna di commentare la fine dell’Italicum. Così anche il ministro Orlando. In Parlamento però si mugugna. “Il sistema va reso omogeneo, non lo è così come è uscito dalla Consulta”, dice Andrea Martella del Pd, veltroniano, in maggioranza nel partito, concordando con Pino Pisicchio che proprio in quel momento sta spiegando ai cronisti: “Sì, il Parlamento deve lavorare su questa sentenza. Soprattutto deve decidere se vuole le coalizioni, che in questo ‘Consultellum’ non ci sono…”. Forza Italia sulla stessa linea: “La sentenza di oggi della Corte Costituzionale conferma l’esistenza di due sistemi elettorali profondamente differenti tra Camera e Senato, con le coalizioni solo al Senato e il premio di maggioranza solo alla Camera e con soglie di sbarramento completamente diverse. Il Paese, come sottolineato dal Presidente Mattarella, ha bisogno invece di leggi elettorali omogenee”, dice il capogruppo al Senato Paolo Romani.

Chi frena sul voto è in allarme. Ci sono gli inconfessabili scongiuri per scavallare la metà di settembre e guadagnare il vitalizio. Ci sono le certezze di chi sa che non verrà ricandidato, in un sistema fatto di capilista decisi dalle segreterie dei partiti. Ma il vento del voto a giugno è forte della propaganda a cinquestelle e leghista, qualora non bastasse quella di Renzi che però fuori dal palazzo è più debole. Due partiti variopinti in un solo Parlamento. E un presidente della Repubblica che non ha intenzione di cavalcare l’una o l’altra onda, ma di fare l’arbitro, come si dice sempre quando si parla di Colle.

Ma l’obiettivo di Mattarella è garantire il funzionamento del sistema. Oltre la sentenza della Consulta, in Parlamento, si vede solo impasse per il momento. Del resto, anche il ‘problema Porcellum’ fu risolto non a caso dalla Corte Costituzionale. Da qui nasce quel “suscettibile di immediata applicazione”, appiglio utile a superare un’eventuale palude parlamentare sulla legge elettorale. Ecco perché proprio su questo la Consulta tornerà nelle motivazioni che potrebbero avviare così il countdown verso il voto anticipato.
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Attacco all’eredità di Matteo Renzi: Commissione Ue, Fmi e Berlino sul Dieselgate. Il governo resiste, Renzi punta al voto

La Commissione Europea chiede all’Italia una manovra aggiuntiva di 3,4 miliardi di euro. Il Fondo Monetario Internazionale taglia le stime di crescita del Belpaese. Il ministro dei trasporti tedesco Alexander Dobrindt chiede all’Ue di garantire che i modelli Fca Fiat500, Doblò e Jeep-Renegade siano ritirate dal mercato per violazioni delle norme sulle emissioni. E’ un attacco concentrico al cuore di ciò che Matteo Renzi ha lasciato nel momento in cui ha mollato Palazzo Chigi dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre.

L’eredità dell’ex premier è presa d’assalto. Prima di tutto dalla Commissione Europea, che prima del referendum aveva di fatto sospeso il giudizio su una legge di stabilità fatta anche quest’anno di sforamenti rispetto ai vincoli dell’austerity, per via delle spese per migranti e sicurezza. Eccolo qui, un primo giudizio è arrivato: l’Italia deve varare una manovra correttiva del valore di 3,4 miliardi di euro, fanno sapere da Palazzo Berlaymont.

E’ una doccia gelata per Roma, in un inverno già alquanto rigido. Già in mattinata, Padoan si riunisce per un’ora con il premier Paolo Gentiloni. Dal Tesoro insistono a dire che ancora dalla Commissione non è arrivata alcuna lettera ufficiale e che il confronto, mai interrotto con il commissario all’Economia Pierre Moscovici, continua. Al governo decidono di resistere all’attacco. Ma non è Gentiloni a parlare.

Per l’esecutivo parla il ministro Pier Carlo Padoan e per ora non cede. “Vedremo se sarà il caso di prendere misure ulteriori per rispettare gli obiettivi – dice – Ma la via maestra per abbattere il debito è la crescita: e questa resta la priorità del governo”.

Troppo presto per dire se siamo di fronte ad un nuovo braccio di ferro con l’Ue. Ma certo gli indizi ci sono tutti. Dal governo fanno sapere che non se ne parla di nuove tasse per riparare il debito. E comunque si parte da una trattativa con la Commissione per cercare di ridurre l’impatto dell’eventuale nuova manovra. E poi, questo è il secondo elemento di reazione del governo, a Roma non la chiamano ‘manovra correttiva’. Piuttosto, dice il viceministro all’Economia Enrico Morando si tratta di “misure di aggiustamento, ma senza penalizzare la crescita e senza ostacolare il contrasto alla povertà e all’eccesso di disuguaglianze”.

