I DATI SULLA PRIVACY COSTANO CARI ALLA BRITISH AIRWAYS

In una dichiarazione, il commissario per l’informazione Elizabeth Denham si è detta preoccupata per la sottrazione di dati personali definendo il fatto "molto più di un inconveniente" e ha detto che le aziende devono adottare misure appropriate per proteggere i diritti fondamentali alla privacy.

Lo scorso settembre la British Airways aveva segnalato una violazione che aveva interessato circa 380.000 dati dei suoi clienti. In quella occasione la società di gestione minacce informatiche RiskIQ aveva rivelato che si trattava dello stesso gruppo criminale che aveva violato Ticketmaster UK. Secondo RiskIQ, i criminali tendono ad utilizzare gli script per rubare i dati dei clienti che vengono inseriti nei moduli di pagamento online.

 

Con ogni probabilità è stato proprio a causa di questa violazione che è partita una indagine condotta dall’Antitrust inglese che in queste ore ha annunciato l’intenzione di multare la compagnia aerea British Airways con un importo record di 183 milioni di sterline per violazione dei dati riferentesi a transazioni del 2018.

L’Information Commissioner’s Office (ICO) ha dichiarato che "disposizioni di scarsa sicurezza" presso l’azienda portano alla violazione dei dati della carta di credito, dei nomi, degli indirizzi, dei dettagli delle prenotazioni di viaggio e degli accessi per circa 500.000 clienti. L’ammenda, se applicata, sarebbe la più grande che l’ICO abbia mai richiesto, molto più delle 500.000 sterline di multa contro Facebook per lo scandalo Cambridge Analytica che ha colpito milioni di persone. La compagnia aerea ha ora 28 giorni di tempo per appellarsi alla sentenza prima che la stessa sia resa definitiva.

 

In una dichiarazione, il commissario per l’informazione Elizabeth Denham si è detta preoccupata per la sottrazione di dati personali definendo il fatto "molto più di un inconveniente" e ha detto che le aziende devono adottare misure appropriate per proteggere i diritti fondamentali alla privacy.
La sanzione arriva meno di un anno dopo che il regolatore ha multato Facebook per “sole” 500.000 sterline per lo scandalo Cambridge Analytica che aveva colpito una platea ben più vasta di circa 87 milioni di utenti. La differenza fra le due multe deriva dal particolare che la multa di Facebook era la quantità massima consentita dalla precedente normativa britannica sulla privacy dei dati, il Data Protection Act del 1998. Ora le sanzioni vengono applicate in base alla nuova normativa GDPR la quale permette l’applicazione di una ammenda massima del 4% del fatturato complessivo dell’azienda coinvolta; l’ammenda applicata a British Airways ammonta all’1,5% delle sue entrate del 2017.

 

Commentando la notizia, il presidente e amministratore delegato di British Airways, Alex Cruz, ha dichiarato che l’azienda è stata "sorpresa e delusa" dalla decisione dell’ICO, precisando che la società non ha trovato alcuna prova di attività fraudolenta su conti legati alla violazione.

 

Dulcis in fundo, l’ICO ha tenuto a precisare che l’azienda ha collaborato con la sua indagine e ha migliorato la sicurezza da quando è stata scoperta la presunta violazione.

 

Antonio Bordoni
Fonte: www.aviation-industry-news.com – 8 Luglio 2019

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Conti pubblici, Dombrovskis elogia l’impegno dell’Italia sulla manovra. Padoan: “Direzione giusta”

“Sulla correzione dei conti pubblici, pari allo 0,2% del Pil, c’è un impegno molto concreto reiterato da tutti i ministri e da tutto l’establishment. Il tempo ci dirà come andrà la manovra che verrà varata in primavera”. A sottolinearlo è il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, al termine dell’incontro al Mef con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.

“L’Italia avrà quest’anno una crescita di circa l’1%. E’ una ripresa modesta, è molto importante rimanere in rotta rispetto alla traiettoria fiscale e di riforme” continua Dombrovskis.

A stretto giro risponde soddisfatto Padoan. “I nostri sforzi vengono riconosciuti, stiamo andando nella direzione giusta” ha detto il ministro dell’Economia precisando che nel bilaterale non sono state approfondite misure specifiche sul debito. Tuttavia “la crescita nominale pensiamo migliorerà sia in termini di Pil che di inflazione”, ha aggiunto.
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Notte degli Oscar, le star del cinema protestano contro Trump. Bufera sulla Casa Bianca per bando media

