Trump crede nella tortura. “Waterboarding funziona. Dobbiamo rispondere al fuoco con il fuoco”. Verso ordine esecutivo per ripristinare prigioni segrete

Dopo il muro, il fuoco. I primi giorni da presidente non vanno certo sprecati per Donald Trump, tanto da mettere subito le cose in chiaro: non solo la barriera anti migranti da costruire al confine con il Messico ma anche l’assolutà validità dei metodi di tortura americani “perchè dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco”. The Donald tira dritto e parlando nella sua prima intervista post giuramento, alla Abc news, annuncia di credere “assolutamente” nelle torture come il waterboarding. Un metodo, spiega lui, utile per combattere il terrorismo, punto che discuterà con il segretario alla Difesa, James Mattis e il direttore della CIA, Mike Pompeo. Dai due – dice il presidente – ha già avuto conferme sull’efficacia delle torture in ambito militare e le parole di Trump fanno pensare a un ritorno a torture già abbandonate da Cia e servizi segreti.

“Mi affiderò a Pompeo e Mattis ed al mio gruppo e se loro non vorranno, va bene, ma se verranno io mi impegnerò a renderlo possibile, voglio che sia fatto tutto nell’ambito di quello che è legalmente possibile” ha detto il presidente. “Ho parlato nelle ultime 24 ore con persone ai più alti livelli dell’intelligence ed ho chiesto loro: la tortura funziona? e la risposta è stata, assolutamente sì. Quando tagliano la testa dei nostri e di altri, solo perché sono cristiani in Medio Oriente, quando lo Stato Islamico fa cose di cui nessuno ha sentito dai tempi del Medioevo, cosa dovrei pensare del waterboarding? Per quanto mi riguarda, dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco”.

Parole che arrivano a ridosso della possibile firma di Trump su un ordine esecutivo che servirà a ripristinare la detenzione carceraria di sospetti terroristi in strutture blindatissime e segrete e che lasciano immaginare un totale ripristino delle vecchie tecniche di tortura.
“Il presidente può firmare tutti gli ordini esecutivi che vuole ma la legge è la legge. Non possiamo riportare indietro la tortura negli Stati Uniti d’America “, ha detto il senitore John McCain, in contrasto con Trump. Dello stesso parere l’ex capo Cia Leon Panetta che parla di un errore l’idea di reintrodurre certi tipi di tortura negli interrogatori e spiega come questo “violerebbe i valori Usa e la costituzione”. Dalla Gran Bretagna in nome dell’Europa si fa sentire subito Theresa May, pronta ad opporsi alla idea di torture abbozzata da Trump. La May incontrerà The Donald domani ed esporrà al presidente Usa tutto il suo dissenso.

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Appello per 2 Stati in Medio Oriente ma non passa monito a Trump

Una conferenza di pace senza i due protagonisti quella voluta dalla Francia a Parigi, oltre 70 Paesi presenti e un risultato che – secondo il capo del Quai d’Orsay, Jean-Marc Ayrault – rappresenta “una mano tesa”. Esce rafforzata l’ipotesi della “soluzione a due Stati” e si raggiunge una dichiarazione finale. Ma sulla sala delle conferenze incombe l’avvento di Trump alla Casa Bianca e la sua minaccia di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Hanno insistito con decisione molti dei paesi arabi presenti affinché nella dichiarazione finale fosse inserito anche soltanto un accenno di censura alla possibilità che il presidente americano eletto, che si insedierà fra soli 5 giorni, possa rendere operativa la sua idea di considerare di fatto Gerusalemme capitale di Israele. Alla fine, secondo quanto si è appreso da fonti presenti al negoziato, gli arabi si sono convinti a cedere, ma Ayrault ha dovuto fare qualche sforzo in più esponendo diplomaticamente la Francia: “Sarebbe una decisione molto gravida di conseguenze”, ha detto il capo della diplomazia francese, aggiungendo che se ci fosse una decisione del genere si tratterebbe di “una provocazione”.

Lo stesso Ayrault ha parlato di una dichiarazione che rappresenta una “mano tesa” ai due governi, quello di Benyamin Netanyahu – che ha accusato questa conferenza di rappresentare “un passo indietro” e di essere “futile” – e quello di Abu Mazen, che era invece più che disponibile a partecipare ma che, per non irritare ulteriormente il governo israeliano, si è fatto in modo che non fosse presente nei locali del centro conferenze del Quai d’Orsay bensì in un altro edificio. La dichiarazione finale ricalca, grosso modo, quella stilata il 6 gennaio scorso in una preconferenza con alti funzionari e sherpa. E immaginata lo scorso giugno, in una prima edizione di questa conferenza, con un numero molto inferiore di partecipanti.

