Mucchetti: “Renzi si dimetta anche da segretario Pd, su Milano e Roma avverto un clima da fine di regimetto”

Senatore Mucchetti, domani l’assemblea nazionale del Pd, in un clima burrascoso: non solo la sconfitta referendaria, il cambio a Palazzo Chigi con un esecutivo che sembra la fotocopia del precedente e ora anche la bufera giudiziaria a Milano, proprio sul simbolo del renzismo: Beppe Sala, ex commissario Expo scelto da Matteo Renzi per Palazzo Marino. In questo clima, Renzi cosa dovrebbe fare domani?

Avverto un clima da fine regime, se vogliamo essere solenni. O da fine di regimetto, se vogliamo essere più aderenti alle cronache. Le leadership politiche d’opposizione esaltate oltre i propri meriti, convinte di essere a un passo dal potere senza aver fatto i conti con la propria incultura di governo. La leadership di maggioranza schiava delle ambizioni private di un uomo che ha perso la testa. Come se non bastasse, ecco a turbare l’opinione pubblica le inchieste di Milano, ma anche quelle di Roma. Il nuovo che avanza sembra uguale al vecchio. I sindaci, sui quali resisteva la fiducia, che diventano discutibili come i consiglieri regionali… Dell’inadeguatezza della Raggi è già stato detto tutto, anche da parte dei suoi correligionari pentastellati. Della reazione di Sala colpisce l’irrazionalità. Che senso ha sospendersi? Milano resta senza sindaco? E per quanto tempo? Se si sente estraneo alle accuse, Sala deve restare a palazzo Marino a testa alta. Se teme qualcosa, si deve dimettere. Ma qui emerge l’equivoco moralista del renzismo: forcaiolo con l’allora ministra Cancellieri e garantista con la ministra Boschi. E così l’impolitico Sala non sa più che cosa fare né a chi rispondere….

Ma Renzi?

Non mi stupirei se domani Renzi si presentasse dimissionario. Matteo, direbbe l’Antonio shakespeariano, è uomo d’onore. E così pure Maria Elena. Tutte persone d’onore…Avevano promesso che si sarebbero ritirate dalla politica se avessero perso il referendum. Lei non l’ha fatto. Anzi. Ma a una signora una debolezza va concessa… Ma a lui? Al capo pullman? Nella sua domenica nera, Renzi ha aggiunto di non essere attaccato alla poltrona come gli altri, e dunque ha annunciato il ritiro da palazzo Chigi. In verità, gli “altri” si erano dimessi davvero e senza farla tanto lunga: D’Alema, Veltroni, Bersani. Se domani lasciasse la segreteria del Pd, Renzi darebbe esecuzione – ancorché tardiva – a un impegno.

Tardiva?

Beh, tutti hanno visto che prima ha cercato di andare subito alle urne a leggi elettorali vigenti con il suo governo in carica per gli affari correnti. Poi, di fronte al richiamo alla responsabilità del Quirinale, ha cercato il reincarico, poi ha condotto consultazioni irrituali, ma ben pubblicizzate, di capi e capetti in parallelo a quelle ufficiali del presidente della Repubblica, quindi ha tentato di porre un limite temporale e politico al governo Gentiloni e ne ha certamente condizionato la composizione affinché fosse chiaro che comandava ancora lui, l’ex non ex del Nazareno. La promozione della Boschi a guardiana del premier e la posizione surreale di Lotti, sport e Cipe, parlano da se’. Sono uno schiaffo agli elettori. Eppure, Gentiloni qualcosa fa sperare.

Fa sperare che cosa?
Avrà notato che il premier non ha preso l’impegno di dimettersi dopo l’approvazione della legge elettorale, che ha delegato questa legge cruciale, come giusto, al Parlamento smentendo così le procedure del predecessore che la fece proporre dal governo e pretese per tre volte la fiducia del Parlamento. I governi, ha spiegato Gentiloni, durano finché hanno la fiducia delle Camere. Forse è pura tautologia costituzionale, forse no.