Insomma, anche con l’uso delle parole si cerca di attutire l’impatto dell’attacco all’eredità di Renzi. Padoan poi si dice “stupito” per la decisione dell’Fmi. “Le ragioni addotte per dire che la crescita sarà più bassa sono: che ci sarà più incertezza politica, che secondo me è difficile da argomentare perché il nuovo governo è in continuità con il precedente, e ci saranno problemi con le banche. Anche qui il governo ha preso importanti misure proprio per fronteggiare situazioni che non sono preoccupanti”.

Il punto è che, off the record, sono proprio il premier e i suoi a dirsi certi che “se avesse vinto il sì al referendum, questo attacco non ci sarebbe stato”. E’ questo il commento a caldo che trapela nei contatti tra Roma e Pontassieve, tra Palazzo Chigi e il quartier generale provvisorio del segretario Pd. “Monti ha votato no al referendum costituzionale: facciamoci una domanda, diamoci una risposta”, dice il renziano David Ermini. Insomma, dice un altro fedelissimo dell’ex premier, “non mi figuro uno scenario con Renzi ancora a Palazzo Chigi, vittorioso al referendum, e la Commissione che chiede una manovra correttiva…”.

Colpa di Gentiloni? “No, è che la voce grossa con l’Europa la si poteva fare dopo il 40 per cento preso alle europee. Adesso l’Italia potrà tornare ad avere voce nel capitolo europeo solo con nuove elezioni, legittimità popolare e un Pd che vinca…”, aggiunge un renziano della prima ora.

Commenti a denti stretti, con tanta amarezza e consapevolezza che di armi a disposizione non ce ne sono molte. Una cosa è certezza: di fronte all’attacco, Renzi e il suo successore a Palazzo Chigi cercano una stessa risposta. Tanto che nel pomeriggio a un certo punto si diffonde addirittura la voce di una nuova enews da parte dell’ex premier, la prima nel ruolo di segretario Pd. Poi ci ripensa.

Ma per lui lo scenario resta lo stesso: andare al voto al più presto. A maggior ragione di fronte al nuovo attacco straniero, che per ora conosce tre piste: Commissione, Fmi, la Germania che quest’anno ha la sua campagna elettorale per le politiche. “Fattore da non dimenticare – dicono i Dem a Bruxelles – useranno l’argomento Italia ai fini del voto…”.

Intanto a sera l’argomento lo usa Graziano Delrio, tornando ad attaccare Berlino sul Dieselgate. “Non accettiamo imposizioni per le campagne elettorali o le tensioni interne ad un paese – dice il ministro al Tg1 – La proposta tedesca è irricevibile: non si danno ordini a un paese sovrano come l’Italia, l’autorità di omologazione italiana è quella deputata a stabilire la correttezza dei dispositivi e noi l’abbiamo stabilito esattamente come loro hanno stabilito le irregolarità sulla Volkswagen. Queste sono le relazioni tra buoni vicini che si rispettano, noi non abbiamo niente da nascondere, per questo i dati sono a disposizione della commissione europea che ha messo in piedi una camera di mediazione”.
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Elezioni Usa, reso pubblico il rapporto dell’intelligence: “Putin ha ordinato di condizionare il voto, ma non ha influito”

Il presidente russo, Vladimir Putin, ha “ordinato” una campagna per influenzare le elezioni americane. E’ quanto si legge nel rapporto dell’intelligence americana, secondo il quale Putin e la Russia hanno cercato di discreditare Hillary Clinton. La Russia, cercando di influenzare le elezioni, puntava ad aiutare Donald Trump a vincere, ma le sue azioni non hanno influito sull’esito del voto

Nel testo i vertici degli 007 Usa sostengono anche che la Russia tenterà nuovamente di influenzare le elezioni, stavolta di alleati Usa. Riferimento alle prossime elezioni in Europa, a partire da quelle presidenziali a aprile/maggio in Francia e legislative in Germania a settembre.
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Matteo Renzi apre la fase due: Mattarellum e voto subito con primarie di coalizione. Asse con Delrio

La “fase zen”, come la definisce lui stesso, è durata solo un paio di settimane. Solo due domeniche fa Matteo Renzi era furioso per la sconfitta referendaria, deluso e confuso. Oggi davanti all’assemblea nazionale del Pd ripete: “Abbiamo straperso”. I delegati salutano con applausi e standing ovation i passati mille giorni di governo, che finiranno in un “libro documento”, dice lui. Analisi della sconfitta qui e là, “abbiamo perso al sud, tra i giovani e sul web”, praticamente tutto. Ma il segretario, pur con volto provato e all’inizio anche un po’ dimesso, è qui all’Ergife di Roma per rilanciare. Come se fosse stato appena eletto leader del Pd, come se alle spalle non avesse una storia di 3 anni al governo che lo hanno portato dal 40,8 per cento delle europee del 2014 al collasso politico.

Ad ogni modo, basta con lo zen e niente congresso anticipato del Pd. Bensì urne anticipate alla primavera, massimo giugno. Con la nuova parola d’ordine: Mattarellum. Un obiettivo per il quale il segretario conta su un rinnovato asse: con Graziano Delrio.

