Ivanka Trump avrà un ufficio alla Casa Bianca e potrà accedere a diverse informazioni riservate

Il ruolo di Ivanka Trump nell’amministrazione di suo padre sta diventando sempre più importante. Sebbene non abbia alcun incarico pubblico ufficiale, la figlia del presidente sta allestendo un nuovo ufficio personale nell’Ala ovest della Casa Bianca.

Secondo quanto riporta Politico la figlia più grande di Trump, non soltanto avrà un nuovo ufficio nella “West Wing”ma presto potrà anche accedere a diverse informazioni riservate. Inoltre Ivanka avrà a disposizione alcuni dispositivi di sicurezza tra cui computer e cellulari rilasciati dal governo statunitense. Questo farà di lei sostanzialmente un membro a tempo pieno dello staff di suo padre anche se non percepirà uno stipendio.

Un’altra indiscrezione lanciata dal New York Times sostiene che Ivanka si stia preparando per un nuovo ruolo alla Casa Bianca e avrebbe così deciso di cedere il controllo del suo marchio di moda a Abigal Kleim , attualmente presidente dell’azienda, e di intestare il patrimonio ad alcuni parenti di suo marito così da evitare potenziali conflitti di interesse.

Da quando Donald Trump si è insediato il ruolo di Ivanka alla Casa Bianca è sempre stato un grande punto interrogativo, suo marito Jared Kushner è consigliere ufficiale del presidente e la primogenita del presidente ha partecipato a diversi incontri ufficiali compreso quello di pochi giorni fa con la cancelliera tedesca Angela Merkel.

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Scott Pruitt “negazionista” del cambiamento climatico. Il capo dell’Ambiente dell’amministrazione Trump contro la scienza

Non c’è un ambientalista all’Ambiente. Scott Pruitt, responsabile dell’Agenzia per la protezione dell’Ambiente (Epa) a Washington, non cambia le sue convinzioni, già più volte espresse in passato: l’attività umana non c’entra nulla con il riscaldamento globale. Donald Trump lo ha scelto anche per questo, ha già più volte espresso la sua contrarietà alle limitazioni “green” alle attività industriali e si rafforza la teoria per cui verrà spazzato via il Clean Power Plan di Barack Obama, che pone un limite alle emissioni degli impianti per la generazione di energia elettrica.

Pruitt non crede che l’inquinamento e l’attività umana siano una causa dei cambiamenti climatici. “Penso sia molto difficile misurare l’impatto dell’attività umana sul clima e che vi sia enorme disaccordo sul grado di questo impatto. Non sono d’accordo che sia una causa primaria del riscaldamento del clima a cui stiamo assistendo”, ha detto intervenendo in un talk show dell’emittente Cnbc. “Quindi no, non sono d’accordo nel dire che l’anidride carbonica sia un’importante causa del riscaldamento climatico”.

Le convinzioni del nuovo capo dell’Agenzia per la protezione dell’Ambiente sono per altro in netto contrasto con quanto afferma il sito della stessa agenzia, secondo il quale “è estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante” dei riscaldamento climatico. Concetto che è riconosciuto dall’insieme della comunità scientifica internazionale ed è alla base degli accordi di Parigi sul clima. La sua posizione cozza contro quella della Nasa e della Noaa, l’agenzia americana oceanica e atmosferica, che hanno entrambe affermato a gennaio che il cambiamento climatico era “ampiamente determinato dall’aumento di anidride carbonica e da altre emissioni di origine antropica”.

Scott Pruitt ha anche denunciato l’accordo di Parigi, definendolo un “cattivo accordo”. Secondo cui “avrebbe dovuto essere gestito come un trattato e quindi passare per l’approvazione del Senato. È inquietante”. In passato Pruitt ha mosso oltre una decina di processi contro l’agenzia dell’ambiente al fianco di industriali e lobbisti per bloccare diverse normative sull’inquinamento dell’aria o delle acque.