Oggi, all’ultimo momento, è saltata anche la presenza del nuovo segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che si è fatto rappresentare dall’inviato speciale Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov. Presenti invece sia il segretario di Stato Usa uscente, John Kerry, sia l’alto rappresentante per la politica estera Ue, Federica Mogherini. Alfano ha insistito sul ruolo dell’Italia, determinante con il suo “contributo” per l’inserimento nella dichiarazione finale di almeno due elementi precisi: le violenze, l’incitamento al terrorismo, le parole ‘che infiammano’, tutti elementi dai quali vengono messe in guardia le due parti. E l’impossibilità di sostituire, in qualsiasi modo, “il negoziato diretto fra le due parti”, elemento indispensabile per ogni passo avanti. E’ emersa “una posizione equilibrata grazie anche al nostro contributo”, ha sottolineato il titolare della Farnesina, secondo il quale il problema del Medio Oriente non può ridursi agli insediamenti israeliani: “C’è il tema di chi incita alla violenza e chi considera eroi o martiri i terroristi. Finché sarà così, non ci sarà pace e sicurezza in Israele”.

La Conferenza di Parigi era stata convocata per rianimare un processo di pace che, agli occhi di Parigi, sta stagnando, e al quale farebbe ombra soprattutto la situazione siriana e quella più in generale dei territori in mano all’Isis. Il timore di Israele e Stati Uniti – stavolta concordi nella contrarietà ad inserire nella dichiarazione finale il nodo di Gerusalemme, Kerry si è opposto in modo piuttosto netto – era che un documento troppo sbilanciato diventasse la base di discussione domani a Bruxelles del Consiglio dei ministri degli Esteri Ue (al quale Alfano si recherà direttamente da Parigi); e soprattutto che desse sostanza a un’ipotetica ‘dichiarazione’ dell’altrettanto imminente riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che avrebbe potuto fare proprio il documento uscito dalla conferenza di oggi. Un’eventualità che la diplomazia ha dovuto sventare, a cinque giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, un evento che ha pesato in modo determinante su un appuntamento già considerato soltanto simbolico come quello di Parigi.
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Andrea Bocelli rifiuta di esibirsi per Donald Trump dopo le polemiche. Ma il presidente ribatte: “Mai invitato”

L’ira dei fan avrebbe convinto Andrea Bocelli a non esibirsi alla cerimonia di insediamento di Donald Trump: a riferirlo sono alcune fonti al New York Post, secondo le quali il tenore italiano ha deciso di fare un passo indietro perché “la situazione si stava animando troppo”.

Nei giorni scorsi, dopo che si è diffusa la notizia di una sua possibile esibizione a Washington il 20 gennaio, i suoi fan sono insorti minacciando di boicottarlo e lanciando l’hashtag #BoycottBocelli. “Secondo Trump Bocelli non canterà a causa del contraccolpo della notizia – hanno affermato le fonti – e ha sottolineato come sia triste che la gente di sinistra faccia sì che non si esibisca in un giorno storico”.

Il presidente in pectore è un grande sostenitore del tenore, che ha già cantato per lui ad una festa privata nel suo resort Mar-a-Lago, in Florida. I due si sono anche incontrati di persona la settimana scorsa alla Trump Tower, come ha confermato la consigliera del tycoon, Kellyanne Conway.

In seconda battuta tuttavia pare che The Donald abbia tuonato di non aver mai chiesto ad Andrea Bocelli di esibirsi per la cerimonia di insediamento a Washington: lo ha detto Tom Barrack, presidente del Presidential Inaugural Committee, in un’intervista a Cnbc.

“Bocelli e la moglie sono amici di Trump”, ha affermato, precisando che il tenore avrebbe preso in considerazione l’idea di esibirsi se il tycoon glielo avesse chiesto. “Ma Donald gli ha detto: ‘non c’è bisogno, grazie per l’offerta, sarai sempre benvenuto alla Casa Bianca”, ha continuato a raccontare Barrack. Commentando le notizie dei media Usa secondo le quali Bocelli avrebbe rifiutato di cantare, ha poi sottolineato: “Le cose non sono mai arrivate al ‘puoi venire… verrai…
verresti…’ sono solo grandi amici, ecco tutto”.