Mentre Renzi parla, un’oretta di relazione che cambia verso al renzismo dalla vocazione maggioritaria all’ottica di coalizione, Paolo Gentiloni siede al tavolo della presidenza. Il segretario non lo dice chiaramente, ma la sua è una chiamata al “voto subito”. Il neo-premier lo sa. E comunque ci pensa Delrio a dirlo: “Trovo omissiva la tua relazione, Matteo: il voto di domenica 4 dicembre ha detto che gli italiani vogliono andare a votare presto…”.

Un gioco delle parti. Significa che i renziani ortodossi, categoria nella quale ora il segretario stesso ascrive Delrio addirittura come ‘capo’ di questa componente, si muovono per riportare il paese alle urne al più presto possibile. E’ la nuova fase di Renzi: il giglio magico Boschi-Lotti è saldamente piazzato al governo Gentiloni. Ma il nuovo corso si chiama Delrio. “Il Pd ha bisogno di una terza via tra capitalismo e populismo – dice il ministro parlando all’assemblea – Noi l’abbiamo studiata ma non abbiamo dato una risposta sufficiente. Grazie Matteo per aver detto di voler ripartire da un ‘Noi’. Benissimo la conferenza programmatica proposta da Epifani, che parte dal basso per essere in sintonia con la pancia del Paese non per assecondarla…”.

Dalla vocazione maggioritaria alla coalizione di centrosinistra. Mattarellum vuol dire questo. E per Renzi è un inedito assoluto. Tuttavia, dopo il fallimento delle riforme costituzionali e dell’Italicum con il suo premio di lista addirittura, il segretario Pd non si rassegna al proporzionale: vanificherebbe la sua leadership. Ed è convinto di incrociare un mood prevalente tra gli elettori: andare al voto subito ma non con un ritorno al ‘Pentapartito’. Lo dice: “Eravamo a un passo dalla terza repubblica, siamo tornati alla prima e senza la qualità della classe dirigente della prima….”.

Con i suoi insiste: “Noi diciamo maggioritario. Chi vuole il proporzionale, lo dica, ma a viso aperto”. E’ una sfida al M5s e a Berlusconi, dal quale non si aspetta un sì convinto e subito. Mentre Salvini invece fa già sapere che a lui il Mattarellum piace: convincerebbe l’ex Cavaliere a fare l’alleanza con la Lega e a non giocare in proprio. Ma soprattutto quella di Renzi è una sfida anche nel partito. “Vogliamo giocarci l’ultima possibilità di maggioritario o scivoliamo nel proporzionale? Il Pd faccia chiarezza”.

Renzi resta guardingo mentre si susseguono gli interventi dal palco dell’Ergife. C’è Andrea Orlando che marca la distanza e critica un ritorno alle “soluzioni anni ’90”. C’è Dario Franceschini che dice sì al Mattarellum, ma in realtà immagina un orizzonte temporale più lungo per il governo Gentiloni. Cioè urne sì, ma non a primavera. C’è Gianni Cuperlo che preferirebbe “un congresso” prima di andare al voto. Francesco Boccia: “Dove l’abbiamo discusso il ritorno al Mattarellum? Si va al voto quando Mattarella lo riterrà”. Paradossalmente, l’unico sostegno senza subordinate al Mattarellum arriva dall’anti-renziano Roberto Speranza, poi attaccato con toni alquanto coloriti dal renziano Roberto Giachetti. Alla fine bersaniani e cuperliani non partecipano al voto, ma l’assemblea approva: 481 sì, 2 no e 10 astenuti.

Il grosso del Pd gli dice sì non per convinzione ma per mancanza di alternative. Secondo i sondaggi, infatti, Renzi è ancora l’unico leader del campo Dem. Ed è questo che gli dà la possibilità di immaginare già da ora la via del suo prossimo futuro: primarie nei gazebo per votare il premier del centrosinistra e tornare al voto al più presto.

Come convincerà il grosso dei gruppi parlamentari? Lui, dall’alto del suo ruolo di segretario ma non parlamentare e per questo senza stipendio, pensa di farlo battendo sul tasto vitalizi: maturano a settembre, non si vorrà mica alimentare il sospetto secondo cui i parlamentari Pd vogliono aspettare la pensione prima di sciogliere le Camere? “Banale ogni considerazione sul vitalizio dei parlamentari…”, sottolinea non a caso Renzi in assemblea: quasi un inciso, destinato a diventare un mantra se sarà il caso. Ad ogni modo con i gruppi ci sarà un primo momento di discussione il 28 gennaio, 4 giorni dopo l’udienza della Consulta sull’Italicum.

E poi, è l’altra sua argomentazione, con il caos sulla giunta Raggi, il M5s ora è ai minimi storici, debolissimo: meglio che il Pd approfitti e apra la corsa alle urne subito.

“Guardo con molto interesse a ciò che Giuliano Pisapia sta costruendo”, dice il segretario all’assemblea Dem. L’ex sindaco di Milano, schierato sul sì al referendum, è uno dei punti di riferimento della ‘costruenda’ coalizione che Renzi ha in mente. Pisapia come candidato alternativo a delle primarie che potrebbero anche includere un’altra personalità del Pd: esattamente come è successo quattro anni fa, quando fu Renzi a sfidare Bersani e perdere, nelle primarie cui parteciparono anche Vendola, Tabacci e Puppato.

