Donald Trump vago sul conflitto israeliano-palestinese. Stop alla soluzione dei “due Stati”, ma freno ai coloni

Il presidente americano ha gettato a mare decenni di politica estera americana dicendo che per la soluzione del conflitto israelo-palestinese gli stanno bene sia la soluzione dei “due stati per due popoli” che la confluenza dei palestinesi in uno stato unico con Israele ma ha insistito, guardando in faccia Netanyahu, che per arrivare a un accordo “è evidente” che gli uni e gli altri “dovranno accettare compromessi”.

Trump ha accolto alla Casa Bianca il premier israeliano in una giornata turbolenta per la politica americana: le dimissioni forzate del Consigliere per la sicurezza nazionale, sotto accusa per i suoi contatti con personaggi russi legati all’Intelligence di Mosca durante la campagna elettorale e nelle settimane successive al voto di novembre, hanno in qualche modo relegato in secondo piano la visita di Netanyahu ma il cerimoniale è stato modificato per soddisfare le necessità d’immagine dell’ospite. Non si era mai visto, infatti, una conferenza stampa congiunta prima dei colloqui bilaterali. La diretta, trasmessa in Israele all’ora di punta tv, voleva rafforzare Netanyahu che rischia un’incriminazione per corruzione e che appare indebolito all’interno della coalizione di estrema destra.

Trump ha ribadito il rapporto privilegiato che esiste tra Usa e Israele, ha criticato l’Onu per le sue posizioni “troppo filo-palestinesi”, e ha ripetuto la sua intenzione di arrivare a una soluzione del conflitto israelo-palestinese come aveva dichiarato più volte durante la campagna elettorale. Come? E’ la domanda che si sono chiesti molti in questi mesi. Netanyahu ha sorpreso lo stesso Trump annunciando che la Casa Bianca sta studiando un “approccio regionale” al conflitto. Ossia non più un negoziato bilaterale, peraltro fermo da anni, ma qualcosa di non specificato con la collaborazione di stati arabi mediorientali che si sono avvicinati a Israele. L’Egitto sarebbe uno di questi. L’altro, probabilmente, l’Arabia Saudita con a fianco gli emirati del Golfo. Sono paesi sunniti, alleati degli Usa che si sono avvicinati a Israele in virtù del loro comune odio per l’Iran sciita, odio condiviso da Trump sempre critico dell’accordo con Teheran sul nucleare firmato dal suo predecessore Obama. Non una parola, nella conferenza stampa, su come il presidente vede la fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est cominciata nel giugno 1967, quasi 50 anni fa.

Donald Trump subisce l’influenza di suo genero molto vicino agli ambienti dei coloni e che ha nominato consigliere speciale per il dialogo israelo-palestinese. È possibile, ascoltate le sue dichiarazioni per ora vaghe, che il presidente stia pensando a una di due delle formule avanzate dalla destra israeliana. Una vede prevede la trasformazione di Israele, con l’annessione delle Cisgiordania per creare uno stato unico dal Mediterraneo al fiume Giordano: i suoi promotori ritengono che secondo proiezioni demografiche gli arabi palestinesi resterebbero in minoranza. Proprio in queste ore, Saed Erekat, il principale negoziatore palestinese, si è detto non contrario a uno “stato unico democratico” se agli arabi venissero riconosciuto i “medesimi diritti” degli israeliani. Un’altra idea, non nuova, vede una complessa formula di confederazione tra Israele, la Cisgiordania occupata e la Giordania. Netanyahu non si è sbilanciato e, forse per paura delle reazioni negative di chi nella sua coalizione è ancora più a destra, si è rifiutato di pronunciare la frase “due stati per due popoli” che era, almeno formalmente, parte della sua piattaforma politica-diplomatica.
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Donald Trump su Vladimir Putin: “Lui sarebbe un assassino? Gli Stati Uniti non sono così innocenti”

“Io lo rispetto. Se ci andrò d’accordo si vedrà”. Donald Trump insiste nel voler impostare il rapporto con il collega russo Vladimir Putin in termini ‘diversi’. Ma lo fa questa volta con parole assolutamente inedite per un presidente degli Stati Uniti che, alle accuse mosse verso Putin, additato da qualcuno come “un assassino”, in un’intervista alla Fox News risponde: “Pensate l’America sia così innocente?”.