Mancano poco più di ventiquattr’ore alla notte degli Oscar, che si prevede, come spiega l’agenzia LaPresse, sarà altamente politicizzata dopo che anche le star solitamente più schive hanno scelto di esporsi contro il presidente Donald Trump unendosi alle proteste che ormai ogni giorno si tengono nel Paese. Trump, in risposta, ha provocatoriamente twittato: “Forse i milioni di persone che hanno votato per ‘Rendere l’America grande di nuovo’ dovrebbero organizzare la propria manifestazione. Sarebbe la più grande di tutte!”. Ciò mentre la Casa Bianca è in una nuova bufera dopo che diversi giornalisti di grandi media statunitensi ieri non sono stati ammessi al briefing giornaliero del portavoce, Sean Spicer. E intanto emerge che il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, il generale H.R. McMaster, ha preso le distanze dalla rigida posizione dell’amministrazione sul mondo islamico, contestando la definizione di “terrorismo islamico radicale”. A questo poi si aggiunge lo scoop del Washington Post secondo cui la Casa Bianca avrebbe ingaggiato alti dirigenti dell’intelligence e del Congresso nel tentativo di confutare le notizie di stampa sui presunti contatti tra l’entourage di Donald Trump e l’intelligence russa, oggetto di inchiesta da parte dell’Fbi nonchè del Congresso.

JODIE FOSTER CONTRO TRUMP. La United Talent Agency di Beverly Hills quest’anno ha cancellato la festa in vista della notte degli Oscar, trasformandola in una manifestazione contro Trump. Vi hanno partecipato star e personaggi del cinema, e tra loro è spiccata Jodie Foster, solitamente restia a mostrarsi sotto i riflettori per prendere posizioni politiche. L’attrice, vincitrice dell’Oscar per ‘Il silenzio degli innocenti’ e ‘Sotto accusa’, ha dichiarato: “Non sono una persona che ama usare il suo volto pubblico per l’attivismo”, “ma quest’anno è diverso, è tempo di impegnarsi. È una periodo insolito nella storia”.

Sul palco è salita anche la star di ‘Ritorno al futuro’, Michael J. Fox, che ha parlato di sé e delle star del cinema come di “quelli fortunati”, affermando di voler condividere un po’ di quella fortuna con i profughi che vogliono entrare negli Usa. Le proteste dei divi, così come quelle ormai quotidiane in tutto il Paese, contestano infatti le politiche migratorie di Trump, dopo il suo ordine esecutivo per bloccare l’ingresso negli Usa ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana. In video conferenza da Teheran è anche intervenuto il regista iraniano Asghar Farhadi, nominato agli Oscar come miglior film straniero ‘Il cliente’ ma che boicotterà la cerimonia. Con altri cinque candidati al miglior film straniero, ha inoltre firmato un comunicato in cui viene criticato il clima “di fanatismo e nazionalismo” degli Usa e di altre parti del mondo.

IL DIVIETO AI GIORNALISTI ALLA CASA BIANCA. I reporter di Cnn, New York Times, Politico, Los Angeles Times e BuzzFeed non sono stati ammessi al briefing ‘a telecamere spente’ di Spicer, senza una motivazione sulla scelta delle testate bandite. Trump si è più volte scagliato contro i media, che accusa di fornire “notizie false” e ha definito “nemici” degli americani. La decisione ha scatenato una dura risposta. “Nulla del genere è mai accaduto alla Casa Bianca nella nostra lunga storia in cui abbiamo seguito molte amministrazioni di diversi partiti”, ha scritto Dean Baquet, il direttore del New York Times, sottolineando che “il libero accesso dei media a un governo trasparente è ovviamente di cruciale interesse nazionale”.

Cnn ha twittato: “Questo è uno sviluppo inaccettabile”, “apparentemente legato al riportare fatti che a loro non piacciono, cosa che continueremo a fare”. Proteste sono arrivate anche dalla White House Correspondents Association, l’associazione dei corrispondenti dalla Casa Bianca. Proprio ieri, Spicer aveva ribadito: “Non lasceremo che racconti falsi, storie false e fatti inaccurati escano da qui”.

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Referendum jobs act, durissima lettera di risposta della Cgil alle parole di Staino. E sulla decisione della Consulta la temperatura sale

La risposta della Cgil è durissima, quasi feroce. La “bomba” sganciata dall’Unità, dalla penna del suo direttore Staino che ha lanciato un durissimo j’accuse contro la segretaria della Cgil Susanna Camusso, al timone di un sindacato che avrebbe dimenticato gli insegnamenti di predecessori come Luciano Lama e Bruno Trentin, non poteva rimanere senza replica.

Il sindacato di Corso d’Italia, dopo un frenetico giro di telefonate, ha deciso di replicare con una lettera al giornale del Pd. Che già dai firmatari indica la “pesantezza” del concetto che si vuole esprimere. In calce compaiono le firme di tutti i componenti della segreteria nazionale. Più quelle di tutti i segretari di categoria. L’autografo mancante è uno solo: quello della Camusso. Una risposta unanime, collegiale, a quello che viene derubricato ad attacco personale. Ed è proprio quello del rifiuto del metodo personalistico di Staino il primo dei tre punti intorno a cui ruota la missiva. Il secondo, se si vuole, è ancora più pesante. E indica nel livore del direttore de L’Unità l’unico contributo alla discussione sulle politiche del lavoro. Staino, terzo punto, parli nel merito, offra soluzioni. In caso contrario l’interlocuzione non ha luogo di essere.