La nuova fase è lanciata. I tre anni di governo sono già solo un ricordo sfocato. “Non ho visto la politicizzazione del referendum”, ripete Renzi. Per lui è questo il vero motivo della sconfitta: il referendum è andato perso perchè sigle diverse e opposte si sono coalizzate nell’anti-renzismo, pur senza avere una proposta politica comune. “Se voto politico è quel 59 per cento di no, non sottovalutino il voto politico del 41 per cento di sì con cui dovranno fare i conti…”, avverte. Sul perché si sia creata questa strana coalizione, solo accenni. Troppo “notabilato” al sud, sconfitta tra i “giovani disincantati”, nelle periferie: letture più che analisi.

Ma è quanto gli basta per lanciare l’appello all’unità del Pd: “Non siamo un club di correnti dove ciascuno si costruisce una strategia personale, non torneremo ai caminetti: siamo il Pd che, se si fa un selfie, si vede che ha preso una bella botta…”. Per ora il Pd non si scinde, intrappolato dalla leadership di Renzi.
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La resistenza di Matteo Renzi in direzione Pd: “Governo di tutti o voto”. E medita l’alleanza con Pisapia

“Se le altre forze politiche vogliono andare a votare subito dopo la sentenza della Consulta sulla legge elettorale, lo dicano chiaramente. Il Pd non ha paura della democrazia. Se invece vogliono un nuovo governo che affronti la legge elettorale e gli appuntamenti internazionali del 2017, il Pd si assume questa responsabilità, ma non può essere il solo. Abbiamo pagato già un prezzo per la responsabilità nazionale”. Canto del cigno o rilancio? Si vedrà. Matteo Renzi lascia la sua proposta sul tavolo della direzione del Pd e sale al Quirinale per dimettersi da premier. Un primo capitolo di questa crisi si chiude. Si apre quello incerto della nascita di un nuovo esecutivo e della certa resa dei conti nel Pd. “Il passaggio interno al partito sarà duro, ma prima viene la crisi di governo”, annuncia il segretario, col sorriso come lama tagliente nella sala gremita al Nazareno.

Il suo è l’inizio della resistenza dentro il partito che in questi giorni gli si è mosso contro. E’ la reazione alle mosse della sua (ex) maggioranza, da Franceschini a Orlando fino a Delrio, che ieri lo hanno costretto a rivedere la relazione per la direzione. Avrebbe voluto fare il Renzi e dire “al voto, al voto subito”, magari già a febbraio subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum, che i renziani considerano auto-applicativa, cioè valida anche senza un intervento del Parlamento. Invece ha dovuto rivedere tutto, toni e merito. Ne è uscita una semi-morbida alternativa: voto o unità nazionale. Ma almeno si riserva il diritto di tracciare un percorso minato: il tempo dirà chi salterà per aria, anche perché i tempi di questa crisi appaiono lunghi a tutti gli attori in campo.

Ed eccola la prima mina. Se nascesse un nuovo governo, avverte Renzi, “sarebbe il quarto non votato dal popolo, dopo il colpo di stato del 2011, figlio di un parlamento illegittimo e del trasformismo di Alfano e Verdini”. Al Parlamento e al Pd la scelta. Al M5s i capi di accusa. Se Renzi potesse scegliere da solo, si metterebbe dalla parte dei capi di accusa.

La seconda mina è per la minoranza che ha votato no. “Pisapia solleva questioni non banali”, dice Renzi all’inizio del suo breve discorso. Pier Luigi Bersani è lì con i suoi. Massimo D’Alema non c’è. Per tutti loro il messaggio è questo: Renzi sta valutando intese con quella che definisce “la sinistra non ideologica”, quella dell’ex sindaco di Milano che si è schierato per il sì al referendum e ora offre a Renzi un’alleanza a patto che molli Alfano e Verdini. “Perché no?”, spiega un renzianissimo. “Se si va al voto, non ci interessa né di Alfano, né di Verdini”. E probabilmente nemmeno di Bersani e D’Alema. Perché si andrebbe al voto col proporzionale. E Renzi sta già mettendo sul piatto le sue chance. Sono scenari che non escludono niente. Nessuno vuole la scissione del Pd, ma un sistema non più maggioritario apre un ventaglio di ipotesi, nessuna esclusa.

La terza mina è di fatto la prima in ordine temporale. Di fatto Renzi parla alla direzione dopo aver già raccontato tutto nella sua enews, uscita da Palazzo Chigi calda calda per il web mezz’ora prima della riunione al Nazareno. E’ il suo schiaffo alla direzione che gli ha voltato le spalle. Renzi parla ai milioni di sì di domenica, voti che considera suoi. Non lesina chicche amare per la minoranza: “Qualcuno ha festeggiato la sconfitta, lo stile è come il coraggio di don Abbondio, ma non giudico e non biasimo, osservo e se possibile rilancio. Alzo anch’io il calice perché quando vieni indicato e designato dal Pd e hai la possibilità di governare, non hai il diritto di mettere il broncio. Chi fa politica col broncio e il vittimismo fa un danno a se stesso e non agli altri”.