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Ecco perché Micheal Moore crede che Donald Trump “ci farà uccidere”

Se Donald Trump si rifiuterà ancora di partecipare alle riunioni quotidiane dell’intelligence, l’America si ritroverà ad affrontare seri problemi secondo Micheal Moore.

Martedì, il regista di “Bowling a Columbine” ha firmato un pesante attacco a Trump in un lungo pezzo postato su Facebook dal titolo “Donald Trump ci farà uccidere” in cui paragonava il nuovo presidente all’ex George W. Bush.

Secondo Moore, i consueti briefing sullo stato della sicurezza nazionale U.S.A sono un elemento fondamentale per guidare il paese, considerate le minacce reali che la nazione si trova ad affrontare. Bush e la sua amministrazione, afferma, hanno ignorato gli stessi rapporti per cui Trump dice di non avere tempo, quelli in cui si asseriva che Osama Bin Laden stava pianificando un attacco terroristico in territorio americano.

Da scrupoloso osservatore della vita politica, Moore ci ha avvisati che la storia si va ripetendo.

“Abbiamo già avuto un presidente così. Anche lui perse l’approvazione popolare e la maggioranza degli americani affermò di non volerlo allo Studio Ovale. Ma gli incaricati da suo fratello/governatore e da suo padre/ex-capo della CIA alla Corte Suprema misero a tacere tutto e lui venne nominato comandante in capo”, ha scritto Moore.

“Il 6 agosto del 2001, si trovava nel suo ranch in Texas per una vacanza di un mese. Quel mattino, dalla Casa Bianca gli venne trasmesso il rapporto quotidiano sulla sicurezza nazionale. Vi diede un’occhiata, lo mise da parte e andò a pescare per il resto della giornata. Di seguito, una foto di quel momento che ho mostrato al mondo in “Fahrenheit 9/11’. Il titolo del briefing recita: BIN LADEN DECISO A COLPIRE GLI STATI UNITI”. La prima pagina spiega in che modo avesse intenzione di farlo: utilizzando degli arei. George W. Bush non lasciò il ranch per tornare al lavoro per le successive quattro settimane. Durante la quinta, Bin Laden attaccò gli Stati Uniti, con degli aerei, l’undici settembre”.

L’ex presidente Bush rese pubblici i riferimenti di Moore al briefing nel 2004, durante la commissione d’inchiesta sull’undici settembre. Lo stesso Trump ha tirato in ballo l’episodio il 20 ottobre del 2015 in occasione del secondo dibattito presidenziale repubblicano.
Nel corso di un’intervista per Fox News Sunday, Trump ha affermato di non aver bisogno di aggiornamenti quotidiani sulla sicurezza nazionale, perché è “una persona intelligente”. Secondo quanto riportato, il nuovo presidente esaminerebbe l’intelligence circa una volta a settimana.

“Non c’è bisogno che me lo dicano, sapete, sono una persona intelligente. Non c’è bisogno che mi dicano la stessa cosa, con le stesse parole, ogni santo giorno”, ha affermato Trump.

Moore, naturalmente, è in totale disaccordo con questa posizione: ha scritto che è compito del presidente “prestare attenzione” e non perdere il proprio tempo a “twittare e difendere Putin”.

“A lei, signor Trump, dico questo: quando ci sarà il prossimo attentato terroristico, sarà lei ad essere accusato dal popolo americano di aver totalmente trascurato il suo dovere”, continua Moore. “Era compito SUO fare attenzione, proteggere il paese. Ma era troppo impegnato a twittare e difendere Putin, a nominare membri del Gabinetto per scardinare il governo. Non aveva tempo da dedicare ai briefing sulla sicurezza nazionale. Non creda che le lasceremo usare una versione moderna dell’incendio del Reichstag come scusa per eliminare le nostre libertà civili e la nostra democrazia”.

“Ci ricorderemo che, mentre veniva ordita una trama per uccidere gli americani, il suo tempo andava sprecato con chi, secondo lei, rappresenta la vera minaccia del paese: Alec Baldwin con una parrucca”, conclude Moore.

Di seguito, il post completo e la traduzione.