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Potere contro potere. Trump sfida di nuovo i giudici con il Travel ban e dà un altro schiaffo all’intelligence

Non si placa la tempesta istituzionale innescata dalle ultime mosse del presidente Trump. Lo scontro tra poteri è ormai all’ordine del giorno, con la Casa Bianca che continua a sfidare sia la magistratura che le agenzie d’intelligence. Il nuovo bando sull’immigrazione – subito definito “legale” dal segretario alla Giustizia Jeff Sessions – rappresenta una nuova sfida al potere giudiziario. Malgrado le differenze rispetto alla prima versione, infatti, il nuovo ordine esecutivo non solo non stravolge, ma conferma l’impianto del precedente. A differenza del primo decreto, questa seconda versione esclude dalla “lista nera” l’Iraq ed esplicita che il bando non vale per i detentori di green card e per chi è già in possesso di un visto. Il testo, più dettagliato rispetto al primo, insiste sulla funzione del bando: garantire la sicurezza nazionale. Ma ha comunque incontrato le critiche dei democratici e degli attivisti per i diritti umani, secondo cui si tratta di un altro Muslim ban, sebbene più sfumato.

Sul fronte dell’intelligence, l’attacco a Obama – accusato di aver ordinato intercettazioni illegali alla Trump Tower durante la campagna elettorale – ha alzato il livello dello scontro, spingendo a intervenire anche il direttore dell’Fbi, James Comey. Il quale ha esortato il Dipartimento di Giustizia a respingere pubblicamente le accuse di Trump al suo predecessore, prendendosi un altro schiaffo in faccia – l’ennesimo – dalla squadra di The Donald.

Trump non accetta le dichiarazioni di Comey sulla falsità delle accuse al suo predecessore, ha dichiarato la portavoce della Casa Bianca Sarah Huckabee Sanders in un’intervista all’emittente Abc. “Chiediamo solo che il Congresso faccia il proprio lavoro, che la Commissione Intelligence della Camera indaghi”, ha aggiunto la Sanders.

Da difficili che erano, i rapporti tra la Casa Bianca e le agenzie d’intelligence – Fbi e Nsa – sono diventati impossibili, dopo la raffica di tweet con cui Trump ha accusato Obama di aver fatto intercettare i suoi telefoni durante la campagna elettorale, agitando lo spettro del Nixon/Watergate. Accuse talmente gravi da spingere il numero uno dell’Fbi a chiedere al ministero della Giustizia di smentire pubblicamente le asserzioni del presidente. Ma la Casa Bianca non sembra disposta ad alcuna marcia indietro, anzi: tramite una sua portavoce, Trump ha fatto sapere di non credere alle dichiarazioni di Comey (secondo cui lo spionaggio non si è mai verificato) e ribadito la richiesta di un’indagine da parte della Commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti.

Dopo la smentita di Obama, che ha bollato le accuse come falsità assolute, l’intervento di Comey ha riacceso la lotta tra la nuova amministrazione e le agenzie d’intelligence, già accusate da Trump di essere dietro alle molte fughe di notizie che hanno caratterizzato l’avvio della sua presidenza. Questa volta, però, per i big dell’intelligence Trump l’ha sparata troppo grossa: intercettazioni di quel genere, infatti, sarebbero illegali, dato che il presidente statunitense non ha il potere di ordinare l’ascolto delle conversazioni telefoniche di qualsiasi cittadino. A dirimere la questione dovrebbe essere il Congresso, con un’indagine affidata appunto alla Commissione sui servizi della Camera.

Lo staff presidenziale ha detto che non ci saranno più commenti fino a nuovi sviluppi e, tornato a Washington dalla sua residenza in Florida, Trump non ha effettivamente rilanciato in alcun modo. Ma i media – in particolare il Washington Post, in un lungo articolo oggi in apertura del sito – lo descrivono un presidente “infuriato” per le fughe di notizie, in particolare, sui contatti tra i suoi collaboratori e la Russia.