Mancano pochi giorni alla decisione della Corte Costituzionale sui referendum sul jobs act e la temperatura politica sale vertiginosamente. L’11 gennaio il giorno clou che rischia di trasformarsi (dopo il referendum costituzionale) in un nuovo conto alla rovescia per la fine della legislatura. E segnerebbe, in caso di vittoria dei Sì, lo smembramento definitivo dei provvedimenti simbolo dell’era Renzi. Senza contare che l’ammissione dei quesiti proposti dalla Cgil diventerebbero la scusa per accelerare lo scioglimento delle Camere ed evitare così una consultazione piuttosto insidiosa. Ma nonostante la decisione sia prettamente giuridica, le ricadute politiche non sono certo ignorate dai giudici della Consulta.

Sarebbe più opportuno un “dialogo con il Parlamento” e non un ripetitivo attacco al governo di turno, senza offrire al contempo un progetto, una prospettiva e una conseguente azione politica”, aveva scritto il direttore dell’Unità, accusando la Cgil di “rimanere sulle barricate aspettando che cambi il governo”. Nello stesso giorno in cui anche la Cisl scarica il sindacato di Corso Italia e nonostante in tanti invochino la strada che eviti lo scontro finale a sinistra e nel Pd, la tensione è alle stelle. L’Unità non è un giornale qualsiasi e nella minoranza Dem è il senatore Federico Fornaro a esprimere “tristezza” per l’attacco frontale. “Ci saremmo aspettati di leggere certe frasi su altri quotidiani”, dice l’esponente della minoranza interna che considera l’attacco “tutto personale e non in linea con la storia del giornale”. In sintesi ritorna quel “fuoco amico” indirizzato verso Bersani e ad altri esponenti della sinistra del Pd che sembra essere diventato lo stile dell’Unità”.

A dare una mano al governo che a tutti i costi vuole disinnescare la pericolosissima mina è arrivata anche Annamaria Furlan. In un’intervista all’Huffpost, la segretaria della Cisl liquida senza troppe sfumature la consultazione proposta dalla collega: “Il referendum non è lo strumento migliore per parlare di legislazione del lavoro, sui voucher si proceda con un intervento legislativo. Quando le imprese sono in crisi non c’è articolo 18 che valga”. Un accerchiamento dal quale la Cgil, che in questi giorni ha intrapreso la linea della prudenza comunicativa, ritenuta la più efficace per non caricare troppo la decisione della Consulta, non poteva non uscire.

Ma la maggioranza del Pd tira dritta. Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, ribadisce la linea: “Le modifiche non si fanno per evitare il referendum, ma per migliorare la norma, se necessario”. Specifica che sta a cuore anche al governo, e che persegue sempre la via Parlamentare e il conseguente venir meno delle urne

Qualunque sia la motivazione, dietro lo scontro, il merito dei referendum sui quali anche parte della sinistra sembra voler perseguire la strada parlamentare. “A partire dal quesito sui voucher, bisogna andare incontro alle richieste dei proponenti” è la linea della minoranza che sollecita maggioranza e governo a mandare avanti le proposte della commissione lavoro della Camera che ha già avviato il lavoro. “Le forze politiche facciano il loro mestiere mentre la Corte Costituzionale sta facendo il suo” spiega ancora Fornaro disponibile alla correzione “senza furberie legislative o pressioni improprie sui giudici” utili solo a neutralizzare i referendum. Nella sostanza, un ritorno alla legge Biagi dove gli stessi voucher erano previsti ma limitati agli stagionali in agricoltura, un settore dove oggi i buoni lavoro sono solo l’un per cento del totale.

Il peso dei 121,5 milioni di voucher venduti nei primi dieci mesi del 2016 rischia poi di ricadere anche sulla mozione di sfiducia che pende sul ministro del Lavoro Poletti, presentata dalla Lega, M5S e Sinistra Italiana. La scivolata del ministro (sulla possibilità che il referendum potesse essere evitato grazie allo scioglimento anticipato delle Camere) scatenò le dure reazioni della sinistra Pd che senza una marcia indietro sui voucher ha minacciato di non sostenerlo.

Martedì Poletti è atteso in Senato per un’informativa sulla vicenda mentre la sfiducia personale non è stata ancora calendarizzata. Un voto che in apparenza non vede rischi per la maggioranza ma che potrebbe diventare un altro elemento di pressione per i giudici della Corte che il giorno dopo dovranno esprimersi sull’ammissibilità dei tre referendum della Cgil.

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George Michael, sulla morte l’ombra dell’eroina. Il Telegraph cita fonti vicine alla popstar

È morto solo, la mattina di Natale, forse per overdose di eroina. Il quotidiano britannico Daily Telegraph evoca per la prima volta l’ipotesi di una segreta dipendenza dall’eroina per George Michael, la popstar britannica deceduta nel giorno di Natale. Una fonte, non svelata dal Telegraph, avrebbe raccontato che Michael sarebbe anche stato curato in una clinica in seguito a un’overdose lo scorso anno: “prendeva eroina, è stato portato più volte in clinica, è un miracolo che abbia vissuto così a lungo”.