Rimanda il dibattito in direzione a “dopo le consultazioni al Quirinale”, come spiega il presidente Matteo Orfini al senatore Walter Tocci che vorrebbe intervenire. La direzione è convocata in modo “permanente per consentire alla delegazione che va al Colle di riferire le novità”, spiega Renzi. Forse ci sarà una nuova riunione lunedì. La minoranza non gradisce. “Sono senza parole – dice il bersaniano Davide Zoggia – Il maggior partito del Paese non apre una discussione su quello che è successo. Capisco le esigenze istituzionali delle dimissioni del presidente del Consiglio, ma il partito deve discutere, analizzare”. Ma questo è solo l’inizio di uno scontro che non farà prigionieri.

Tra i renziani nella sala del Nazareno circola l’idea di presentare una legge elettorale in modo da anticipare e vanificare la sentenza della Consulta sull’Italicum. Magari un Mattarellum, la legge firmata dal presidente della Repubblica: chi potrebbe dire di no? Per ora esplicitamente ne parla il segretario dei Radicali Riccardo Magi: “Renzi ci ascolti e accolga la nostra proposta di una legge elettorale maggioritaria con collegi uninominali”. Magi è lo stesso che a luglio propose lo spacchettamento del voto referendario in più quesiti. “Probabilmente oggi Renzi rimpiange di non averci ascoltato allora”, dice. Il punto è che servirebbe un governo, Renzi ormai si è dimesso e a sera sembra tramontata anche l’ipotesi di un reincarico. A meno che non si riesca a sciogliere le Camere a fine gennaio, dicono dal quartier generale dell’ex premier.

Ma è lo stesso Renzi che ormai non esclude che possa nascere un governo di larghe intese. Per dire che le mine che ha piazzato in direzione sono tutt’altro che sicure per lui. Sa che al Senato, per dire, pezzi di Forza Italia, si sono proposti per sostenere un governo Franceschini. Anche se il ministro dei Beni Culturali uscente continua a opporsi all’idea di guidare un governo di scopo. Sa che nascerebbe contro il segretario del Pd, che sarebbe costretto ad appoggiare. Per poi bombardarlo da fuori, come con Enrico Letta. Mattarella è il primo a voler evitare uno scenario del genere. Troppo rischioso. Sul campo resta l’ipotesi di un esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, personalità che Renzi considera più fedele. Mentre sembra tramontata la carta Grasso e anche quella Padoan, dietro la quale Renzi teme un pericoloso attivismo dalemiano.

Ad ogni modo, pur rimanendo impostato sulla linea del voto a primavera nel discorso pubblico, Renzi si è mostrato più morbido con il presidente emerito Giorgio Napolitano al telefono poco prima della direzione. Sa che stavolta potrebbe perdere, i gruppi parlamentari premono per un governo che li garantisca almeno fino a ottobre, quando avranno maturato la pensione. L’unica carta che Renzi ha di certo a disposizione per tutto l’anno prossimo sono le candidature nelle liste delle prossime elezioni. Ad ogni modo non sarà lui a salire al Colle per le consultazioni. Per il Pd ci vanno il vicesegretario Guerini, il presidente Orfini e i due capigruppo Zanda e Rosato. Domani Renzi se ne va a Firenze “a festeggiare gli 86 anni della nonna e giocare alla playstation con mio figlio”. Lontano da Roma per farsi curare le ferite.
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E Renzi e Mattarella vanno in rotta di collisione: il Colle frena sul voto, il premier non gradisce

La vera novità arriva a due giorni dal voto referendario che ha bocciato la riforma costituzionale Boschi, alla vigilia della direzione nazionale del Pd e della ufficializzazione delle dimissioni di Matteo Renzi dal governo. Ed è questa: Sergio Mattarella e Matteo Renzi entrano in rotta di collisione. Diretta: prima vera crepa tra il rottamatore e il presidente. La tensione è palpabile tra Palazzo Chigi e Quirinale, a sera.

Al termine cioè di una giornata di contatti tra il Colle e i propri interlocutori diretti nei gruppi parlamentari del Pd, a cominciare dal ministro Dario Franceschini. Obiettivo: frenare l’ansia di Renzi di tornare al voto al più presto possibile, tirarlo via dal treno ad alta velocità che ha preso subito dopo la sconfitta e farlo salire su un convoglio intercity che gestisca tutto in maniera ordinata. O almeno farci salire il grosso dei gruppi parlamentari e della direzione Pd. E’ per questo che a metà pomeriggio il capo dello Stato fa sapere a chiare lettere che lui è contrario alle elezioni immediate, pensa che vada formato un governo solido e che sia necessario mettere mano alla legge elettorale. Per garantire la formazione di un esecutivo dopo le elezioni. E per evitare salti nel buio. Da Palazzo Chigi, Renzi la prende come un pugno sui denti.