Donald Trump ci farà ammazzare. di Michael Moore

È passata una settimana da quanto Donald Trump ha ammesso di aver partecipato soltanto a “due o tre” riunioni quotidiane sulla sicurezza nazionale. Ce ne sono state 36 dal giorno in cui si è assicurato voti sufficienti per essere nominato presidente il lunedì successivo, quando il Collegio Elettorale si è riunito.
I più converrebbero sul fatto che il compito primario del leader di un paese sia tenere al sicuro il suo popolo. Per un presidente non c’è appuntamento più importante, ogni giorno, di quello in cui apprende quali sono le potenziali minacce per il suo paese. Il fatto che Trump possa ritenere troppo difficile o troppo seccante starsene seduto per 20 minuti ad ascoltare lo staff del suo intelligence che lo informa di chi sta cercando di ucciderci oggi, lascia semplicemente allibiti.
Certo, quest’uomo folle ci ha sconvolti talmente tante volte nell’ultimo anno che nessuno sembra così sorpreso o preoccupato. È capace di svegliarsi alle cinque del mattino e digitare tweet furiosi e puerili sul modo in cui viene dipinto al Saturday Night Light (Non è divertente! Inguardabile!) o denigrando il locale leader democratico eletto in Indiana, ma non ha il tempo per informarsi sulle minacce alla nostra sicurezza nazionale”.
Dunque, miei concittadini americani, quando ci sarà il prossimo attentato (e ci sarà, lo sappiamo tutti), e una volta finita la tragedia, davanti alla morte e alla distruzione che potevano essere evitate, vedrete Donald Trump affrettarsi ad incolpare chiunque tranne sé stesso. Sospenderà i diritti costituzionali. Radunerà chiunque reputi un pericolo. Dichiarerà Guerra, e il congresso Repubblicano lo spalleggerà.
E nessuno si ricorderà che non stava prestando la dovuta attenzione alla minaccia crescente. Che non stava partecipando ai briefing quotidiani sulla sicurezza nazionale. Era intento a giocare a golf, ad incontrare celebrità, a fare le tre di notte twittando di quanto sia faziosa la CNN. Ha affermato che non ha bisogno di aggiornarsi. “Sapete, credo di essere sveglio. Non ho bisogno di sentire la stessa cosa ripetutamente, ogni giorno per otto anni”. Ecco quanto affermato a Fox News l’undici dicembre quando gli è stato chiesto come mai non partecipasse alle riunioni sulla sicurezza. Non dimenticate questa data e la sua arroganza quando, l’anno prossimo, seppelliremo i morti.
Abbiamo già avuto un presidente così. Anche lui ha perso il voto popolare ed una maggioranza di americani ha affermato di non volerlo nello Studio Ovale. Ma gli incaricati da suo fratello/governatore e da suo padre/ex-capo della CIA alla corte Suprema misero fine a tutto quello, e lui venne nominato comandante in capo. Il 6 agosto del 2001, era nel suo ranch in Texas per una vacanza di un mese. Quel mattino, dalla Casa Bianca gli venne trasmesso il rapporto quotidiano sulla sicurezza nazionale. Vi diede un’occhiata, lo mise da parte e andò a pescare per il resto della giornata. Di seguito, una foto di quel momento che ho mostrato al mondo in “Fahrenheit 9/11’. Il titolo del briefing recita: BIN LADEN DECISO A COLPIRE GLI STATI UNITI”. La prima pagina spiega in che modo avesse intenzione di farlo: utilizzando degli arei. George W. Bush non lasciò il ranch per tornare al lavoro, per le successive quattro settimane. Durante la quinta, Bin Laden attaccò gli Stati Uniti, con degli aerei, l’undici settembre.
Un conto è avere un presidente che si addormenta al volante. Ma, amici miei, tutt’altra cosa è avere un presidente entrante che si RIFIUTA DI METTERSI AL VOLANTE. Quest’assoluta negligenza, la mancanza di rispetto verso le persone che lavorano per proteggerci, il primo Comandante in Capo che diventa assente ingiustificato e annuncia con orgoglio che non cambierà… questo, ve lo assicuro, porterà alla morte di tante persone innocenti.
A lei, signor Trump, dico questo: quando ci sarà il prossimo attentato terroristico, sarà lei ad essere accusato dal popolo americano di aver totalmente trascurato il suo dovere. Era compito SUO fare attenzione, proteggere il paese. Ma era troppo impegnato a twittare e difendere Putin, a nominare membri del Gabinetto per scardinare il governo. Non aveva tempo da dedicare ai briefing sulla sicurezza nazionale. Non creda che le lasceremo usare una versione moderna dell’incendio del Reichstag come scusa per eliminare le nostre libertà civili e la nostra democrazia. Ci ricorderemo che, mentre veniva ordita una trama per uccidere gli americani, il suo tempo andava sprecato con chi, secondo lei, rappresenta la vera minaccia del paese: Alec Baldwin con una parrucca”.