L’infarto, cioè la causa della morte di Michael secondo il suo manager Michael Lipman – scrive ancora il Telegraph – è piuttosto frequente tra gli eroinomani.

Il compagno di Michael dal 2011, Fadi Fawaz, noto stilista, ha detto al giornale britannico di averlo trovato senza vita nella casa dell’Oxfordshire, dove era andato per trascorrere insieme il giorno di Natale. “Dovevamo pranzare assieme per Natale. Sono andato per svegliarlo ed era morto da poco, era a letto tranquillamente. Ancora non sappiamo cosa sia successo”. “Ora è tutto finito. Voglio che la gente lo ricordi per come era, una persona magnifica”.

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Papa Francesco sulla riforma della curia: “Ci sono resitenze malevole”

“Non sono le rughe che nella Chiesa si devono temere, ma le macchie!”. Così il Papa nel discorso alla Curia Romana, dedicato al tema della riforma. “È necessario ribadire con forza che la riforma non è fine a se stessa, ma è un processo di crescita e soprattutto di conversione. La riforma, per questo, non ha un fine estetico, quasi si voglia rendere più bella la Curia; né può essere intesa come una sorta di lifting, di maquillage oppure di trucco per abbellire l’anziano corpo curiale, e nemmeno come una operazione di chirurgia plastica per togliere le rughe”.

In questa prospettiva, ha spiegato Francesco, “occorre rilevare che la riforma sarà efficace solo e unicamente se si attua con uomini ‘rinnovati’ e non semplicemente con ‘nuovi’ uomini. Non basta accontentarsi di cambiare il personale, ma occorre portare i membri della Curia a rinnovarsi spiritualmente, umanamente e professionalmente”.

“La riforma della Curia non si attua in nessun modo con il cambiamento delle persone – che senz’altro avviene e avverrà – ma con la conversione nelle persone”, ha proseguito. “In realtà, non basta una formazione permanente, occorre anche e soprattutto una conversione e una purificazione permanente. Senza un mutamento di mentalità lo sforzo funzionale risulterebbe vano”, ha aggiunto. Secondo il Pontefice, “essendo la Curia non un apparato immobile, la riforma è anzitutto segno della vivacità della Chiesa in cammino, in pellegrinaggio, e della Chiesa vivente e per questo semper reformanda, reformanda perché è viva”.

Contro la riforma, ha detto il Papa, possono esserci “diverse tipologie di resistenze: le resistenze aperte, che nascono spesso dalla buona volontà e dal dialogo sincero; le resistenze nascoste, che nascono dai cuori impauriti o impietriti che si alimentano dalle parole vuote del ‘gattopardismo’ spirituale di chi a parole si dice pronto al cambiamento, ma vuole che tutto resti come prima; esistono anche le resistenze malevole, che germogliano in menti distorte e si presentano quando il demonio ispira intenzioni cattive (spesso ‘in veste di agnelli’).

Parlando poi del Natale, Papa Francesco ha detto “Dio ha scelto di nascere piccolo, perché ha voluto essere amato. Ecco come la logica del Natale è il capovolgimento della logica mondana, della logica del potere, della logica del comando, della logica fariseistica e della logica causalistica o deterministica”. Lo ha detto papa Francesco nel suo discorso ai cardinali e ai superiori della Curia Romana, ricevuti nella Sala Clementina per gli auguri natalizi.

Il Natale, ha affermato Francesco, “è la festa dell’umiltà amante di Dio, del Dio che capovolge l’ordine del logicamente scontato, l’ordine del dovuto, del dialettico e del matematico”. “Nel Natale – ha osservato – noi siamo chiamati a dire ‘sì’, con la nostra fede, non al Dominatore dell’universo e neppure alle più nobili delle idee, ma proprio a questo Dio, che è l’umile-amante”.

E citando Paolo VI, ha sottolineato che Dio “è venuto come il più piccolo degli esseri, il più fragile, il più debole. Perché questo? Ma perché nessuno avesse vergogna ad avvicinarlo, perché nessuno avesse timore, perché tutti lo potessero proprio avere vicino, andargli vicino, non avere più nessuna distanza fra noi e Lui”.
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L’Ue congela il giudizio sulla legge di biliancio: ecco perché la scelta conviene sia a Bruxelles che a Renzi

Tutto rimandato a dopo il referendum costituzionale. Se Matteo Renzi sarà ancora premier con in tasca la vittoria del sì, Bruxelles sarà ancora lì ad aspettarlo al varco. La parola d’ordine per descrivere cosa è accaduto alla legge di bilancio italiana dopo l’esame della Commissione europea è: congelamento. Da una parte la Commissione promette di tenere in conto le spese italiane su sisma e migranti ma di volerle controllare a gennaio (Moscovici). Dall’altra inserisce l’Italia nell’elenco di quei paesi che al giudizio finale di gennaio potrebbero essere bocciati e annuncia anche un rapporto sul debito alto per Italia e Belgio (Dombrovskis). Una posizione che di fatto ora segna uno stand-by: e conviene a tutti i player in gioco.