Toccherà dunque al Pd staccare la spina?

Questa sembra la regola evocata dal capo del governo. Ma come farà il Pd a staccare la spina a un governo che funzionasse o ad andare alle elezioni avendo promosso un governo che si rivelasse incapace ma che tutti attribuirebbero al suo leader? L’astuto Renzi mi pare finito in un cul de sac.

Cul de sac? Allora, Mettiamo che Renzi si dimetta, faccia decidere all’assemblea un congresso lampo, una sorta di nuove primarie per riconquistare la guida del Pd e ricevere la candidatura alla guida di un governo di legislatura…

Non sono iscritto al Pd, ma l’ho votato e seguo la disciplina del gruppo del Senato. Comunque, credo di ricordare che i congressi richiedano qualche mese per essere celebrati partendo dal basso… Trasformare le prossime assise, previste per la fine del 2017, in rapide elezioni primarie mi pare surreale, senza sapere quale legge elettorale avremo e ancor più se, seguendo la probabile sentenza della Corte, avremo un regime sostanzialmente proporzionale. Nelle coalizioni, che si renderebbero necessarie dopo il voto, non si impone il premier. Lo si negozia.

Veramente non mi pare che Renzi sia già pronto a sacrificare l’opzione maggioritaria. Per questo, più che al congresso del Pd, pensa a primarie di coalizione prima delle elezioni anticipate, da celebrarsi al massimo a giugno. Che ne pensa?

Lo stile è l’uomo. Renzi non è Cameron. D’altra parte, se torna a Rignano, Renzi che fa? Non ha un mestiere. Il rottamatore vive di politica da sempre. Dunque sogna la rivincita per se stesso. Ma così rischia di portare il Pd e il centrosinistra alla rovina, e con loro, temo, il Paese. Quanto all’impopolarità del governo, basterebbe sostituire i ministri più ferocemente renziani per rendere il dovuto omaggio al corpo elettorale. E lavorare. L’Italia ha bisogno di essere governata. Non di avere altri 6-7 mesi di campagna elettorale con il blocco di tutto com’è avvenuto già nel 2016.

Renzi è l’unico leader del centro sinistra?

Non credo sia questione di leader ma di classe dirigente. Se invece così fosse e se Renzi fosse davvero l’unico leader, il centro sinistra avrebbe già perso.

Perché ha perso? Solo cattiva comunicazione, come disse l’ex premier quando il governo fu inondato di critiche per la Buona Scuola?

La cattiva comunicazione e’ la scusa degli sconfitti che non vogliono ammettere gli errori veri. Ma se ha invaso le TV, i giornali, le buche delle lettere e perfino il web con la propria presenza…. Che sia lui il messaggio “cattivo”? Il fatto è che Renzi ha fallito sia nel rapporto con la società civile sia nella politica politicante.

Allora cosa ha sbagliato Renzi?

Non puoi proporti come leader della sinistra e non avere mai un’idea diversa da quelle di Marchionne, della JP Morgan o di Google. Non che costoro abbiano sempre torto. Ma tu, chi sei se ti fai scavalcare perfino da una Theresa May nel rapporto con i lavoratori nelle aziende e nella politica fiscale verso i nuovi monopoli? Credi che le diseguaglianze generate dalla globalizzazione finanziaria si combattano con gli 80 euro? E quando affronti le grandi imprese o le banche, hai un’idea di Paese e sei capace di far di conto o ti fai portare a spasso dal Dimon di turno? Capisci che cosa bolle nel pentolone della Vigilanza unica o arrivi sempre tardi dicendo che corri? Diversamente da Ugo La Malfa, da Giovanni Malagodi, dai principali leader democristiani o dallo stesso Craxi, che erano parte dell’establishment e trattavano da pari a pari con i poteri economici, non sempre nemmeno loro ma spesso, Renzi è un parvenu che, invece di trarre vantaggio dall’assenza di legacy con il passato, ha manifestato un vero e proprio complesso di inferiorità verso i poteri forti quando questi poteri – beffa delle beffe – forti non erano già più. È stato sgarbato con il governatore della Banca d’Italia credendo di diventare autorevole, ma senza poi saper proporre un’idea sua. Dice di rinnovare e recupera la corte di Bisignani. E ora tace su Mediaset e Bollorè. Avendo già taciuto su Telecom Italia quando tentarono di prenderla gli spagnoli di Telefonica e poi quando l’ha presa davvero Vivendi. Però, addosso alla Camusso, avanti contro la Cgil, mi raccomando. Così siamo moderni e vinciamo il referendum con l’appoggio della Confindustria e del Sole 24 Ore, notorio esempio di gestione 2.0, ma che dico: 6.0, e certo con il valsente dei commensali che ti vengono a sentire chez Micheli pagando 30 mila euro a testa.