Una frase shock, secondo molti osservatori, sebbene non del tutto nuova. Il tycoon in campagna elettorale aveva toccato il tema più volte e anche negli stessi termini. Ma che ci torni in maniera così netta da presidente in carica, in un’intervista ‘di rito’ trasmessa come consuetudine per un presidente poco prima del Super Bowl – la finale di football americano per cui l’America si ferma e resta incollata agli schermi in tutto il Paese – suscita più di qualche perplessità. Non solo nell’opposizione, ma anche tra i repubblicani.

Il passaggio in questione è emerso da un’anticipazione del colloquio con uno degli anchor di punta di Fox, Bill O’Reilly.
“Io rispetto Putin. Rispetto molte persone, ma non vuol dire che andrò d’accordo con lui, si vedrà”, premette Trump. Sollecitato poi dal giornalista sulle accuse rivolte al presidente russo di essere “un assassino”, il tycoon non ci pensa due volte: “Ci sono molti assassini. Credi che il nostro Paese sia così innocente?”.

La polemica è immediata, il punto è il paragone che emerge dalle parole del presidente in persona tra gli Stati Uniti e la Russia di Putin. E l’imbarazzo, anche tra i sostenitori di Trump, è palpabile. “Non credo ci sia alcuna equivalenza tra la maniera in cui si comporta la Russia e gli Stati Uniti”, reagisce il leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, dopo aver messo in chiaro che, a suo avviso, Putin è “un ex agente del Kgb e un delinquente”.

“Non mi metterò a criticare ogni commento del presidente, ma io credo che l’America sia eccezionale, l’America è diversa, in nessun modo operiamo nello stesso modo dei russi. Sussiste una distinzione chiara che tutti gli americani comprendono e io non avrei caratterizzato la cosa in quel modo. Ovviamente non vedo la questione nello stesso modo” in cui la vede il presidente.

Un altro esponente di spicco del partito, il senatore Marco Rubio, twitta: “Quando mai un attivista politico dei democratici è stato avvelenato dal Gop (il partito repubblicano, ndr) o viceversa? Noi non siamo la stessa cosa di Putin!”.

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Boy Scout aperti anche ai transgender, la rivoluzione negli Stati Uniti

Sentirsi di un sesso diverso da quello che il proprio corpo esteriormente suggerisce può essere difficile da accettare per alcuni, ma essere rifiutati dalla comunità in cui si vive è la peggior condanna possibile. Per fortuna, tuttavia, i piccoli transgender potranno sentirsi più accettati e condividere coi loro coetanei esperienze uniche: da lunedì 30 gennaio, infatti, saranno ammessi nel gruppo dei Boy Scout. Ma solo negli Stati Uniti.

Ad annunciare la novità che va incontro ai diritti della comunità LGTB è stato lo stesso corpo dei Boy Scout of America. La decisione va a modificare il precedente statuto, secondo cui l’eleggibilità o meno dei ragazzi veniva stabilità in base al sesso dichiarato all’anagrafe.

“Essendo una delle più grandi organizzazioni giovanili d’America, la nostra continua a lavorare per portare benefici a quanti più ragazzi, famiglie e comunità possibile” fa sapere Effie Delimarko, il direttore del gruppo. “Siamo impegnati a identificare un programma che possa essere al servizio di tutti” continua poi.

Tutto è nato dalla segnalazione di una mamma del New Jersey, che ha fatto causa al consiglio di zona per suo figlio Joe, cacciato dagli scout in quanto identificato come transgender. La storia di Joe e della mamma Kristie aveva fatto il giro dei media a stelle e strisce, poiché l’avvocato che rappresentava la famiglia aveva parlato di “violazione delle leggi statali” nella discriminazione sessuale del ragazzo. “Sono sconvolto e arrabbiato” aveva detto Joe alla CNN. “Non è giusto escludermi solo perché nato femmina”.

La risoluzione dei Boy Scout d’America arriva dopo anni dalla prima richiesta della comunità LGTB. Nel 2013 il consiglio direttivo aveva già deciso che i ragazzi gay avrebbero potuto iscriversi all’organizzazione, mentre nel 2015 si aprivano le porte ai capo gruppi omosessuali. Sui transgender, invece, si è deciso solo ora, all’inizio del 2017.