Innanzitutto conviene a Renzi, che infatti oggi si mantiene alla larga dai commenti sul parere della commissione, sfruttando l’effetto ‘freezer – chiamiamolo così – per concentrarsi sulle ultime settimane di campagna elettorale a questo punto sempre più pronunciate nella critica a questa Ue, sempre più anti-establishment per debellare il fantasma Trump che si aggira anche intorno a Palazzo Chigi. Il premier però torna a usare la bandiera europea, eliminata dalle sue recenti conferenze stampa. Anzi, a Cinisi, tappa del tour elettorale in Sicilia, addirittura la accarezza: “Bisogna avere la forza di dire a questa bandiera europea, che noi amiamo, che l’Unione europea si deve ricordare di essere una comunità non solo quando deve prendere i nostri soldi ma anche quando c’è da dare”.

Nelle stesse ore a Bruxelles, i Dem bloccavano definitivamente per questo mese la discussione sul bilancio pluriennale europeo: se ne riparla a dicembre. E poco prima, ad Atene, Barack Obama dava il suo ultimo discorso presidenziale in Europa sulla democrazia e il no all’austerity come antidoto ai populismi: dietro di lui, la bandiera greca, quella europea e quella statunitense. Ma comunque, chiuso l’affare delle bandiere, che gli ha portato in casa solo tempesta e polemiche, Renzi è lanciato nella critica all’Ue. Un altro assaggio probabilmente lo darà a Berlino venerdì, dopo il vertice con Merkel, Obama, May, Hollande e Rajoy: un vertice che senza il sale della polemica renziana anti-europea rischia di essere la foto dei rottamati da Trump.

Ma il congelamento conviene anche alla stessa Commissione Ue. Fin dall’inizio di questa storia, a Palazzo Berlaymont ha prevalso lo sforzo di non mettere i bastoni tra le ruote a Renzi in vista di un referendum che, se dovesse vincere il no, suonerebbe come un’altra Brexit per tutta l’istituzione europea. Insomma, a Bruxelles hanno deciso di rimandare il giudizio definitivo: più per l’Ue che per Renzi. E infatti il congelamento serve anche ad un altro scopo: equivale a dei paletti piantati dalla squadra Juncker in caso di vittoria del sì. Come dire: un modo per condizionare Renzi. A Bruxelles infatti sono consapevoli che, qualora il premier italiano uscisse vittorioso dal voto del 4 dicembre, dedicherebbe tutto l’anno prossimo (che coinciderà con la campagna per le politiche del 2018 o magari anticipate ad hoc) a picconare quello che rimane dell’austerity Ue, dal Fiscal Compact a tutto il patto di stabilità.

Ecco perché la Commissione oggi ci ha tenuto a mettere l’Italia insieme a Belgio, Cipro, Lituania, Slovenia, Finlandia: una ‘buona’ compagnia di paesi guardati a vista come a rischio, potrebbero “non rispettare il Patto di stabilità”, stabilisce il commissario Valdis Dombrovskis. In altre parole: potrebbero essere “non conformi” per debito e deficit alti (‘risk of non compliance’). D’altronde, solo 5 paesi dell’eurozona rispettano i requisiti del Patto: Germania, Estonia, Lussemburgo, Slovacchia e Olanda. Le loro leggi di bilancio sono risultate conformi agli obblighi comunitari, mentre Irlanda, Lettonia, Malta e Austria hanno presentato testi giudicati ‘sostanzialmente’ conformi ma potrebbero in una certa misura deviare dal percorso di avvicinamento all’obiettivo di bilancio a medio termine.

Insomma, con l’Italia la partita è rimandata. Ma stavolta la Commissione Ue sceglie di avvertire anche la Germania con il suo surplus commerciale fuori dalle regole Ue. E lo fa nelle raccomandazioni sulla politica di bilancio per il 2017: chi ha i conti in regola deve spendere di più per aiutare la crescita, chi non ha i conti in regola deve metterli a posto. Non a caso a Roma si preferisce più commentare il documento di Palazzo Berlaymont che di fatto comincia ad appiccicare la parola ‘fine’ alle politiche di austerity, piuttosto che esultare per il congelamento del parere sulla manovra economica.

“Se la Ue sta togliendosi di mezzo l’austerità e ha introdotto la novità di chiedere ai paesi che hanno spazi di bilancio per spendere che lo facciano, si tratta di una grande vittoria dell’Europa e l’Italia rivendica di essere il primo Paese ad averlo messo sul tavolo”, dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan a Porta a Porta. “Accogliamo con soddisfazione il documento della Commissione europea sulla necessità di una politica economica espansiva a livello di eurozona. E’ una novità importante che dà ragione alle nostre battaglie”, dice Patrizia Toia, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo.