Beh forse non solo il Sole…

I giornali hanno capito con grande ritardo quanto poco Renzi sia adatto a governare un Paese grande come l’Italia. Un ritardo che illumina la debolezza di editori, direttori e di parte delle redazioni. Ma adesso il coro di critiche al governo Gentiloni targato Boschi suona come una campana a morto. Caro Renzi, quando perfino Paolo Mieli, che gli ex comunisti li ha in uggia più di te, ti consiglia una pausa, e’ il momento di prendertela.

Lei ha votato la fiducia.

Con grande fatica. Sono stato tentato fino all’ultimo di non partecipare al voto. Ma il Quirinale chiedeva stabilità. E non si fa niente da soli. Si può tuttavia prendere posizione nel merito dell’azione di governo, avanzare nuove proposte per costruire soluzioni migliori. Credo vada sostenuta, per esempio, la riforma dei regolamenti parlamentari che, come ha ricordato il presidente del Senato, Piero Grasso, può raggiungere con legge ordinaria gli obiettivi di governabilità parlamentare e di coinvolgimento delle regioni, così male affrontati dalla riforma costituzionale. C’è un ddl Zanda-Finocchiaro da riprendere. E poi c’è un Jobs Act da rivedere. I voucher sono uno scandalo. Il decreto salva banche a tutela del risparmio. Le nomine al vertice delle aziende pubbliche che mi auguro obbediscano al merito e non all’appartenenza alle cordate di turno…. Se ne hanno voglia, Gentiloni e Padoan possono molto.

Ci crede?

Il cervello suggerisce pessimismo. Resta la volontà.

Perché è pessimista?

Perché il sistema dei partiti è spappolato, le culture politiche fin troppo indebolite. In particolare, la governance
del Pd, che resta l’architrave dell’attuale maggioranza parlamentare, si è rivelata assai carente. Nella Prima Repubblica, quando Andreotti si dimetteva, non andava a palazzo Chigi Cirino Pomicino. I partiti riunivano le direzioni (che erano una cosa seria..) e i gruppi parlamentari per decidere che cosa dire al presidente della Repubblica. Oggi decide tutto il capo con tre o quattro capi corrente, se va bene. I gruppi parlamentari e le direzioni sono chiamati a commentare i commenti dei giornali e le chiacchiere già fatte nei talk show. E’ triste. Fossimo guidati da un Messi della politica, pace. Ma il “caro leader” ha toppato con la riforma costituzionale, ha imposto tre volte la fiducia su una legge elettorale che poi dice di voler cambiare e che la Corte boccerà, ha varato una riforma della P.A. non proprio costituzionale, una riforma delle banche popolari fermata dal Consiglio di Stato, della Buona Scuola tacere è bello, e ora il duro trema davanti ai referendum sul Jobs Act come confessa il ministro Poletti. Più in generale, questo Pd usa argomenti populisti sulla politica e sulla P.A. per non lasciarli al M5S e non si accorge che così smonta la sinistra senza mai raggiungere l’originale grillino. L’impegno che ho preso accettando la candidatura al Senato propostami dall’allora legale rappresentante del Pd, Pierluigi Bersani, si avvicina alla scadenza. Meno male, dico per me. Ma mi domando se davvero il Pd crede di portare il centro sinistra a vincere le elezioni in queste condizioni?