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Appello per 2 Stati in Medio Oriente ma non passa monito a Trump

Una conferenza di pace senza i due protagonisti quella voluta dalla Francia a Parigi, oltre 70 Paesi presenti e un risultato che – secondo il capo del Quai d’Orsay, Jean-Marc Ayrault – rappresenta “una mano tesa”. Esce rafforzata l’ipotesi della “soluzione a due Stati” e si raggiunge una dichiarazione finale. Ma sulla sala delle conferenze incombe l’avvento di Trump alla Casa Bianca e la sua minaccia di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Hanno insistito con decisione molti dei paesi arabi presenti affinché nella dichiarazione finale fosse inserito anche soltanto un accenno di censura alla possibilità che il presidente americano eletto, che si insedierà fra soli 5 giorni, possa rendere operativa la sua idea di considerare di fatto Gerusalemme capitale di Israele. Alla fine, secondo quanto si è appreso da fonti presenti al negoziato, gli arabi si sono convinti a cedere, ma Ayrault ha dovuto fare qualche sforzo in più esponendo diplomaticamente la Francia: “Sarebbe una decisione molto gravida di conseguenze”, ha detto il capo della diplomazia francese, aggiungendo che se ci fosse una decisione del genere si tratterebbe di “una provocazione”.

Lo stesso Ayrault ha parlato di una dichiarazione che rappresenta una “mano tesa” ai due governi, quello di Benyamin Netanyahu – che ha accusato questa conferenza di rappresentare “un passo indietro” e di essere “futile” – e quello di Abu Mazen, che era invece più che disponibile a partecipare ma che, per non irritare ulteriormente il governo israeliano, si è fatto in modo che non fosse presente nei locali del centro conferenze del Quai d’Orsay bensì in un altro edificio. La dichiarazione finale ricalca, grosso modo, quella stilata il 6 gennaio scorso in una preconferenza con alti funzionari e sherpa. E immaginata lo scorso giugno, in una prima edizione di questa conferenza, con un numero molto inferiore di partecipanti.

Oggi, all’ultimo momento, è saltata anche la presenza del nuovo segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che si è fatto rappresentare dall’inviato speciale Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov. Presenti invece sia il segretario di Stato Usa uscente, John Kerry, sia l’alto rappresentante per la politica estera Ue, Federica Mogherini. Alfano ha insistito sul ruolo dell’Italia, determinante con il suo “contributo” per l’inserimento nella dichiarazione finale di almeno due elementi precisi: le violenze, l’incitamento al terrorismo, le parole ‘che infiammano’, tutti elementi dai quali vengono messe in guardia le due parti. E l’impossibilità di sostituire, in qualsiasi modo, “il negoziato diretto fra le due parti”, elemento indispensabile per ogni passo avanti. E’ emersa “una posizione equilibrata grazie anche al nostro contributo”, ha sottolineato il titolare della Farnesina, secondo il quale il problema del Medio Oriente non può ridursi agli insediamenti israeliani: “C’è il tema di chi incita alla violenza e chi considera eroi o martiri i terroristi. Finché sarà così, non ci sarà pace e sicurezza in Israele”.

La Conferenza di Parigi era stata convocata per rianimare un processo di pace che, agli occhi di Parigi, sta stagnando, e al quale farebbe ombra soprattutto la situazione siriana e quella più in generale dei territori in mano all’Isis. Il timore di Israele e Stati Uniti – stavolta concordi nella contrarietà ad inserire nella dichiarazione finale il nodo di Gerusalemme, Kerry si è opposto in modo piuttosto netto – era che un documento troppo sbilanciato diventasse la base di discussione domani a Bruxelles del Consiglio dei ministri degli Esteri Ue (al quale Alfano si recherà direttamente da Parigi); e soprattutto che desse sostanza a un’ipotetica ‘dichiarazione’ dell’altrettanto imminente riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che avrebbe potuto fare proprio il documento uscito dalla conferenza di oggi. Un’eventualità che la diplomazia ha dovuto sventare, a cinque giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, un evento che ha pesato in modo determinante su un appuntamento già considerato soltanto simbolico come quello di Parigi.
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Donald Trump presidente degli Stati Uniti: il ruolo chiave della middle-class operaia nel Midwest dietro la vittoria del tycoon

La verità sta nel mezzo, “in the middle”. E, per essere precisi, nella middle-class del Midwest. Le ragioni che hanno portato Donald Trump a diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America non sono né politiche né tantomeno culturali. A poche ore dalla vittoria del tycoon newyorchese si vanno sempre più delineando, se si incrociano i voti ottenuti nei singoli Stati e i dati su economia e lavoro, i motivi che hanno spinto gli americani a credere che fosse The Donald l’uomo giusto per rendere l’America “great again”.