Se ne riparla a dicembre. Ma di certo Renzi non smetterà di parlarne di qui al 4 dicembre.
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Il Tesoro dà i numeri sulla ricostruzione, ma i fondi diretti in manovra restano 600 milioni

Il governo dà i numeri sul terremoto, provando ad associare le parole alle cifre. Perché già si intravedono i termini della contesa con Bruxelles. Lì i conti non tornano, proprio sul terremoto, in nome del quale Renzi e Padoan hanno chiesto il famoso zero virgola due per cento di flessibilità da stanziare sulle spese per il sisma. Il premier, intervenendo a Radio 24, non si impicca a cifre precise: “Ci sono degli spazi di azione pari a 3 miliardi nel 2017” ma “non c’è uno stanziamento puntuale perché ancora non si sa quanto servirà”. Il punto è sempre lo stesso, sollevato da HuffPost lunedì scorso. Il governo ha chiesto 3,4 miliardi di flessibilità all’Europa in nome del terremoto. Ma nella manovra, alla voce terremoto, ci sono solo 600 milioni. Il dubbio che serpeggia a Bruxelles è che il premier chieda più deficit per una circostanza eccezionale, ma lo utilizzi per quelle che le opposizioni chiamano le “mance referendarie”, dalle quattordicesime ai pensionati ai fondi per il trasporto in Campania.

Proprio per tranquillizzare Bruxelles, il Tesoro fa trapelare in agenzia l’elenco dei capitoli di spesa, mettendo però nello stesso calderone i fondi per l’emergenza da “bruciare” subito con quelli che serviranno per la ricostruzione a partire dall’anno prossimo: per far fronte alle esigenze derivanti dagli eventi sismici – ha spiegato un portavoce del Tesoro – il governo ha stanziato con tre successive delibere del consiglio dei ministri 130 milioni (50 milioni il 25 agosto, 40 milioni il 27 ottobre, 40 milioni il 31 ottobre); nel decreto per la ricostruzione sono stati inoltre stanziati 266 milioni per il 2016 e ulteriori 200 per il 2017. Il problema dell’elenco è che si sommano voci di spesa appartenenti a anni diversi, mentre a Bruxelles vorrebbero sapere se le risorse “extra” vengono impiegate per spese “extra”. Di queste risorse, solo 200 milioni sono stanziati per il 2017 e riguardano poste già coperte attraverso lo spostamento di altri fondi: sono le cosiddette spese di emergenza, quelle strettamente necessarie nell’immediato per far funzionare la procedura dei soccorsi, l’assistenza e la gestione degli sfollati, difficilmente classificabili con la prevenzione, la messa in sicurezza e la ricostruzione.

Insomma, non risorse “aggiuntive” sul terremoto ma soldi che servono per far funzionare la macchina emergenziale e per fornire i primi container. Di risorse certe per la ricostruzione invece ci sono quelle stanziate all’articolo 51 della legge di Bilancio. Così articolate: per il 2017 sono previsti 100 milioni “per la concessione del credito d’imposta maturato in relazione all’accesso ai finanziamenti agevolati” erogati dal governo, cioè la cosiddetta “ricostruzione privata”; altri 200 milioni di euro nel 2017 “per la concessione di contributi finalizzati alla ricostruzione pubblica”. In totale, per il prossimo anno, 300 milioni a cui si aggiungono 300 milioni di cofinanziamento regionale di fondi strutturali che peraltro – si puntualizza – “non comportano una modifica dei saldi di finanza pubblica”. L’impatto complessivo, in termini di maggiore indebitamento netto, è di 600 milioni. Per il resto siamo nel regno delle ipotesi più che delle certezze, ove si prevedono 200 milioni l’anno dal 2018 al 2047 per la cosiddetta ricostruzione privata. I famosi 6 miliardi che rimbalzano nei titoli, senza l’aggiunta che sono spalmati in trent’anni, un arco temporale che impedirebbe a molti di rivedere la propria casa.

Fin qui il certo. Tra le altre spese, il Mef fa sapere che il governo ha stanziato risorse per investimenti in opere pubbliche e – spiega via XX settembre “liberato spazi di bilancio per comuni e regioni” per un totale di 600 milioni circa nell’anno 2017 . Il “Fondo” a cui si fa riferimento “per lo sviluppo degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale” però non prevede un “vincolo”. Per la serie: o questi fondi li spendi per la prevenzione sismica o non li vedi. Anzi, cita tutta una serie di settori di intervento tra cui c’è la prevenzione sismica, ma anche “trasporti e viabilità”, “infrastrutture”, “attività industriali ad alta tecnologia”.