Renzi conta sul 40%…

Dio acceca chi vuol perdere.

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E Matteo Renzi segretario prepara la nuova scalata al Pd. La mission: evitare la congiura delle correnti

La prima cosa che un parlamentare renzianissimo chiede quando al telefono gli leggiamo il sondaggio di Scenaripolitici per Huffington Post secondo cui Matteo Renzi deve restare il leader per il 52 per cento degli elettori del centrosinistra è: “Ma gli altri sono uniti o no?”. Vale a dire: tra i vari Franceschini, Orlando, Bersani, Orfini e tutti gli altri, c’è un nome che spicca e c’è qualcuno che manca? Tradotto: alcune di queste aree figurano come alleate oppure no? Domande non casuali perché adesso che non è più premier, adesso che gli è rimasta solo la carica di segretario del Pd, Renzi vuole evitare la ‘congiura’ della varie correnti Dem contro di lui.

Domenica a Pontassieve con la famiglia. Black out totale con i media. Non è da Renzi. Gioca ad allontanarsi dal palcoscenico per poi tornare. Aveva finanche lasciato trapelare di voler disertare la direzione del Pd domani. Ma era solo un giochetto per vedere l’effetto che fa. È durato meno di 24 ore: domani al Nazareno il segretario ci sarà. L’obiettivo ultimo è restare sulla scena ma per farlo il segretario Dem scruta i movimenti interni al Pd, pur convinto che l’unica chiave sia guadagnare consenso fuori dal partito, con un giro di ri-legittimazione in camper a partire da metà gennaio, dopo una vacanza all’estero con la famiglia per le vacanze di Natale. Anche lì, black out totale o quasi: un’assenza che resta presenza.

“Ai milioni di italiani che vogliono un futuro di idee e speranze per il nostro Paese dico che non ci stancheremo di riprovare e ripartire. Ci sono migliaia di luci che brillano nella notte italiana. Proveremo di nuovo a riunirle. Facendo tesoro degli errori che abbiamo fatto ma senza smettere di rischiare: solo chi cambia aiuta un Paese bello e difficile come l’Italia”, scrive su Facebook alle 2 di notte, appena tornato a Pontassieve dopo le trattative romane sul governo.

Ad ogni modo, domani invece Renzi sarà al Nazareno e terrà la sua relazione alla direzione del Pd riunita per la seconda volta nel giro di questa settimana di crisi di governo post-referendum. All’ordine del giorno c’è la fiducia parlamentare da accordare – pare già mercoledì – al nuovo governo Gentiloni. Ma il segretario comincerà ad abbozzare la discussione sul congresso da sviluppare poi in assemblea nazionale domenica 18 (forse a Milano).

Il timing gli è chiaro. Partenza a metà gennaio, congressi nei circoli ma soprattutto primarie a metà marzo massimo, voto a giugno. Ciò che si muove o si potrà muovere nel Pd gli è meno chiaro. Dal giorno della sconfitta, le correnti sono in fermento. L’idea di disertare la direzione domani era anche un modo per prendere le distanze dalle correnti. Puntare subito fuori dal Pd, tra quegli elettori di centrosinistra che nei sondaggi lo riconoscono ancora come leader, rivolgersi a loro piuttosto che a un partito che ormai lo sopporta. In direzione lancerà la volata per il congresso e avvierà la resa dei conti con la minoranza del no.

Ma la riflessione che lo interroga è sulla sua maggioranza nel partito. Con Franceschini c’è una sorta di tregua armata. Subito dopo la sconfitta i primi sintomi del nuovo clima, il braccio di ferro sul voto subito o meno, il segretario costretto a frenare. Prima volta che ci riescono con Renzi. Ora nasce un governo Gentiloni, voluto dal segretario che in questo l’ha spuntata. E proprio domani, mentre la direzione nazionale del Pd sarà nel pieno della discussione, il premier incaricato potrebbe salire al Colle a sciogliere la riserva. Ma d’ora in poi come si muoveranno le correnti?

