Proteste contro Donald Trump all’aeroporto di New York per la stretta sull’immigrazione. Primi ricorsi contro il tycoon

Sono già arrivati i primi ricorsi contro la stretta sull’immigrazione decisa dal presidente Donald Trump. Il Jfk, il principale aeroporto di New York, si è trasformato nel simbolo della protesta contro l’ordine esecutivo con il quale ha sospeso temporaneamente l’arrivo di tutti i rifugiati e delle persone provenienti da sette Paesi islamici (Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen). Centinaia di persone si sono riversate davanti ai terminal con cartelli e striscioni favorevoli all’accoglienza, chiedendo la liberazione dei passeggeri detenuti in base al nuovo bando (molti in possesso di regolare green card).

Tra le centinaia di persone che hanno protestato in favore della libertà, anche Micheal Moore, il noto regista “controcorrente”, che dai suoi account social ha sollecitato a prendere parte alla protesta e ha trasmesso una diretta sulla sua pagina Facebook. Migliaia di utenti hanno commentato e condiviso le proprie storie.

Vicinanza a chi è sceso in strada è stata espressa anche da Justin Trudeau, primo ministro canadese, che, di contro a quanto deciso da Trump, si è dimostrato favorevole all’accoglienza: “A tutti coloro che scappano dalle persecuzioni, dal terrore e dalla guerra, i Canadesi sono pronti ad accogliervi, indipendentemente dalla vostra fede religiosa. La diversità è la nostra forza”, ha scritto sulla sua pagina Facebook.

A mettere un po’ di chiarezza nella situazione è stata Ann Donnelly, giudice federale di New York, che ha emesso un’ordinanza di emergenza che temporaneamente impedisce agli Stati Uniti di espellere i rifugiati che provengono dai sette paesi a maggioranza islamica soggetti all’ordine esecutivo emanato dal presidente Donald Trump, che ha congelato gli arrivi da quei paesi per tre mesi. L’ordinanza di emergenza del giudice Donnelly annulla una parte dell’ordine esecutivo del presidente Donald Trump sull’immigrazione, ordinando che i rifugiati e altre persone bloccate negli aeroporti degli Stati Uniti non possono essere rimandate indietro nei loro paesi. Ma il giudice non ha stabilito che queste stesse persone debbano essere ammesse negli Stati Uniti ne’ ha emesso un verdetto sulla costituzionalità dell’ordine esecutivo del presidente.

I legali che hanno citato in giudizio il governo per bloccare l’ordine della Casa Bianca hanno detto che la decisione, arrivata dopo un’udienza di urgenza in una corte di New York, potrebbe interessare dalle 100 alle 200 persone che sono state trattenute al loro arrivo negli aeroporti statunitensi sulla base dell’ordine esecutivo che il presidente Donald Trump ha firmato venerdì pomeriggio, una settimana dopo il suo insediamento.


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Donald Trump presidente degli Stati Uniti: il ruolo chiave della middle-class operaia nel Midwest dietro la vittoria del tycoon

La verità sta nel mezzo, “in the middle”. E, per essere precisi, nella middle-class del Midwest. Le ragioni che hanno portato Donald Trump a diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America non sono né politiche né tantomeno culturali. A poche ore dalla vittoria del tycoon newyorchese si vanno sempre più delineando, se si incrociano i voti ottenuti nei singoli Stati e i dati su economia e lavoro, i motivi che hanno spinto gli americani a credere che fosse The Donald l’uomo giusto per rendere l’America “great again”.

L’American dream, per realizzarsi di nuovo, ha bisogno di depurare il tessuto industriale ed economico dagli effetti della globalizzazione e della delocalizzazione e di rimettere al centro il lavoro del cittadino americano: è questo il messaggio che sembra uscire dalle urne. Per capire, però, gli squilibri economici che hanno reso il terreno fertile per la vittoria di Trump è necessario partire da alcuni dati.

Negli Stati Uniti i numeri ufficiali riportati dall’Ufficio delle Statistiche del lavoro parlano di un tasso di disoccupazione al 4,7%. Un numero che disegna un quadro occupazionale roseo ma che non rappresenta affatto la realtà. Non si tiene conto, infatti, dei cittadini americani che non partecipano al mercato del lavoro, i cosiddetti “not in labour force”: gli inattivi in America ammontano a circa 90 milioni di persone. Cifra considerevole che però scompare dalle stime ufficiali e che disegna una realtà dai contorni più foschi dello stato occupazionale Usa.