Nell’epoca delle fake news, persino i collaboratori di The Donald faticano a trovare una linea comune sulla genesi dell’attacco a Obama. Secondo il New York Times, le “prove” da cui nascono le accuse di Trump si riducono alle dichiarazioni di un conduttore radiofonico conservatore, Mark Levine, e a un articolo apparso su Breitbart, il sito “trumpista” guidato fino a qualche tempo fa da Steve Bannon, attuale capo della strategia della Casa Bianca.

Questa la ricostruzione del NyTimes:

Giovedì, nella sua trasmissione radiofonica serale, il conduttore Mark Levine ha parlato di come l’amministrazione Obama, nei suoi ultimi mesi, abbia cercato di fermare l’avanzata di Trump alla presidenza. Parlando di tattiche da “Stato di polizia”, ha suggerito che proprio le azioni di Obama dovessero essere oggetto di un’inchiesta congressuale. Poche ore dopo un articolo su Breitbart rilanciava le accuse. Non è chiaro se qualcuno abbia messo sul tavolo di Trump l’articolo o se il presidente lo sia andato a cercare da sé. Fatto sta che venerdì mattina, alla Casa Bianca – rivela ancora il New York Times – Trump era di pessimo umore. E, nel corso di una tempestosa riunione, ha accusato lo staff della comunicazione di aver mal gestito la vicenda Sessions. Ancora furioso, quando sabato si è svegliato a Mar-a-Lago, la sua residenza a Palm Beach, in Florida, ha cominciato a twittare facendo notare, tra l’altro, che anche la stessa Nancy Pelosi, e quindi membri dell’amministrazione Obama, avevano incontrato l’ambasciatore russo.

Il paradigma dello scontro va in scena anche all’interno della Casa Bianca, dove crescono le difficoltà per il capo dello staff Reince Priebus, fin dall’inizio in competizione con lo stratega Bannon. Secondo quanto scrive Politico, Priebus viene accusato di non delegare nulla, forse per bloccare l’accesso diretto al presidente a suoi sottoposti, e quindi di passare al volo da una riunione all’altra, con risultati inconcludenti. “La sua è pura incompetenza, manca di strategia, di capacità organizzativa”, afferma una delle fonti citate da Politico, mentre un’altra sentenzia: “C’è insofferenza da parte di molti, compreso il presidente, per il fatto che le cose non stanno andando nel verso desiderato. Reince, che sia giusto o no, è quello che finirà per prendersi la colpa”.


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Notte degli Oscar, le star del cinema protestano contro Trump. Bufera sulla Casa Bianca per bando media

Mancano poco più di ventiquattr’ore alla notte degli Oscar, che si prevede, come spiega l’agenzia LaPresse, sarà altamente politicizzata dopo che anche le star solitamente più schive hanno scelto di esporsi contro il presidente Donald Trump unendosi alle proteste che ormai ogni giorno si tengono nel Paese. Trump, in risposta, ha provocatoriamente twittato: “Forse i milioni di persone che hanno votato per ‘Rendere l’America grande di nuovo’ dovrebbero organizzare la propria manifestazione. Sarebbe la più grande di tutte!”. Ciò mentre la Casa Bianca è in una nuova bufera dopo che diversi giornalisti di grandi media statunitensi ieri non sono stati ammessi al briefing giornaliero del portavoce, Sean Spicer. E intanto emerge che il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, il generale H.R. McMaster, ha preso le distanze dalla rigida posizione dell’amministrazione sul mondo islamico, contestando la definizione di “terrorismo islamico radicale”. A questo poi si aggiunge lo scoop del Washington Post secondo cui la Casa Bianca avrebbe ingaggiato alti dirigenti dell’intelligence e del Congresso nel tentativo di confutare le notizie di stampa sui presunti contatti tra l’entourage di Donald Trump e l’intelligence russa, oggetto di inchiesta da parte dell’Fbi nonchè del Congresso.