Un nome: Andrea Orlando. Il guardasigilli, che dovrebbe essere confermato al dicastero di via Arenula anche nel governo Gentiloni, non è più in ottimi rapporti con Matteo Renzi, da quando il disegno di legge sul processo penale è finito sul binario morto in Senato. Argomento troppo spinoso da affrontare in campagna referendaria, messo da parte come quello sulla tortura o il cognome materno. Invece Orlando continua ad avere buoni rapporti con Gianni Cuperlo e anche con Pier Luigi Bersani. Ora: tra Cuperlo che ha votato sì al referendum e Bersani che ha votato no, c’è un divario forse incolmabile. Tanto più che Cuperlo ha cominciato a muoversi insieme con la sinistra di Giuliano Pisapia, la sinistra del sì fuori dal Pd nell’ottica di una ricostruzione del centrosinistra. Tra Orlando e Bersani però qualche renziano comincia a non escludere alleanze in nome della vecchia ditta. Operazione “nostalgia Ds” la chiamano.

Renzi non la teme, convinto com’è di avere più capacità di leadership degli altri. Ma se ne guarda lo stesso. Per lui è vitale che le altre aree si presentino divise al congresso, che non si saldino su un unico nome contro il suo. Ecco il perché del camper in giro per l’Italia. “E’ tutto da costruire”, dice un fedelissimo. Renzi si prepara a ri-scalare il Pd con il solito aiuto da fuori. Promette giri in ogni federazione e tra i giovani, coloro che più di ogni altra fascia sociale gli hanno voltato le spalle al referendum. “Le primarie sono aperte”, ricordano i suoi, convinti che questo basti a legare la maggioranza del partito alla leadership di Renzi. A cominciare da Areadem di Franceschini.

Lo scenario a cui punta il segretario è ‘io contro lo spezzatino’, insomma. Certo si ritroverà come avversari i governatori Michele Emiliano ed Enrico Rossi. C’è chi fa anche il nome di Sergio Chiamparino, per completare il quadro dei presidenti di regione candidati alla segreteria. Ma “ognuno per conto suo e senza leader”, esulta il renziano cui abbiamo letto il sondaggio di Huffington Post. Basterà?

La scommessa è così aperta che, pur ragionando ormai in termini di proporzionale o semi-proporzionale per trovare al più presto un accordo con Berlusconi e andare al voto, nella cerchia del segretario non sono più tanto sicuri nemmeno di questo. “Se l’operazione di ricostruzione della leadership di Renzi dovesse andar bene, perché non insistere sul maggioritario”, ci dice un altro renziano di prima fascia. Forse perché si allungherebbero i tempi per andare al voto, sempre che sia semplice per Renzi staccare la spina al governo del suo fidato Gentiloni a primavera. Forse, la sfida più difficile.
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Davide Zoggia: “Matteo Renzi vuole ricandidarsi? Si dimetta da segretario

“Il Pd andrà a un congresso anticipato? A guidare la fase di transizione non può essere il segretario Renzi, soprattutto se ha intenzione di ricandidarsi.
Quando si dimise Bersani nel 2013 arrivammo al congresso con alla guida una figura di garanzia come Epifani”. È quanto afferma alla Stampa, Davide Zoggia, deputato dem ed esponente della minoranza bersaniana. “Servono regole chiare – spiega – che garantiscano tutti, un congresso dove si discuta cosa è successo il 4 dicembre e in questi anni di governo, e di come riconnettersi con un popolo di centrosinistra che ha voltato le spalle al Pd. Non vorrei che si andasse a un congresso in fretta solo per la volontà di rivincita di chi ha perso il referendum”.