Ma andiamo con ordine. Già ieri sera, quando negli studi di ‘Porta a Porta’ il ministro dell’Interno Angelino Alfano scommette sulle elezioni a febbraio, al Colle i conti cominciano a sballarsi. Al fianco di Alfano, il capogruppo Dem alla Camera Ettore Rosato pure accompagnava il ritornello del voto subito. E qui qualcosa ha cominciato a non tornare anche in casa Franceschini, visto che Rosato è esponente di Areadem, uomo vicino al ministro dei Beni Culturali ma in tv ha fatto il renziano doc. Come se la sconfitta di domenica non ci fosse stata. Qualcuno nel Pd racconta che è stato il ministro stesso a fargli una sfuriata al telefono per riportarlo sulla ‘retta via’. Fatto sta che oggi la linea del Pd è cambiata. Non più voto subito, come dicevano i falchi renziani ieri. Bensì: governo istituzionale sostenuto da tutti, non solo dal Pd e comunque non dalla maggioranza dell’attuale governo dimissionario. Cosa è successo?

Quella del “governo istituzionale sostenuto da tutti” è la carta che Renzi si giocherà in direzione domani. E’ il suo contrattacco alla mossa di accerchiamento apparecchiata da Franceschini, il ministro Orlando, ma anche Delrio: tutti con l’appoggio di Mattarella. Accerchiamento per frenarlo dalla smania di elezioni. Pare che qualcuno volesse addirittura raccogliere le firme per mostrare al segretario, nero su bianco, che non avrebbe avuto la maggioranza in direzione se avesse forzato. Ma forse non è stato necessario. Con gran parte dei leader di maggioranza schierati con la minoranza bersaniana che ha votato no (“Sconsiglio di sfidare il paese…”, dice Pier Luigi Bersani), Renzi ha capito che era il caso di cambiare tattica. E’ la prima volta che è costretto a farlo da quando è segretario del Pd. Anche questa è una novità che fa il paio con la tensione con Mattarella.

E’ a questo punto che nasce la contromossa. Alle consultazioni dei partiti con il capo dello Stato per la formazione di un nuovo governo, che presumibilmente inizieranno giovedì, “il Pd proporrà la formazione di un esecutivo istituzionale sostenuto da tutti”. Questo dirà Renzi in direzione. Non parlerà di voto immediato. “Poi, se la maggioranza delle forze politiche si assesteranno sulla linea del voto, il Pd non ha paura delle elezioni”, dice oggi anche Rosato. Ma la vera scommessa del premier è un’altra. E’ che questo governo non nascerà. Non ci sono all’orizzonte forze di opposizione che si prestino al gioco. E per ora sembrerebbe che Renzi non abbia torto.

Nota la contrarietà del M5s e Lega a dare sostegno ai “governicchi”, il primo indiziato sarebbe Silvio Berlusconi. Ma, da quanto trapela dal pranzo dell’ex Cavaliere con i suoi oggi ad Arcore, la disponibilità di Forza Italia a sostenere un governo istituzionale non c’è. C’è quella a sedersi al tavolo della nuova legge elettorale. Insomma l’ex premier vuole vedere le carte. E Renzi vede la partita ancora aperta. La sua nuova e pericolosa partita col Pd e con il Colle.

“Mica possiamo assumercela solo e sempre noi la responsabilità. Se la devono assumere anche gli altri”, dice in Transatlantico la fedelissima renziana Alessia Morani. E’ il nuovo verbo del premier, fedele alla linea che ha voluto dettare la sera della sconfitta: “Oneri e onori dei vincitori: spetta a loro trovare una nuova legge elettorale…”. Proprio questa drammatizzazione non è piaciuta al Colle. Questo modo tutto renziano di saltare alle conclusioni, tra annunci di dimissioni e voglia di voto immediato. Basta: hanno cominciato a dirgli anche dal Pd, da Franceschini a Orlando. Ora questa accelerazione va gestita: frenando con prudenza, dicono dal Quirinale.

L’udienza della Corte Costituzionale sui ricorsi sull’Italicum fissata al 24 gennaio è già un poderoso freno: è un’udienza, non una sentenza. Potrebbe non sciogliere il nodo su cosa non va della legge elettorale a livello costituzionale. E questo inevitabilmente allunga i tempi del voto, a meno che il Parlamento non decida prima. Improbabile.

Ma oltre a scommettere che il governo istituzionale non nascerà, della serie ‘non esistono altri governi al di fuori di me’, Renzi fa anche un altro tipo di ragionamento. “Loro non capiscono cos’è il consenso”, dice uno dei suoi commentando le indiscrezioni del Colle. “Il paese vuole andare a votare”. E in questo schema, è la convinzione, Renzi si posiziona dalla parte ‘giusta’, con Grillo, Salvini e tutti coloro che chiedono elezioni al più presto. Mentre chi frena sul voto si mette “dalla parte dei parlamentari che vogliono aspettare di maturare la pensione a ottobre prima dello scioglimento delle Camere”, è l’altro pezzo di ragionamento. E ancora: “Hanno paura che Renzi li escluda dalle liste del prossimo parlamento”.