Non è finita qui: come ha riportato Martin Wolf sulle pagine del Financial Times, l’incidenza della quota lavoro sul prodotto interno lordo americano è calato, dal 2001 al 2014, dal 64,6% al 60,4%. Si tratta di un dato che conferma come l’evoluzione dell’economia americana verso la finanziarizzazione e l’innovazione tecnologica lasci uno strascico pesante sui redditi delle famiglie. Redditi che sono aumentati del 5,2% tra il 2014 e il 2015 ma restano comunque al di sotto del livello pre-crisi Lehman Brothers.

Come ricorda il giornalista del Sole 24 Ore Vito Lops, inoltre, dal 2008 al 2016 i cittadini americani costretti a ricorrere ai food stamps (buoni alimentari) sono aumentati del 60%, passando da 28 a 45 milioni. E’ in questo contesto che si va ad inserire la vittoria di Donald Trump che ha fatto di tutto, durante la campagna elettorale, per accreditarsi come il vero oppositore dell’establishment e dello status quo, aiutato anche dalla debolezza della sua rivale Hillary Clinton, troppo legata nell’immaginario collettivo ai poteri forti di Wall Street e simbolo della continuità del potere.

La verità “in the middle”, si diceva. E in effetti è il caso di sottolineare il voto di alcuni Stati che rappresentano la spina dorsale della working class americana. Sono le roccaforti del Midwest: il Michigan, con la sua capitale Detroit un tempo centro nodale del modello fordista e oggi piegata dalla crisi industriale, il Wisconsin agricolo e manifatturiero e la Pennsylvania (più orientale ma comunque a trazione industriale) democratica dal 1992, con i suoi 20 Grandi Elettori. E poi il Nord e il Sud Dakota, Iowa e Kansas. Trump ha poi vinto in Ohio, uno degli swing states che con le sue due principali città, Columbus e Cleveland, è un bacino di voti operai impiegati in impianti siderurgici, meccanici, chimici e in particolare di gomma. Ha di certo contribuito, poi, la vittoria in Florida, altro grande stato attenzionato alla vigilia del voto con i suoi 29 Grandi Elettori. Ma, tornando al Midwest, la Clinton è riuscita a far breccia solo nel Minnesota e in Illinois.

Non è un caso: come fa notare il sito Fivethirtyeight fondato dal mago dei sondaggi Nate Silver, gli Stati del Midwest che Trump si è aggiudicato sono quelli più colpiti dalle importazioni di prodotti cinesi. Un’area identificata dall’economista David Autor del Mit come tra le più colpite dagli effetti della globalizzazione e dove le diseguaglianze hanno raggiunto la maggiore ampiezza nella forbice sociale, traducendosi nella perdita di due milioni di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011.

Il 22 ottobre a Gettysburg, nella Pennsylvania che vive una profonda crisi in particolare nel settore siderurgico, Trump ha tenuto il suo discorso programmatico, stipulando un “Contratto con gli elettori americani”, e ha messo in chiaro alcuni punti centrali della Trumponomics: una nuova riforma fiscale che prevede l’abbassamento dell’aliquota fiscale per le aziende dal 35 al 15%; revisione o cancellazione di tutti i trattati commerciali e gli accordi di libero scambio, come il Nafta (per l’America del Nord), Tpp (con i paesi dell’Area pacifica tranne “l’odiata” Cina) e il Ttip che in Europa abbiamo già avuto modo di studiare; l’aumento dei dazi sulle merci importate; la dichiarazione di una “guerra commerciale” alla Cina che ha “stuprato” gli Stati Uniti facendosi artefice del “più grande furto della storia del mondo” grazie alla manipolazione della sua moneta, lo yuan. In sintesi, la transizione da un’economia liberista al protezionismo e all’isolazionismo.

Guerra commerciale alla Cina e ai frutti marci della delocalizzione da un lato, guerra alla finanza di Wall Street e ai lobbisti dall’altro. Così il magnate di New York è riuscito a diventare l’uomo giusto per la middle-class americana, diventando il terminale del sentimento di rivalsa del ceto operaio, rimasto indietro per via dei processi di globalizzazione che hanno favorito quei Paesi più forniti di manodopera a basso costo piegando il settore manifatturiero americano.

Con una propaganda forte e una ricetta economica estremista, Trump ora è chiamato a dar seguito alle promesse fatte nei mesi di campagna elettorale, conciliando il Donald politico con il Donald Presidente degli Stati Uniti. Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva un voto che parla (anche) all’Europa, mostrando tutti i guasti prodotti da un modello economico che ha dimenticato il ruolo centrale delle forze lavoratrici. Il Re è nudo, l’Europa è avvisata.
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