C’è poi “il piano di messa in sicurezza e prevenzione”: 2 miliardi sotto forma di incentivi fiscali per le opere di ristrutturazione da parte dei privati e 800 milioni “già stanziati” per opere pubbliche contro il dissesto idrogeologico e la messa in sicurezza delle scuole. Appunto, “già stanziate”. La scommessa più ambiziosa riguarda proprio le detrazioni sulle spese sostenute per misure antisismiche, gli incentivi, perché interviene non solo sulla ricostruzione, ma su tutte quelle centinaia di migliaia di edifici potenzialmente a rischio. Piano ambizioso dai costi ambiziosi. Ma non sul 2017, anno su cui sono previsti costi solo per 16,2 milioni di euro. La cifra cresce negli anni successivi, col picco nel 2022. Il perché è scritto nella relazione tecnica: “L’effetto positivo determinato dal maggior gettito fiscale si rende maggiormente apprezzabile nei primi anni, mentre quello negativo determinato dalle minori entrate dovute alle detrazioni si diluisce negli anni successivi”. In altre parole, da bonus di questo tipo – come accaduto anche negli anni passati – le casse dello Stato ci guadagnano nel brevissimo periodo e ci perdono, inevitabilmente, più avanti . Ecco che, complessivamente, tutte le detrazioni di cui parla il Mef costano sì al governo 2 miliardi, ma nel 2022. Nel 2017 non costano nulla, anzi porteranno nelle casse dello Stato 28,7 milioni di euro in più. E questo è quasi un paradosso. Dunque il governo dà i numeri, che però raccontano non di un “negoziato” eccezionale su una circostanza eccezionale, in nome del quale chiedere risorse eccezionali, che si aggiungono a quelle stanziate. I numeri, messi nero su bianco prima del terremoto, più ordinari che straordinari, non sono crollati con le scosse.

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Ue, opposizioni all’attacco di Moscovici dopo l’apertura sulla flessibilità: “L’Italia è sovrana, no a ingerenze”

“Inaccettabili le ingerenze del Commissario europeo agli Affari Economici, Moscovici, sul referendum costituzionale e sulla sovranità nazionale dell’Italia. Il voto dei cittadini italiani sulla riforma della Costituzione, già violata da questa Unione Europea con l’inserimento del pareggio di bilancio dello Stato, non è un obolo da portare al ‘banco dei pegni’ dell’Europa”.
Lo dichiarano i deputati del M5S della commissione Politiche Ue riferendosi all’apertura di Moscovici sulla flessibilità.

“Ci preoccupa molto -aggiungono- il fatto che Moscovici affermi di voler sostenere Renzi contro una ‘minaccia populistà in Italia, quasi a voler fare da sponda all’attuale governo per conservare lo status quo, perché che sa che il M5S non terrebbe il gioco a questa Ue complice di banche e poteri forti ma lavorerebbe per creare un nuovo progetto di Europa che metterebbe alla porta lui e tutti gli interessi che rappresenta per fare spazio ai cittadini e alle comunità”, concludono i parlamentari 5stelle.

Anche Forza Italia attacca: “Renzi alla canna del gas: ha bisogno di aiutini Moscovici per avere qualche titolo benevolente dai giornaloni comunque amici…”, scrive su Twitter Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. “Uscita Moscovici chiaramente politica per aiutare partner in difficoltà. Ma scorretta da punto di vista istituzionale”, sottolinea in un successivo tweet. E ancora: “A cosa si riferisce Moscovici? Governo non ha ancora presentato Legge bilancio e Parlamento non si è espresso. Come si permette?”.

“Ringraziamo Moscovici per le sue dichiarazioni – afferma Massimiliano Fedriga, capogruppo della Lega Nord alla Camera – sono la dimostrazione che chi governa l’Italia lo sceglie Merkel e la partitocrazia europea. E’ folle e inaccettabile che un commissario europei affermi che la flessibilità si darà solo ai governi amici per evitare che elezioni democratiche scelgano rappresentati delle istituzioni a loro non graditi. Insomma, malgrado i teatrini dell’assurdo che Renzi fa contro l’Ue, abbiamo l’ennesima prova che il premier italiano è solo un burattino nelle mani di Merkel sulla testa e a spese del popolo”.

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Referendum. Matteo Renzi non teme l’assist di Moscovici: risultati concreti sulla flessibilità

In Italia ”c’è una minaccia populista. E’ per questo che sosteniamo gli sforzi di Renzi affinché sia un partner forte all’interno dell’Ue”. E ancora: “Ho fiducia che l’Italia se la caverà come sempre e risolverà i problemi con il nostro aiuto”. Sul piano concreto: la Commissione Ue è pronta a “considerare” le richieste di italiane di flessibilità per “le spese per i rifugiati” e per il “terremoto”. Pierre Moscovici parla a Washington e sembra un renziano. Il commissario agli Affari economici dell’Ue si schiera con il premier italiano nella difficile sfida per il referendum e, particolare non da poco, non crea disturbo a Roma. Perché, è la lettura che danno da Palazzo Chigi, il socialista Moscovici porta risultati palpabili: il suo ok oggi permette di sperare di chiudere la legge di stabilità abbastanza agevolmente. Il resto sono speculazioni astratte.