Attacchi che scommettono sull’impopolarità dei freni sul voto. Ma che svelano comunque un certo nervosismo, alla vigilia di una direzione Dem che si annuncia tesissima. Per la prima volta, Renzi non dà le carte. Almeno non tutte. E nel giro di 48 ore dal referendum che lo ha travolto, è costretto a inseguire e scommettere per sopravvivere come segretario del Pd.
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Referendum e voto estero: domenica battaglia a Castelnuovo di Porto, dove si scrutinano le schede decisive

Circa 48mila metri quadri, ben militarizzati. Lo chiamano il ‘Pentagono’ del voto all’estero. Addirittura. Perché il Centro Polivalente della Protezione Civile a Castelnuovo di Porto, paese di poco più di 8mila anime tra la Flaminia e la Tiberina in provincia di Roma, è un vero e proprio fortino con un carattere quasi sacro. Chi lo espugna vince.

Lì vengono portate le schede di chi ha votato dall’estero per il referendum costituzionale di domenica: sono il prodotto di circa 1400 seggi. E lì vengono scrutinate. Lì piomberanno almeno 200 volontari del comitato del No perché temono brogli. E arriveranno anche rappresentanti del Sì, per rispondere a eventuali accuse e controllare a loro volta. Stando a tutti i sondaggi e ai calcoli di entrambi i comitati, il voto all’estero è il vero ago della bilancia di questo combattutissimo referendum costituzionale.

Ecco perché il voto di domenica potrà facilmente passare alla storia come ‘la battaglia di Castelnuovo di Porto’. Benché il centro polivalente dello scrutinio sia situato a circa 15 chilometri dal centro abitato, in una zona isolata, scelta apposta per garantire un corretto svolgimento delle operazioni di voto già nel 2006, quando il voto all’estero consegnò a Romano Prodi la fragilissima maggioranza al Senato. Durò solo due anni. Tempi andati ma anche quest’anno il voto all’estero sarà decisivo.

Intorno alle 15 di domenica si potrà già sapere il dato dell’affluenza dall’estero. E sarà molto alto: previsione condivisa sia dal comitato del sì che da quello del no. Pur con polemica. Quelli del Sì stimano 1 milione e 200-300mila voti in arrivo dall’estero. Renzi li considera la sua cassaforte per la vittoria. Visto che tutti i sondaggi che ha in mano danno il sì in svantaggio sul no a livello nazionale. E visto che, secondo i calcoli che fanno al suo quartier generale, nemmeno il sì di Romano Prodi riesce a ‘salvare’ questo voto.

Quelli del No condividono la previsione sul numero dei votanti dall’estero. “E’ possibile – ci dice Alberto Campailla del Comitato del No – C’è uno zoccolo duro di 700-800mila votanti, come si è visto in altri appuntamenti elettorali. Ma in più stavolta c’è stata maggiore pubblicità sul voto. Molta di più rispetto al referendum di aprile sulle trivelle”.

Stavolta autorevoli esponenti del Sì hanno dedicato molte tappe elettorali all’estero. A cominciare dal ministro Maria Elena Boschi e il suo tour in America Latina. Per finire alla cena di Matteo Renzi da Obama, da leggersi anche in chiave di propaganda tra gli italiani che vivono in America oltre che attraverso la lente delle forti relazioni diplomatiche tra Roma e Washington nell’era Barack. E poi c’è un altro dato.

L’Italicum ha introdotto la possibilità di votare anche per gli italiani che risiedono all’estero temporaneamente da almeno tre mesi, per motivi di studio, lavoro o cure mediche ecc. Una disposizione che per la prima volta è stata applicata al referendum No triv di aprile. “Solo che allora il termine entro il quale ci si poteva iscrivere per votare non è stato prorogato – ci dice ancora Campailla – L’Italicum lo stabilisce in 10 giorni dal giorno di pubblicazione del decreto che indica la data del voto in gazzetta ufficiale. Per il referendum costituzionale questo termine è stato prorogato di almeno un mese: scadeva l’8 ottobre, hanno tenuto i termini aperti fino al 2 novembre”.

Ecco il perché di quel milione e passa di voti in arrivo dall’estero. Un fortino che per Renzi racchiude “sorprese positive”, così dicono i suoi. “Noi invece pensiamo di fare bene tra gli italiani di recente immigrazione, tra i giovani che se ne sono andati per effetto della recente crisi economica”, dice Campailla. Partita evidentemente persa tra quelli di immigrazione più antica. Anche qui le aspettative del sì e del no stranamente coincidono. Si vedrà domenica.

Soprattutto si vedrà come andrà sul campo di battaglia, nell’hangar di Castelnuovo di Porto. “La nostra attenzione sul voto all’estero nasce dalle numerose segnalazioni ricevute – prosegue Campailla – il nostro compito è di garantire a tutti i cittadini e in particolare a quelli che non vivono in Italia che la loro scelta venga rispettata”. Verifica delle persone decedute, non aventi diritto al voto perché minorenni, schede sospette perché apparentemente compilate dalla stessa mano: i campanelli di allarme sono molteplici.