L’American dream, per realizzarsi di nuovo, ha bisogno di depurare il tessuto industriale ed economico dagli effetti della globalizzazione e della delocalizzazione e di rimettere al centro il lavoro del cittadino americano: è questo il messaggio che sembra uscire dalle urne. Per capire, però, gli squilibri economici che hanno reso il terreno fertile per la vittoria di Trump è necessario partire da alcuni dati.

Negli Stati Uniti i numeri ufficiali riportati dall’Ufficio delle Statistiche del lavoro parlano di un tasso di disoccupazione al 4,7%. Un numero che disegna un quadro occupazionale roseo ma che non rappresenta affatto la realtà. Non si tiene conto, infatti, dei cittadini americani che non partecipano al mercato del lavoro, i cosiddetti “not in labour force”: gli inattivi in America ammontano a circa 90 milioni di persone. Cifra considerevole che però scompare dalle stime ufficiali e che disegna una realtà dai contorni più foschi dello stato occupazionale Usa.

Non è finita qui: come ha riportato Martin Wolf sulle pagine del Financial Times, l’incidenza della quota lavoro sul prodotto interno lordo americano è calato, dal 2001 al 2014, dal 64,6% al 60,4%. Si tratta di un dato che conferma come l’evoluzione dell’economia americana verso la finanziarizzazione e l’innovazione tecnologica lasci uno strascico pesante sui redditi delle famiglie. Redditi che sono aumentati del 5,2% tra il 2014 e il 2015 ma restano comunque al di sotto del livello pre-crisi Lehman Brothers.

Come ricorda il giornalista del Sole 24 Ore Vito Lops, inoltre, dal 2008 al 2016 i cittadini americani costretti a ricorrere ai food stamps (buoni alimentari) sono aumentati del 60%, passando da 28 a 45 milioni. E’ in questo contesto che si va ad inserire la vittoria di Donald Trump che ha fatto di tutto, durante la campagna elettorale, per accreditarsi come il vero oppositore dell’establishment e dello status quo, aiutato anche dalla debolezza della sua rivale Hillary Clinton, troppo legata nell’immaginario collettivo ai poteri forti di Wall Street e simbolo della continuità del potere.

La verità “in the middle”, si diceva. E in effetti è il caso di sottolineare il voto di alcuni Stati che rappresentano la spina dorsale della working class americana. Sono le roccaforti del Midwest: il Michigan, con la sua capitale Detroit un tempo centro nodale del modello fordista e oggi piegata dalla crisi industriale, il Wisconsin agricolo e manifatturiero e la Pennsylvania (più orientale ma comunque a trazione industriale) democratica dal 1992, con i suoi 20 Grandi Elettori. E poi il Nord e il Sud Dakota, Iowa e Kansas. Trump ha poi vinto in Ohio, uno degli swing states che con le sue due principali città, Columbus e Cleveland, è un bacino di voti operai impiegati in impianti siderurgici, meccanici, chimici e in particolare di gomma. Ha di certo contribuito, poi, la vittoria in Florida, altro grande stato attenzionato alla vigilia del voto con i suoi 29 Grandi Elettori. Ma, tornando al Midwest, la Clinton è riuscita a far breccia solo nel Minnesota e in Illinois.

Non è un caso: come fa notare il sito Fivethirtyeight fondato dal mago dei sondaggi Nate Silver, gli Stati del Midwest che Trump si è aggiudicato sono quelli più colpiti dalle importazioni di prodotti cinesi. Un’area identificata dall’economista David Autor del Mit come tra le più colpite dagli effetti della globalizzazione e dove le diseguaglianze hanno raggiunto la maggiore ampiezza nella forbice sociale, traducendosi nella perdita di due milioni di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011.