Questo articolo è stato pubblicato su HuffPostUsa ed è stato tradotto dall’inglese da Milena Sanfilippo.

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Donald Trump lavora alla sua squadra ma già è stallo su Rudy Giuliani come segretario di Stato

Succede tutto dietro porte chiuse, molto ai piani alti della Trump Tower sulla Quinta Strada a Manhattan dove il presidente eletto Donald Trump e il suo vice Mike Pence si incontrano per fitte consultazioni volte a definire la squadra di governo. Perchè le diverse anime politiche che hanno portato all’elezione del tycoon adesso sono in aperta collisione, sulle nomine e sulle caselle da riempire, quindi sulla linea da dare alla nuova amministrazione americana nonostante la promessa di una “rivoluzione commerciale” che “romperà con le ali globaliste sia di repubblicani che di democratici” a dare l’impronta dei suoi primi 200 giorni di lavoro. Il fronte è spaccato a partire dalla paventata nomina di Rudy Giuliani come segretario di Stato.

La conferma tarda a arrivare perchè la scelta è controversa: in queste ore si ricorda infatti un potenziale conflitto di interessi date alcune attività di consulenza dell’ex sindaco che rimandano ad alcuni paesi chiave, dal Venezuela di Hugo Chavez all’Arabia Saudita. Se ne era già parlato quando nel 2007 Giuliani aveva tentato la sua di corsa per la Casa Bianca, oggi però le sottolineature di fonti di stampa hanno effetto amplificato dopo che per l’intera campagna elettorale Donald Trump e il suo fronte si sono scagliati contro la Clinton Foundation e i dubbi sulla sua lista di donatori, presentato come limite insormontabile per la credibilità della rivale democratica Hillary Clinton poi sconfitta. Ma anche la promessa di smantellare quelle zone grigie in cui a Washington si incontrano politica e grandi interessi rappresentati da un esercito di lobbisti.

L”organigramma” con focus sulla politica Estera e di Sicurezza nazionale della nuova Casa Bianca emerge quindi al centro di una lotta intestina che rischia di rallentare oltre il dovuto il processo di transizione verso l’insediamento il prossimo 20 gennaio. Fonti parlando di stallo e confusione conclamata, il cui simbolo oggi è il ritiro dalla transition team (secondo alcuni è stato scaricato) di Mike Rogers, ex deputato che ha presieduto la commissione della Camera sull’intelligence.

Nei giorni scorsi Chris Christie era stato messo da parte e l’impresa era stata affidata al vicepresidente eletto Mike Pence con lo sguardo a Washington, ma non basta. Tra i fedelissimi risulta escluso anche Ben Carson, che dice di non volere un posto nell’amministrazione per mancanza di esperienza a livello governativo, sembra tuttavia che nessuna proposta in quel senso era comunque arrivata. Nel limbo al momento resta anche Kellyanne Conway, l’ultima dei diversi responsabili della campagna elettorale cambiati da Trump durante la corsa (tra questi Corey Lewandoski sul quale pare ci sia addirittura un esplicito veto).

Intanto su Capitol Hill il cielo si rasserena, almeno apparentemente, con le nuvole squarciate dalla conferma di Paul Ryan per la nomina ad un secondo mandato da Speaker della Camera. Lo hanno votato all’unanimità i deputati repubblicani e la conferma è attesa a gennaio con il voto dell’intera aula. Il dado però è tratto per Ryan, pronto ad essere lo Speaker dell’era Trump e l”unificatore”. Lo ha confermato lui stesso oggi nella sua prima uscita dopo l’elezione del tycoon, affermando: “Benvenuti all’alba di un nuovo governo repubblicano unito”.
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Matteo Renzi mette la veste anti-establishment. “Vogliamo cambiare Italia e Ue”. Trump? “Da presidente sarà diverso”

Interpretare il cambiamento. Questa la strada che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca, questa la figura che Matteo Renzi prova a interpretare per vincere il referendum, dopo il quale l’Italia “tornerà protagonista nel mondo”, e per riformare l’Europa.