JODIE FOSTER CONTRO TRUMP. La United Talent Agency di Beverly Hills quest’anno ha cancellato la festa in vista della notte degli Oscar, trasformandola in una manifestazione contro Trump. Vi hanno partecipato star e personaggi del cinema, e tra loro è spiccata Jodie Foster, solitamente restia a mostrarsi sotto i riflettori per prendere posizioni politiche. L’attrice, vincitrice dell’Oscar per ‘Il silenzio degli innocenti’ e ‘Sotto accusa’, ha dichiarato: “Non sono una persona che ama usare il suo volto pubblico per l’attivismo”, “ma quest’anno è diverso, è tempo di impegnarsi. È una periodo insolito nella storia”.

Sul palco è salita anche la star di ‘Ritorno al futuro’, Michael J. Fox, che ha parlato di sé e delle star del cinema come di “quelli fortunati”, affermando di voler condividere un po’ di quella fortuna con i profughi che vogliono entrare negli Usa. Le proteste dei divi, così come quelle ormai quotidiane in tutto il Paese, contestano infatti le politiche migratorie di Trump, dopo il suo ordine esecutivo per bloccare l’ingresso negli Usa ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana. In video conferenza da Teheran è anche intervenuto il regista iraniano Asghar Farhadi, nominato agli Oscar come miglior film straniero ‘Il cliente’ ma che boicotterà la cerimonia. Con altri cinque candidati al miglior film straniero, ha inoltre firmato un comunicato in cui viene criticato il clima “di fanatismo e nazionalismo” degli Usa e di altre parti del mondo.

IL DIVIETO AI GIORNALISTI ALLA CASA BIANCA. I reporter di Cnn, New York Times, Politico, Los Angeles Times e BuzzFeed non sono stati ammessi al briefing ‘a telecamere spente’ di Spicer, senza una motivazione sulla scelta delle testate bandite. Trump si è più volte scagliato contro i media, che accusa di fornire “notizie false” e ha definito “nemici” degli americani. La decisione ha scatenato una dura risposta. “Nulla del genere è mai accaduto alla Casa Bianca nella nostra lunga storia in cui abbiamo seguito molte amministrazioni di diversi partiti”, ha scritto Dean Baquet, il direttore del New York Times, sottolineando che “il libero accesso dei media a un governo trasparente è ovviamente di cruciale interesse nazionale”.

Cnn ha twittato: “Questo è uno sviluppo inaccettabile”, “apparentemente legato al riportare fatti che a loro non piacciono, cosa che continueremo a fare”. Proteste sono arrivate anche dalla White House Correspondents Association, l’associazione dei corrispondenti dalla Casa Bianca. Proprio ieri, Spicer aveva ribadito: “Non lasceremo che racconti falsi, storie false e fatti inaccurati escano da qui”.

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Donald Trump vago sul conflitto israeliano-palestinese. Stop alla soluzione dei “due Stati”, ma freno ai coloni

Il presidente americano ha gettato a mare decenni di politica estera americana dicendo che per la soluzione del conflitto israelo-palestinese gli stanno bene sia la soluzione dei “due stati per due popoli” che la confluenza dei palestinesi in uno stato unico con Israele ma ha insistito, guardando in faccia Netanyahu, che per arrivare a un accordo “è evidente” che gli uni e gli altri “dovranno accettare compromessi”.

Trump ha accolto alla Casa Bianca il premier israeliano in una giornata turbolenta per la politica americana: le dimissioni forzate del Consigliere per la sicurezza nazionale, sotto accusa per i suoi contatti con personaggi russi legati all’Intelligence di Mosca durante la campagna elettorale e nelle settimane successive al voto di novembre, hanno in qualche modo relegato in secondo piano la visita di Netanyahu ma il cerimoniale è stato modificato per soddisfare le necessità d’immagine dell’ospite. Non si era mai visto, infatti, una conferenza stampa congiunta prima dei colloqui bilaterali. La diretta, trasmessa in Israele all’ora di punta tv, voleva rafforzare Netanyahu che rischia un’incriminazione per corruzione e che appare indebolito all’interno della coalizione di estrema destra.