Il 22 ottobre a Gettysburg, nella Pennsylvania che vive una profonda crisi in particolare nel settore siderurgico, Trump ha tenuto il suo discorso programmatico, stipulando un “Contratto con gli elettori americani”, e ha messo in chiaro alcuni punti centrali della Trumponomics: una nuova riforma fiscale che prevede l’abbassamento dell’aliquota fiscale per le aziende dal 35 al 15%; revisione o cancellazione di tutti i trattati commerciali e gli accordi di libero scambio, come il Nafta (per l’America del Nord), Tpp (con i paesi dell’Area pacifica tranne “l’odiata” Cina) e il Ttip che in Europa abbiamo già avuto modo di studiare; l’aumento dei dazi sulle merci importate; la dichiarazione di una “guerra commerciale” alla Cina che ha “stuprato” gli Stati Uniti facendosi artefice del “più grande furto della storia del mondo” grazie alla manipolazione della sua moneta, lo yuan. In sintesi, la transizione da un’economia liberista al protezionismo e all’isolazionismo.

Guerra commerciale alla Cina e ai frutti marci della delocalizzione da un lato, guerra alla finanza di Wall Street e ai lobbisti dall’altro. Così il magnate di New York è riuscito a diventare l’uomo giusto per la middle-class americana, diventando il terminale del sentimento di rivalsa del ceto operaio, rimasto indietro per via dei processi di globalizzazione che hanno favorito quei Paesi più forniti di manodopera a basso costo piegando il settore manifatturiero americano.

Con una propaganda forte e una ricetta economica estremista, Trump ora è chiamato a dar seguito alle promesse fatte nei mesi di campagna elettorale, conciliando il Donald politico con il Donald Presidente degli Stati Uniti. Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva un voto che parla (anche) all’Europa, mostrando tutti i guasti prodotti da un modello economico che ha dimenticato il ruolo centrale delle forze lavoratrici. Il Re è nudo, l’Europa è avvisata.
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Siria, nulla di fatto ai colloqui di Losanna: l’intesa tra Stati Uniti e Russia per il cessate il fuoco è ancora lontana

Dai colloqui a Losanna sulla Siria nulla di fatto per un cessate il fuoco ad Aleppo. Oltre al segretario di Stato americano John Kerry e l’omologo russo Serghei Lavrov, erano presenti anche i ministri degli Esteri di Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Iran, l’Egitto, Irak e Giordania, e l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura. Fonti diplomatiche hanno reso noto che l’obiettivo effettivo di questo incontro non era quello ambizioso di una tregua, ma quello di di coinvolgere gli attori regionali nelle trattative sulle varie ozpioni possibili per porre fine alle ostilità. Negoziati che fino ad oggi si erano imitati a Washington e Mosca, come accade con l’intesa, mai rispettata, raggiunta tra Lavorv e Kerry a Ginevra il 9 settembre scorso.

L’unico elemento su cui i partecipanti al summit di Losanna hanno concordato, al termine di quattro ore di riunione, è quello generico di “prolungare i contatti nei prossimi giorni”, ha spiegato Lavrov, aggiungendo che “sono stati affrontati temi interessanti che possono influire sulla situazione sperando che si riesca a raggiungere un’intesa” per far progredire il processo di pace.

Kerry ha evitato di manifestare delusione per l’esito del summit di Losanna. Il capo della diplomazia americana ha definito l’incontro, durato 4 ore, “uno schietto scambio di idee da cui sono emerse nuove ipotesi, senza tensioni e rancori”.

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Spari in una scuola elementare negli Stati Uniti, feriti 3 bambini. Arrestato un adolescente

Sparatoria in una scuola elementare in South Carolina, a Townville. Due bambini, riportano alcuni media locali, sarebbero stati colpiti. Ferito anche un insegnante. Massiccia la presenza delle forze dell’ordine nella zona. La scuola è stata evacuata e gli studenti sono stati condotti nella chiesa battista di Oakdale.

Una persona è stata arrestata. Si tratta di un teenager. La polizia ha spiegato che sarebbe stato lui ad aprire il fuoco. Le
forze dell’ordine hanno parlato di un’aggressione isolata.

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