“Penso che Donald Trump abbia interpretato il cambiamento in maniera più radicale rispetto a Hillary Clinton – afferma Matteo Renzi a Che Tempo Che Fa, su Raitre – C’è l’ansia di cambiare, di poter entrare nel futuro, con tutte le inquietudini di un futuro che fa anche paura. Io comprendo che ci sia un bisogno di cambiare, ma mi domando chi rappresenti in Europa o in Italia questo cambiamento, chi sia davvero anti-establishment. Io da due anni sono al governo di questo paese. Sto cercando un passettino alla volta di cambiare le cose. Cosa chiedono i cittadini che andranno a votare? Secondo me chiedono di voltare pagina e questa riforma è un treno che ripassa tra 20 anni, se ripassa, abbiamo fatto una fatica pazzesca ad arrivare fino a qua”. L’uomo del cambiamento, come Renzi prova a descriversi, è anche quello che non accetta la palude: “Se si deve Stare nel pantano è bene che ci vada qualcun altro”. dice, “vengano altri, i professionisti del galleggiamento”. Una frase che lascia intendere che in caso di vittoria del No confermerà quanto detto mesi fa, che lascerà Palazzo Chigi.

Renzi è pronto a collaborare con Donald Trump, ma aspetta di capire come si comporterà alla Casa Bianca. “La vittoria di Trump non era attesa, ora è difficile capire che presidente sarà, ma io credo che il Trump presidente sarà diverso dal Trump candidato”. Si sono sentiti al telefono, “ci siamo salutati con un ciao alla fine. Sono molto ottimista sul fatto che Italia e Stati Uniti istituzionalmente continueranno a lavorare bene, anche se poi ognuno ha le sue opinioni e valutazioni”.

Trump resta però un caso a parte. “Vedo molti politici italiani che si sono specializzati in commenti elettorali. Vedo Salvini – prosegue Renzi – che sembra che abbia vinto lui. Gli ricordo che le ultime vittorie elettorali della Lega sono a Gallarate e Cascina, non in Michigan e Wisconsin. Non è che quello che accade negli Usa si traduce nella vittoria della Le Pen in Francia o di Grillo in Italia”. I sondaggi spesso sbagliano, “spero anche in Italia, visto quello che dicono sul referendum” chiosa il premier.

Renzi pronta a presentarsi come l’uomo del cambiamento dell’Italia, tramite le riforme costituzionali, e dell’Europa. Il referendum è un’occasione storica, dice, “io ho 41 anni e vedo la fatica che si fa a cambiare le cose. Da qui a 20 giorni gli italiani decidono il loro futuro”. Cambia “la semplicità di fare investimenti, la velocità di fare le leggi”. Dopo, “se superiamo l’ostacolo saremo protagonisti in Europa e nel mondo” assicura Renzi. La novità politica è il suo sostegno al documento del Pd sulla legge elettorale, per spazzare via lo spettro del combinato disposto dell’Italicum con la riforma costituzionale. “Ma questo referendum non è il congresso del Pd, chi vuole farlo deve aspettare il 5 dicembre. Speriamo che li facciano anche gli altri, invece di stare su un blog o di far decidere tutto a uno”.

La battaglia europea prosegue, Renzi torna a minacciare di porre il veto sul bilancio. “L’Europa che conosco io non mi impedisce di mettere a posto le scuole, la stabilità dei burocrati a Bruxelles è meno importante della stabilità dei nostri ragazzi nelle scuole. Se c’è bisogno si mette il veto e l’anno prossimo faranno fatica a chiuderlo senza di noi. Se vogliono fare dei muri, non li faranno con i nostri soldi. Il sogno europeo è la pace e abbattere i muri”.

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Donald Trump, “social network determinanti per la mia vittoria”. Userà Twitter anche da presidente, “ma sarò misurato”

Donald Trump continuerà ad usare Twitter anche quando si insedierà alla Casa Bianca come presidente degli Stati Uniti, ma “sarò molto misurato”. Lo afferma il presidente eletto in un’intervista alla Cbs che andrà in onda oggi.

Durante la campagna elettorale il tycoon ha usato Twitter come un’arma offensiva elettoralmente molto efficace ma politicamente controversa, ricorrendo spesso a dichiarazioni forti e provocatorie. Il New York Times ha scritto pochi giorni prima delle elezioni che il suo staff riteneva controproducente l’uso che Donald Trump faceva del suo account Twitter al punto da sottrargli la gestione. Trump oggi può però affermare che i social media sono una “moderna forma di comunicazione” che ha svolto un ruolo chiave nella sua vittoria elettorale.

Trump dice che Twitter, Facebook e Instagram, con un combinato di 28 milioni di followers, lo hanno aiutato a vincere le primarie prima e le elezioni generali poi, malgrado i suoi rivali avessero “speso molti più soldi di me”. “Ho vinto – dice ancora Trump – e penso che i social network abbiamo più potere dei soldi che gli altri hanno speso, penso in una certa misura di averlo dimostrato”.