Trump ha ribadito il rapporto privilegiato che esiste tra Usa e Israele, ha criticato l’Onu per le sue posizioni “troppo filo-palestinesi”, e ha ripetuto la sua intenzione di arrivare a una soluzione del conflitto israelo-palestinese come aveva dichiarato più volte durante la campagna elettorale. Come? E’ la domanda che si sono chiesti molti in questi mesi. Netanyahu ha sorpreso lo stesso Trump annunciando che la Casa Bianca sta studiando un “approccio regionale” al conflitto. Ossia non più un negoziato bilaterale, peraltro fermo da anni, ma qualcosa di non specificato con la collaborazione di stati arabi mediorientali che si sono avvicinati a Israele. L’Egitto sarebbe uno di questi. L’altro, probabilmente, l’Arabia Saudita con a fianco gli emirati del Golfo. Sono paesi sunniti, alleati degli Usa che si sono avvicinati a Israele in virtù del loro comune odio per l’Iran sciita, odio condiviso da Trump sempre critico dell’accordo con Teheran sul nucleare firmato dal suo predecessore Obama. Non una parola, nella conferenza stampa, su come il presidente vede la fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est cominciata nel giugno 1967, quasi 50 anni fa.

Donald Trump subisce l’influenza di suo genero molto vicino agli ambienti dei coloni e che ha nominato consigliere speciale per il dialogo israelo-palestinese. È possibile, ascoltate le sue dichiarazioni per ora vaghe, che il presidente stia pensando a una di due delle formule avanzate dalla destra israeliana. Una vede prevede la trasformazione di Israele, con l’annessione delle Cisgiordania per creare uno stato unico dal Mediterraneo al fiume Giordano: i suoi promotori ritengono che secondo proiezioni demografiche gli arabi palestinesi resterebbero in minoranza. Proprio in queste ore, Saed Erekat, il principale negoziatore palestinese, si è detto non contrario a uno “stato unico democratico” se agli arabi venissero riconosciuto i “medesimi diritti” degli israeliani. Un’altra idea, non nuova, vede una complessa formula di confederazione tra Israele, la Cisgiordania occupata e la Giordania. Netanyahu non si è sbilanciato e, forse per paura delle reazioni negative di chi nella sua coalizione è ancora più a destra, si è rifiutato di pronunciare la frase “due stati per due popoli” che era, almeno formalmente, parte della sua piattaforma politica-diplomatica.
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Justin Trudeau ha mostrato al mondo come stringere la mano a Donald Trump

Il presidente Donald Trump ha uno strano modo di stringere la mano. Invece della classica stretta di mano, che si utilizza da sempre per dimostrare la propria amicizia, Trump strattona il braccio della persona facendo quasi perdere l’equilibrio.

Ma il premier canadese Justin Trudeau, durante la visita alla Casa Bianca, è apparso pronto per la scomoda stretta di mano.

Un video mostra Trump dare il benvenuto al primo ministro canadese. Trudeau prontamente afferra con la mano sinistra la spalla del presidente poi si avvicina a Trump neutralizzando la destabilizzante stretta di mano e assicurandosi che la sua spalla rimanga intatta.

Probabilmente Trudeau deve aver visto cosa è capitato qualche giorno fa al suo collega giapponese Shinzo Abe, in visita alla Casa Bianca. La stretta di mano tra il presidente USA e il primo ministro giapponese è durata ben 19 secondi con Trump che ha tirato verso di sé il braccio di Abe. Al termine della stretta di mano Abe è apparso particolarmente provato.

Trump ha mostrato il suo particolare stile anche durante la cerimonia di insediamento del neo-nominato giudice alla corte suprema Neil Gorsuch.