“Questi sospetti di brogli… se qualcuno ha qualcosa da dire, faccia denuncia – replica il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini – il voto degli italiani all’estero è stato una conquista condivisa da tutto il Parlamento. Hanno votato negli altri referendum, nelle altre elezioni Politiche e non capisco questo atteggiamento preventivo nei confronti del voto degli italiani all’estero”.

Istituito con la legge Tremaglia del 2001, governo Berlusconi, ora però il voto all’estero viene preso di mira anche da Forza Italia. “E’ l’intero processo che è assolutamente viziato”, diceva Renato Brunetta una settimana fa, dopo aver incontrato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni insieme ad altri esponenti del comitato del No. Matteo Salvini chiede addirittura “un controllo dell’Onu”. Il parlamentari del M5s in commissione Affari Costituzionali di Camera e Senato scrivono a Gentiloni e Alfano: “Il Viminale e la Farnesina non hanno fatto nulla per garantire la regolarità del voto degli italiani all’estero che è seriamente a rischio brogli”.

Renzi, che continua a girare come una trottola tra ‘#Matteorisponde’ su Facebook, le interviste su ogni media possibile e le iniziative nelle città (domattina a Palermo, con contestazione studentesca annessa), glissa: “A me sembra strano che avvicinandosi ad una grande festa della democrazia noi anziché guardare a ciò parliamo delle bufale, di cosa Renzi farà da grande. Concentriamoci sul merito. Cari italiani, stanno cercando di fregarvi, parliamo della scheda”.

Appollaiato intorno alla sua Rocca, su una collina tufacea, Castelnuovo di Porto è lì che aspetta la prossima invasione elettorale.
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Francesco Guccini: “Non dirò mai cosa voto al referendum. Io il preferito di Matteo Renzi? Ripeto: sono innocente”

Guccini non si pronuncia: né sul referendum costituzionale, né nel merito della riforma. Dalla sua casa di Pavana, il cantautore emiliano concede però al Corriere della Sera un’opinione a caldo sulla morte di Fidel Castro e, da lì, qualche ipotesi sul futuro della sinistra italiana.

La morte di Castro non ha chiaramente lasciato indifferente Guccini, che ritorna nei suoi testi insieme a una sinistra ormai in evoluzione.

«Sono rimasto un po’ così, anche se aveva 90 anni… Il lider maximo è stato un grande personaggio. Adesso dobbiamo capire come evolverà la situazione a Cuba. Castro ha fatto qualche errore e qualche cosa positiva, soprattutto la medicina».

Riguardo la situazione in Italia, invece, non c’è speranza di sapere le intenzioni di voto del cantautore per domenica prossima:

«Io ho la mia idea e non la dico. La tengo per me» (…) «si è arrivati a dei punti di polemica troppo violenti. Ma è ovvio che questo voto è troppo importante per l’Italia».

Non sembra volersi esporre più di tanto neanche nel merito della riforma, sebbene non lasci trasparire un’opposizione totale:

«Ci sono anche dei punti positivi. Vedremo come andrà a finire domenica notte».

“Lei è da sempre il cantante preferito di Renzi”, incalza il giornalista. “Nei giorni scorsi è uscito da un comizio canticchiando «non dire no» da «Il tempo di morire» di Battisti. Hanno chiesto di fare altrettanto con Guccini, ma il premier ha risposto che lei gli ha fatto sapere che preferisce non essere citato da lui…”

«Boh, non lo so (ride, ndr). Non lo conosco personalmente. Oltre a Renzi sono il preferito anche di Alfano? Ripeto: sono innocente. Preferisco Dino Zoff. grandissimo portiere che ama tanto i miei brani» .


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Fuga di consiglieri, cade la giunta leghista di Massimo Bitonci a Padova. Arriva il commissario fino al voto

È caduta la giunta comunale di Padova, guidata dal sindaco leghista Massimo Bitonci. Verso la mezzanotte sono arrivate le dimissioni presentate da 17 dei 32 consiglieri di Palazzo Moroni, che hanno così certificato la sfiducia al sindaco.

Davanti ad un notaio si sono presentati per sottoscrivere l’atto formale i consiglieri di Pd, M5S, Forza Italia, Padova 2020, e altri che dai gruppi della maggioranza erano già passati al gruppo misto. L’epilogo è arrivato al termine di un lungo scontro interno alla maggioranza, soprattutto tra Lega e Fi. “Abbiamo preso atto dell’implosione della maggioranza del sindaco Bitonci – ha spiegato il segretario provinciale del Pd Massimo Bettin – era evidente che nonostante i suo disperati tentativi era impossibile proseguire in una guida dignitosa, efficace e svolta nell’interesse collettivo”. Ora vi sarà la nomina di un commissario prefettizio che traghetterà l’amministrazione fino alle nuove elezioni.

Su Twitter si susseguono i commenti ironici del Pd, che riguardano più Matteo Salvini, oggi impegnato in piazza a Firenze, che il sindaco Bitonci.


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