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Donald Trump presidente degli Stati Uniti: il ruolo chiave della middle-class operaia nel Midwest dietro la vittoria del tycoon

La verità sta nel mezzo, “in the middle”. E, per essere precisi, nella middle-class del Midwest. Le ragioni che hanno portato Donald Trump a diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America non sono né politiche né tantomeno culturali. A poche ore dalla vittoria del tycoon newyorchese si vanno sempre più delineando, se si incrociano i voti ottenuti nei singoli Stati e i dati su economia e lavoro, i motivi che hanno spinto gli americani a credere che fosse The Donald l’uomo giusto per rendere l’America “great again”.

L’American dream, per realizzarsi di nuovo, ha bisogno di depurare il tessuto industriale ed economico dagli effetti della globalizzazione e della delocalizzazione e di rimettere al centro il lavoro del cittadino americano: è questo il messaggio che sembra uscire dalle urne. Per capire, però, gli squilibri economici che hanno reso il terreno fertile per la vittoria di Trump è necessario partire da alcuni dati.

Negli Stati Uniti i numeri ufficiali riportati dall’Ufficio delle Statistiche del lavoro parlano di un tasso di disoccupazione al 4,7%. Un numero che disegna un quadro occupazionale roseo ma che non rappresenta affatto la realtà. Non si tiene conto, infatti, dei cittadini americani che non partecipano al mercato del lavoro, i cosiddetti “not in labour force”: gli inattivi in America ammontano a circa 90 milioni di persone. Cifra considerevole che però scompare dalle stime ufficiali e che disegna una realtà dai contorni più foschi dello stato occupazionale Usa.

Non è finita qui: come ha riportato Martin Wolf sulle pagine del Financial Times, l’incidenza della quota lavoro sul prodotto interno lordo americano è calato, dal 2001 al 2014, dal 64,6% al 60,4%. Si tratta di un dato che conferma come l’evoluzione dell’economia americana verso la finanziarizzazione e l’innovazione tecnologica lasci uno strascico pesante sui redditi delle famiglie. Redditi che sono aumentati del 5,2% tra il 2014 e il 2015 ma restano comunque al di sotto del livello pre-crisi Lehman Brothers.

Come ricorda il giornalista del Sole 24 Ore Vito Lops, inoltre, dal 2008 al 2016 i cittadini americani costretti a ricorrere ai food stamps (buoni alimentari) sono aumentati del 60%, passando da 28 a 45 milioni. E’ in questo contesto che si va ad inserire la vittoria di Donald Trump che ha fatto di tutto, durante la campagna elettorale, per accreditarsi come il vero oppositore dell’establishment e dello status quo, aiutato anche dalla debolezza della sua rivale Hillary Clinton, troppo legata nell’immaginario collettivo ai poteri forti di Wall Street e simbolo della continuità del potere.

La verità “in the middle”, si diceva. E in effetti è il caso di sottolineare il voto di alcuni Stati che rappresentano la spina dorsale della working class americana. Sono le roccaforti del Midwest: il Michigan, con la sua capitale Detroit un tempo centro nodale del modello fordista e oggi piegata dalla crisi industriale, il Wisconsin agricolo e manifatturiero e la Pennsylvania (più orientale ma comunque a trazione industriale) democratica dal 1992, con i suoi 20 Grandi Elettori. E poi il Nord e il Sud Dakota, Iowa e Kansas. Trump ha poi vinto in Ohio, uno degli swing states che con le sue due principali città, Columbus e Cleveland, è un bacino di voti operai impiegati in impianti siderurgici, meccanici, chimici e in particolare di gomma. Ha di certo contribuito, poi, la vittoria in Florida, altro grande stato attenzionato alla vigilia del voto con i suoi 29 Grandi Elettori. Ma, tornando al Midwest, la Clinton è riuscita a far breccia solo nel Minnesota e in Illinois.

Non è un caso: come fa notare il sito Fivethirtyeight fondato dal mago dei sondaggi Nate Silver, gli Stati del Midwest che Trump si è aggiudicato sono quelli più colpiti dalle importazioni di prodotti cinesi. Un’area identificata dall’economista David Autor del Mit come tra le più colpite dagli effetti della globalizzazione e dove le diseguaglianze hanno raggiunto la maggiore ampiezza nella forbice sociale, traducendosi nella perdita di due milioni di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011.