Durante l’incontro tra Trump e Trudeau c’è stata una seconda stretta di mano, questa volta all’interno della Casa Bianca. L’espressione divertita del primo ministro canadese poco prima della stretta di mano ha fatto impazzire il web.

I politici e le strette di mano complicate: non solo Trump, anche Trudeau e Obama

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Sanremo 2017, Maurizio Crozza per la serata finale rispolvera il classico e canta: “Buonisti, attaccatevi al Trump”

Ha inviato per quattro sere consecutive le sue videocartoline da Milano, ma per la serata finale del Festival di Sanremo Maurizio Crozza ha voluto essere presente fisicamente all’Ariston, per donare al pubblico seduto in platea una performance ancora più ironica e sbarazzina di quelle precedenti.

La voce di una sua presenza all’Ariston era già circolata nelle ultime ore e forse proprio per questo, per creare un clima di attesa il comico genovese, si è presentato all’inizio sul maxi schermo, illudendo di essere ancora a 270 chilometri di distanza dalla città dei fiori. Ma poi sbuca da dietro le quinte con una parrucca e dei baffi inconfondibili, quelli che lo calano in un suo personaggio storico: il senatore Razzi, introdotto da diverse battute sull’euroscetticismo che dilaga in Europa (“Il fronte anti-Europa si sta allargando a macchia d’olio… di ricino”).

Ed è con Razzi che Crozza torna a parlare in maniera preponderante di politica, in questo caso internazionale. Il riferimento è infatti a Donald Trump e alle sue prime azioni da 45esimo presidente degli Stati Uniti: “Trump è l’unico politico che mantiene le sue promesse” specifica il comico. “Sono promesse del cazzo, ma le mantiene”

E quale miglior personaggio per parlare del tycoon se non Razzi, che nell’interpretazione di Crozza condivide con lui una certa scarsità linguistica e culturale? “Devo dire una cosa importante che mi esce dal colon” esordisce il Razzi/Crozza, tanto che Conti lo riprende: “Si dice dal cuore!”

Poi prosegue: “Io amo la città di Sanremo, volevo prenderci la residenza, specie quella volta che ho visto quelli che timbravano il cartellino in mutande e poi se ne tornavano via. Dicevo: ‘Quello è il paradiso!'” Il riferimento, ovviamente, è ai dipendenti pubblici del comune di Sanremo pizzicati, mesi fa, a disertare il lavoro.

Carlo Conti incalza il senatore su temi caldi della politica trumpiana: “Vuole far passare un oleodotto dove vivono i pellerossa” ricorda il conduttore, ma l’uomo di politica risponde con stupore: “Ancora co ‘sti cazzo di indiani, ma non avevano vinto i cowboy?”

Il Crozza che imita Razzi, poi, è un caleidoscopio di distorsioni linguistiche: i classici sanremesi, ad esempio, diventano “Fin che la vacca va”, “Papaveri e pecore” e “Nell’auto dipinta di blu”, per un personaggio che si dice “tutto casa chiusa e chiesa”. E poi: “Il muro col Messico va fatto, hai mai mangiato la cucina messicana? Ti rimane tutta sullo stomaco”.

Infine, la chiusa con una canzone dal titolo Establiscimento, dopo aver perso qualche battuta per strada a causa di un errore di Carlo Conti nel fargli da spalla. “Nel mondo c’è chi legge i libri e chi va dentro ai musei” sottolinea con incredulità. E poi intona: “Tu che ‘accogliamoli tutti’: attaccati al Trump. Tu che difendi l’ambiente: attaccati al Trump”.

Ma c’è il tempo anche per un siparietto con Maria De Filippi, che presenta l’esecuzione di Estrabliscimento. Antonio Razzi porge alla conduttrice una banconota e le dice: “Tieni 10 euro, non puoi lavorare aggratis, è diseducativo per i bambini”. Poi la afferra come per stamparle un bacio, diventato ormai un must di questa edizione.