Insomma l’effetto ‘John Phillips’ non c’è. Le parole di Moscovici sono musica per le orecchie di Renzi anche se a pronunciarle è il commissario di un’Europa che ormai non suscita simpatia in nessun paese del continente. Stavolta il premier e i suoi non reagiscono con gelo, imbarazzo e distanza come è accaduto tre settimane fa, quando l’ambasciatore statunitense Phillips si è azzardato a dire che “una vittoria del no al referendum metterebbe a rischio gli investimenti americani in Italia”. Con Moscovici, commissario e uomo di mediazione nella squadra di Juncker, questo non succede. Anzi. A Roma sono contenti.

Primo perché l’ok di Moscovici sulla flessibilità, seppur non definitivo in quanto la partita con la Commissione si chiuderà tra un mesetto, lascia ben sperare sulla quadratura del cerchio anche per il 2016. E poi non è indifferente il mezzo con cui il commissario decide di dare il suo messaggio. Lo fa in un’intervista a Bloomberg, agenzia economica, e a Washington a margine dei lavori del Fondo Monetario internazionale. Dice Moscovici: “Abbiamo detto chiaramente cosa è la flessbilità nel gennaio 2015. Dobbiamo incoraggiare i paesi che creano molti investimenti, lo abbiamo fatto con l’Italia. Aiutare i paesi che portano avanti riforme strutturali affinché possano avere più tempo, lo abbiamo fatto con l’Italia. Abbiamo detto che saremmo pronti a considerare spese per la crisi di rifugiati o un terremoto o un Paese che soffre attacchi terroristici come il Belgio. Si tratta di flessibilità precise, limitate e chiaramente spiegate. In generale un Paese deve rispettare i criteri e ridurre il debito, è il principale problema di Italia e Belgio”.

Insomma, questa è l’Europa che si schiera con Renzi e si incarica di ‘garantire’ per l’Italia oltreoceano, quasi volesse calmare le acque dopo le dichiarazioni di Phillips e spingere sulla vittoria del sì al referendum. Ma c’è di più. I Dem di stanza tra Bruxelles e Strasburgo tracciano un ponte ideale tra Moscovici e Jean Claude Juncker, che ieri ha usato le stesse parole di Renzi: “Il vertice di Bratislava è stato un fallimento” sui migranti. Sostanzialmente gli ‘amici’ in Commissione Ue sono almeno due per Renzi: il commissario e il presidente, “determinati a difendere la stabilità di governo in Italia per tutelare un’Europa messa male: l’Italia di Renzi è diventata fondamentale per l’Ue”, ragionano in casa Dem a Bruxelles.

Eppure al referendum sulla Brexit, i commissari Ue si sono tenuti prudentemente a distanza dalla campagna elettorale di David Cameron per non urtare gli euroscettici del Regno Unito, anche se non è servito. Eppure per il referendum greco Juncker, Martin Schulz e altri leader Ue sono entrati a gamba tesa nella campagna elettorale per difendere gli accordi con la troika, non riuscendo a scongiurare la vittoria del no, ‘oxi’. Comunque abbia agito, l’Europa ha sempre perso la scommessa con i referendum.

Ma per l’Italia l’assist di Moscovici non rischia di danneggiare la campagna per il sì, dicono fonti vicine al premier che a Bratislava invece ha rotto con Merkel e Hollande per i mancati risultati sui migranti, convinto che un po’ di distanza con l’Ue faccia bene alla campagna per il sì. La ricetta però non si applica a Moscovici che sta seguendo passo dopo passo il cammino della legge di stabilità italiana, è in continuo contatto con Padoan e poi non è Katainen o Schauble. Insomma non è percepito come il ‘cattivo’ della situazione, bensì la ‘colomba’ contro i falchi, colui che ha le chiavi per liberare la manovra economica 2016.

Lo dimostra anche il fatto che stavolta, a differenza del caso Phillips, non scoppia la polemica politica. Anche se sia Arturo Scotto di Sinistra Italiana che Renato Brunetta di Forza Italia intervengono. “Ci mancava solo Moscovici. La politica economica dell’Europa dovrebbe essere decisa per rendere migliore la vita dei cittadini più deboli, non per salvare Renzi da improbabili minacce neopopuliste”, dice Scotto. ‘In Italia minaccia populista’. Moscovici offende popolo italiano. Democrazia fa paura a certa Ue. C’è da riflettere. Questa Europa non ci piace”, twitta Brunetta. Ma non si sviluppa un incendio di dichiarazioni.

“Apprendiamo che la Commissione europea apre alla flessibilità, è pronta a considerare alcune spese straordinarie, come quelle per la crisi di rifugiati o per le conseguenze di un terremoto ed altri eventi traumatici – dice invece Laura Garavini, dell’Ufficio di Presidenza del Gruppo del Pd alla Camera – E’ una buona notizia ed è anche la prova che la battaglia del governo Renzi per una Europa più giusta e solidale sta buttando giù qualche muro. Eppur si muove?”.
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