Il 22 ottobre a Gettysburg, nella Pennsylvania che vive una profonda crisi in particolare nel settore siderurgico, Trump ha tenuto il suo discorso programmatico, stipulando un “Contratto con gli elettori americani”, e ha messo in chiaro alcuni punti centrali della Trumponomics: una nuova riforma fiscale che prevede l’abbassamento dell’aliquota fiscale per le aziende dal 35 al 15%; revisione o cancellazione di tutti i trattati commerciali e gli accordi di libero scambio, come il Nafta (per l’America del Nord), Tpp (con i paesi dell’Area pacifica tranne “l’odiata” Cina) e il Ttip che in Europa abbiamo già avuto modo di studiare; l’aumento dei dazi sulle merci importate; la dichiarazione di una “guerra commerciale” alla Cina che ha “stuprato” gli Stati Uniti facendosi artefice del “più grande furto della storia del mondo” grazie alla manipolazione della sua moneta, lo yuan. In sintesi, la transizione da un’economia liberista al protezionismo e all’isolazionismo.

Guerra commerciale alla Cina e ai frutti marci della delocalizzione da un lato, guerra alla finanza di Wall Street e ai lobbisti dall’altro. Così il magnate di New York è riuscito a diventare l’uomo giusto per la middle-class americana, diventando il terminale del sentimento di rivalsa del ceto operaio, rimasto indietro per via dei processi di globalizzazione che hanno favorito quei Paesi più forniti di manodopera a basso costo piegando il settore manifatturiero americano.

Con una propaganda forte e una ricetta economica estremista, Trump ora è chiamato a dar seguito alle promesse fatte nei mesi di campagna elettorale, conciliando il Donald politico con il Donald Presidente degli Stati Uniti. Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva un voto che parla (anche) all’Europa, mostrando tutti i guasti prodotti da un modello economico che ha dimenticato il ruolo centrale delle forze lavoratrici. Il Re è nudo, l’Europa è avvisata.
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Donald Trump presidente, il sito immigrazione canadese in tilt per le troppe richieste di accesso

Il sito ufficiale del Canada dedicato ai servizi di informazione per ottenere il visto d’ingresso – immigration service – è “irraggiungibile”. Lo riferiscono i media internazionali i quali sottolineano che “il tilt è probabilmente legato” alla vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa. Evidentemente c’è chi sta pianificando di lasciare gli Stati Uniti per trasferirsi nella nazione vicina.

Il primo Ministro canadese Justin Trudeau aveva scherzato quando aveva detto di essere disposto a dare il benvenuto agli americani; ma la sua potrebbe rivelarsi una profezia. A febbraio disse che il Canada “dà sempre il benvenuto”. Si stima che circa un milione di americani stia vivendo attualmente in Canada.

Anche le autorità dell’immigrazione della Nuova Zelanda hanno dichiarato che dal primo novembre il sito web New Zealand Now, che si occupa di visti di residenza e studenteschi, ha ricevuto 1.953 registrazioni da cittadini americani: il numero è più che doppio rispetto al numero consueto di una settimana tipica. Le visite al sito web dagli Usa sono aumentate dell’80% a 41mila dal 7 ottobre al 7 novembre, paragonato allo scorso anno.


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Donald Trump sbircia il voto di Melania, ironia sul web: controlla che stia votando per lui?

Donald Trump sembra buttare un occhio sul voto di Melania. L’immagine dei coniugi Trump che votano uno accanto all’altra, con Donald che sembra sbirciare il voto della moglie è stata ripresa dalla Cnn. E subito ha scatenato le ironie di molti utenti su Twitter, che si sono chiesti se Donald aveva dei dubbi sul voto di Melania.

Donald e Melania hanno votato a New York, in un seggio nell’Upper East Side. Trump, con indosso una cravatta blu, ha salutato i suoi sostenitori. Accanto Melania, vestita di bianco con grandi occhiali e cappotto color cammello. Trump si sofferma con un bambino, che ha allestito un banchetto all’interno del seggio per vendere dei biscotti. Trump ne acquista uno e lo paga al bimbo. Al suo arrivo al seggio Trump è stato accolto dagli applausi e il saluto di molti elettori in fila, ma anche da alcuni fischi. Prima del suo arrivo una donna a seno nudo con una scritta anti-Trump introdottasi nel seggio è stata portata via dagli agenti. Quando i giornalisti gli hanno chiesto del voto, il tycoon ha scherzato: “E’ una decisione molto difficile”. Accanto a lui, oltre alla moglie Melania anche la figlia Ivanka accompagnata da uno dei figli.


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