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Donald Trump su Vladimir Putin: “Lui sarebbe un assassino? Gli Stati Uniti non sono così innocenti”

“Io lo rispetto. Se ci andrò d’accordo si vedrà”. Donald Trump insiste nel voler impostare il rapporto con il collega russo Vladimir Putin in termini ‘diversi’. Ma lo fa questa volta con parole assolutamente inedite per un presidente degli Stati Uniti che, alle accuse mosse verso Putin, additato da qualcuno come “un assassino”, in un’intervista alla Fox News risponde: “Pensate l’America sia così innocente?”.

Una frase shock, secondo molti osservatori, sebbene non del tutto nuova. Il tycoon in campagna elettorale aveva toccato il tema più volte e anche negli stessi termini. Ma che ci torni in maniera così netta da presidente in carica, in un’intervista ‘di rito’ trasmessa come consuetudine per un presidente poco prima del Super Bowl – la finale di football americano per cui l’America si ferma e resta incollata agli schermi in tutto il Paese – suscita più di qualche perplessità. Non solo nell’opposizione, ma anche tra i repubblicani.

Il passaggio in questione è emerso da un’anticipazione del colloquio con uno degli anchor di punta di Fox, Bill O’Reilly.
“Io rispetto Putin. Rispetto molte persone, ma non vuol dire che andrò d’accordo con lui, si vedrà”, premette Trump. Sollecitato poi dal giornalista sulle accuse rivolte al presidente russo di essere “un assassino”, il tycoon non ci pensa due volte: “Ci sono molti assassini. Credi che il nostro Paese sia così innocente?”.

La polemica è immediata, il punto è il paragone che emerge dalle parole del presidente in persona tra gli Stati Uniti e la Russia di Putin. E l’imbarazzo, anche tra i sostenitori di Trump, è palpabile. “Non credo ci sia alcuna equivalenza tra la maniera in cui si comporta la Russia e gli Stati Uniti”, reagisce il leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, dopo aver messo in chiaro che, a suo avviso, Putin è “un ex agente del Kgb e un delinquente”.

“Non mi metterò a criticare ogni commento del presidente, ma io credo che l’America sia eccezionale, l’America è diversa, in nessun modo operiamo nello stesso modo dei russi. Sussiste una distinzione chiara che tutti gli americani comprendono e io non avrei caratterizzato la cosa in quel modo. Ovviamente non vedo la questione nello stesso modo” in cui la vede il presidente.

Un altro esponente di spicco del partito, il senatore Marco Rubio, twitta: “Quando mai un attivista politico dei democratici è stato avvelenato dal Gop (il partito repubblicano, ndr) o viceversa? Noi non siamo la stessa cosa di Putin!”.

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Prima telefonata tra Paolo Gentiloni e Donald Trump: al centro del collquio la Libia e il G7 di Taormina

E’ prevista per questa sera la prima telefonata tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni, stando a quanto si apprende da fonti della Casa Bianca. Il colloquio è fissato per le 22 circa, ora italiana.

Si tratta del primo colloquio telefonico tra il premier italiano e il nuovo inquilino della Casa Bianca. Trump chiamerà Roma dal resort di Mar-a-Lago in Florida, dove si trova per un week end con la moglie Melania e il figlio Barron. L’unico contatto tra Italia e Stati Uniti dopo l’elezione di Trump era avvenuto nei giorni scorsi con una telefonata tra il ministro della Difesa Roberta Pinotti e il segretario alla Difesa Mattis. Fu l’occasione per discutere della “forte partnership” che lega Washington e Roma ma soprattutto per sottolineare, da parte Usa, il ruolo dell’Italia nel quadrante nordafricano e in particolare in Libia.