“Il modello dell’uomo solo al comando – fa notare Zoggia – non ha funzionato, né al governo e meno che mai nel partito, che è in condizioni pessime, nonostante gli sforzi di Lorenzo Guerini. Noi pensiamo a una squadra, una leadership diffusa. E chiediamo di separare il segretario dal candidato premier. Il segretario per noi non dovrà essere scelto con primarie aperte”.
“Gentiloni – osserva quindi Zoggia – non rappresenta la discontinuità necessaria. Serve una svolta nelle politiche sociali, se il nuovo esecutivo sarà una copia del precedente non sarà possibile risalire la china. Bisogna cambiare le ricette che non hanno funzionato, a partire da Jobs Act, voucher e scuola”. “Il governo – sottolinea – deve fare le cose necessarie al Paese, senza limiti temporali legati ai desiderata di qualcuno”
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Referendum e maltempo. Renzi mette i piedi nel fango a Torino: annullata la tappa da segretario Pd, ci si presenta da premier

Non vengo per via del maltempo. Anzi no: vengo per via del maltempo. Piemonte e Liguria sono flagellati dai temporali e le esondazioni dei fiumi. Matteo Renzi rimodula la campagna elettorale per il referendum. Via i panni del segretario del Pd, quelli che ormai è solito indossare in quest’ultimo scorcio di volata elettorale verso il 4 dicembre. Renzi si ricala nella parte di premier: annulla l’iniziativa elettorale di stasera a Torino, la sposta a domenica ma a Torino ci andrà comunque. Domattina alle 8 sarà con il governatore Sergio Chiamparino alla sede della Protezione civile per verificare di persona la situazione di emergenza causata dalle pesanti piogge di queste ore.

Lontani i tempi in cui il premier non si presentava nei luoghi dei disastri, naturali o meno. “I politici non fanno passerelle”, disse a proposito dell’alluvione a Genova due anni fa. Non si presentò se non mesi dopo. Ha smesso a luglio scorso con il tragico incidente ferroviario in Puglia: si presentò subito sui luoghi del disastro. Per non parlare del terremoto di agosto e di quello autunnale nelle regioni del centro Italia: tempo di organizzare la trasferta e Renzi è lì dagli sfollati ancora sotto shock per le scosse.

Il terremoto non è molto presente nel dibattito pubblico di questi ultimi giorni. Non in quello del premier. Né in quello dei media, concentrati su altre emergenze. Oggi c’è quella del maltempo al nord. E dove c’è emergenza, ormai Renzi risponde. Da premier. E allora: rinviata a domenica l’iniziativa elettorale di stasera al Lingotto. E’ lui stesso ad annunciarlo su twitter:

Ma il premier domani sarà comunque a Torino. “Giornata di apprensione per le notizie che arrivano dal Piemonte. Domani sarò personalmente a Torino nella sede della Protezione Civile Regionale col presidente Chiamparino”, annuncia in un post su Facebook che gli serve per parlare della visita di oggi allo stabilimento Fiat di Cassino, a caccia del voto operaio con di fianco Sergio Marchionne.

Ma la visita a Torino non si conclude con la tappa alla Protezione civile. Anzi, questo è il fuori-programma dettato dal maltempo. A metà mattinata Renzi parteciperà all’inaugurazione dell’Anno accademico degli Istituti di formazione dell’Esercito (evento già previsto quando in agenda c’era solo il Lingotto di stasera). Proprio come ha fatto giorni fa a Roma, garantendo una irrituale presenza di premier all’inaugurazione dell’anno accademico della scuola della Guardia di finanza: di solito ci va solo il ministro dell’Economia.

Domani poi il giro al nord si conclude con Milano: ore 14, firma del Patto per la Lombardia con il governatore leghista Roberto Maroni. Tappa che per Renzi è un mega-spot in casa del No.

Il premier-segretario si è ormai buttato a capofitto in una campagna referendaria maniacale nella cura dei dettagli. Via le iniziative che possono risultare inopportune, anche se elettorali. Anzi proprio perché elettorali, come quella prevista stasera a Torino. Confermate invece quelle che servono a valorizzare la funzione di ‘premier che fa’ a dispetto di chi pensa solo a “lamentarsi, dire che va tutto male, criticare soltanto”, come scrive Renzi su Facebook.