Tema ripreso poi dal segretario di Stato Rex Tillerson a fine gennaio quando elencò una serie di punti sui quali si sarebbe mossa la collaborazione tra i due Paesi. La Libia, dove “abbiamo bisogno dell’esperienza italiana”. Ma anche l’Ucraina, dal momento che l’Italia, disse Tillerson, è un membro “responsabile dell’Unione Europea” e può contribuire a tenerla unita. E infine la Russia, in vista del G7 che l’Italia ospiterà a fine maggio a Taormina: c’è da decidere se invitare al consesso il leader del Cremlino Vladimir Putin e compiere un ulteriore passo nel processo di riavvicinamento tra Mosca e Washington che va avanti dall’avvento della nuova presidenza.

Il colloquio tra Trump e Gentiloni avviene dopo due settimane dall’insediamento del presidente Usa. Roma non rientra quindi nel “primo giro” di contatti avviato dalla Casa Bianca. Una circostanza che non sfugge, soprattutto se si ricorda la scelta di Barack Obama di accogliere l’ex premier Matteo Renzi per la sua ultima State dinner da presidente degli Stati Uniti. Dopo la diffusione dei contenuti della telefonata tra Trump e Gentiloni si inizierà a capire quali temi saranno considerati prioritari dai due nuovi leader del G7 e quale sara il corso dei rapporti con la nuova presidenza Usa.

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Proteste contro Donald Trump all’aeroporto di New York per la stretta sull’immigrazione. Primi ricorsi contro il tycoon

Sono già arrivati i primi ricorsi contro la stretta sull’immigrazione decisa dal presidente Donald Trump. Il Jfk, il principale aeroporto di New York, si è trasformato nel simbolo della protesta contro l’ordine esecutivo con il quale ha sospeso temporaneamente l’arrivo di tutti i rifugiati e delle persone provenienti da sette Paesi islamici (Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen). Centinaia di persone si sono riversate davanti ai terminal con cartelli e striscioni favorevoli all’accoglienza, chiedendo la liberazione dei passeggeri detenuti in base al nuovo bando (molti in possesso di regolare green card).

Tra le centinaia di persone che hanno protestato in favore della libertà, anche Micheal Moore, il noto regista “controcorrente”, che dai suoi account social ha sollecitato a prendere parte alla protesta e ha trasmesso una diretta sulla sua pagina Facebook. Migliaia di utenti hanno commentato e condiviso le proprie storie.

Vicinanza a chi è sceso in strada è stata espressa anche da Justin Trudeau, primo ministro canadese, che, di contro a quanto deciso da Trump, si è dimostrato favorevole all’accoglienza: “A tutti coloro che scappano dalle persecuzioni, dal terrore e dalla guerra, i Canadesi sono pronti ad accogliervi, indipendentemente dalla vostra fede religiosa. La diversità è la nostra forza”, ha scritto sulla sua pagina Facebook.

A mettere un po’ di chiarezza nella situazione è stata Ann Donnelly, giudice federale di New York, che ha emesso un’ordinanza di emergenza che temporaneamente impedisce agli Stati Uniti di espellere i rifugiati che provengono dai sette paesi a maggioranza islamica soggetti all’ordine esecutivo emanato dal presidente Donald Trump, che ha congelato gli arrivi da quei paesi per tre mesi. L’ordinanza di emergenza del giudice Donnelly annulla una parte dell’ordine esecutivo del presidente Donald Trump sull’immigrazione, ordinando che i rifugiati e altre persone bloccate negli aeroporti degli Stati Uniti non possono essere rimandate indietro nei loro paesi. Ma il giudice non ha stabilito che queste stesse persone debbano essere ammesse negli Stati Uniti ne’ ha emesso un verdetto sulla costituzionalità dell’ordine esecutivo del presidente.

I legali che hanno citato in giudizio il governo per bloccare l’ordine della Casa Bianca hanno detto che la decisione, arrivata dopo un’udienza di urgenza in una corte di New York, potrebbe interessare dalle 100 alle 200 persone che sono state trattenute al loro arrivo negli aeroporti statunitensi sulla base dell’ordine esecutivo che il presidente Donald Trump ha firmato venerdì pomeriggio, una settimana dopo il suo insediamento.


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