I panni di segretario del Pd e quelli di presidente del Consiglio, indossati o dismessi a seconda dell’occasione, garantiscono un giochetto che continua a guardare fisso al 4 dicembre. Puntato nella stessa direzione di tutti gli altri riflettori mediatici anche internazionali. Anche quello dell’Economist, per dire, che oggi si schiera con il no e benedice un governo tecnico in caso di sconfitta di Renzi. Il premier lo valuta come un aiuto: si dimostra che le elite finanziarie non stanno con il sì, spiegano i suoi. Manca poco più di una settimana al giorno della verità.
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Donald Trump lavora alla sua squadra ma già è stallo su Rudy Giuliani come segretario di Stato

Succede tutto dietro porte chiuse, molto ai piani alti della Trump Tower sulla Quinta Strada a Manhattan dove il presidente eletto Donald Trump e il suo vice Mike Pence si incontrano per fitte consultazioni volte a definire la squadra di governo. Perchè le diverse anime politiche che hanno portato all’elezione del tycoon adesso sono in aperta collisione, sulle nomine e sulle caselle da riempire, quindi sulla linea da dare alla nuova amministrazione americana nonostante la promessa di una “rivoluzione commerciale” che “romperà con le ali globaliste sia di repubblicani che di democratici” a dare l’impronta dei suoi primi 200 giorni di lavoro. Il fronte è spaccato a partire dalla paventata nomina di Rudy Giuliani come segretario di Stato.

La conferma tarda a arrivare perchè la scelta è controversa: in queste ore si ricorda infatti un potenziale conflitto di interessi date alcune attività di consulenza dell’ex sindaco che rimandano ad alcuni paesi chiave, dal Venezuela di Hugo Chavez all’Arabia Saudita. Se ne era già parlato quando nel 2007 Giuliani aveva tentato la sua di corsa per la Casa Bianca, oggi però le sottolineature di fonti di stampa hanno effetto amplificato dopo che per l’intera campagna elettorale Donald Trump e il suo fronte si sono scagliati contro la Clinton Foundation e i dubbi sulla sua lista di donatori, presentato come limite insormontabile per la credibilità della rivale democratica Hillary Clinton poi sconfitta. Ma anche la promessa di smantellare quelle zone grigie in cui a Washington si incontrano politica e grandi interessi rappresentati da un esercito di lobbisti.

L”organigramma” con focus sulla politica Estera e di Sicurezza nazionale della nuova Casa Bianca emerge quindi al centro di una lotta intestina che rischia di rallentare oltre il dovuto il processo di transizione verso l’insediamento il prossimo 20 gennaio. Fonti parlando di stallo e confusione conclamata, il cui simbolo oggi è il ritiro dalla transition team (secondo alcuni è stato scaricato) di Mike Rogers, ex deputato che ha presieduto la commissione della Camera sull’intelligence.

Nei giorni scorsi Chris Christie era stato messo da parte e l’impresa era stata affidata al vicepresidente eletto Mike Pence con lo sguardo a Washington, ma non basta. Tra i fedelissimi risulta escluso anche Ben Carson, che dice di non volere un posto nell’amministrazione per mancanza di esperienza a livello governativo, sembra tuttavia che nessuna proposta in quel senso era comunque arrivata. Nel limbo al momento resta anche Kellyanne Conway, l’ultima dei diversi responsabili della campagna elettorale cambiati da Trump durante la corsa (tra questi Corey Lewandoski sul quale pare ci sia addirittura un esplicito veto).

Intanto su Capitol Hill il cielo si rasserena, almeno apparentemente, con le nuvole squarciate dalla conferma di Paul Ryan per la nomina ad un secondo mandato da Speaker della Camera. Lo hanno votato all’unanimità i deputati repubblicani e la conferma è attesa a gennaio con il voto dell’intera aula. Il dado però è tratto per Ryan, pronto ad essere lo Speaker dell’era Trump e l”unificatore”. Lo ha confermato lui stesso oggi nella sua prima uscita dopo l’elezione del tycoon, affermando: “Benvenuti all’alba di un nuovo governo repubblicano unito”.
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