G-20, il protezionismo non è più un tabù. Scontro fra Usa e Europa su economia e ambiente. Il ruolo della Cina

I primi segni dell’impronta che l’America di Donald Trump vorrebbe dare all’economia mondiale si sono manifestati nel compromesso al ribasso adottato dal G-20 di Baden Baden, in Germania. Nella dichiarazione finale poche e deboli parole (“Lavoriamo per rafforzare il contributo del commercio alle nostre economie”) e un grande assente: la lotta al protezionismo che negli ultimi dieci anni era stato il tratto distintivo dei big dell’economia e della finanza. La musica è cambiata e il marchio del direttore d’orchestra, cioè il presidente degli Stati Uniti, ha portato a una riscrittura dello spartito che l’economia globale si appresta a eseguire. Come e in che misura è ancora da verificare e dipenderà da come gli altri player proveranno a rilanciare la propria visione.

Tutto in uno scenario dove la dialettica-scontro tra il protezionismo e il libero scambio si intreccia a interessi nazionali, come quello del suprlus della Germania e di una Cina che ha la necessità di spingere sull’acceleratore del liberismo puro per reggere il passo di un’economia americana ritornata sugli scudi.

Se a ciò si aggiunge che il comunicato del G-20 non fa riferimento alla lotta ai cambiamenti climatici, suggellata con l’accordo di Parigi Cop21, si capisce bene come Trump non solo abbia rovesciato le politiche del suo predecessore, Barack Obama, ma abbia anche rotto gli equilibri che avevano avvicinato i tre player mondiali più influenti, cioè Usa, Cina ed Europa.

Il silenzio del G-20 sul contrasto al protezionismo segna il terzo step della strategia dispiegata da The Donald negli ultimi giorni, dopo i tagli del 30% all’Agenzia per la protezione ambientale previsti nel piano americano “American first” e la linea di chiusura sugli immigrati e i rifugiati, ribadita ieri nell’incontro alla Casa Bianca con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Uno schema, quello del protezionismo, che Trump mira a inserire nel contesto dell’economia mondiale come fattore destabilizzante di un quadro caratterizzato da forte instabilità e da una crescita che vacilla, soprattutto in Europa. Trump ha affidato al segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, la sua strategia al G-20. “Crediamo in un commercio libero, ma equilibrato, che riduca gli eccessi”, ha affermato Mnuchin e il tema che animerà da oggi in poi l’economia globale sta proprio nel punto di caduta di questo equilibrio.

Gli Usa vogliono un equilibrio che miri a proteggere maggiormente la loro economia rispetto ad oggi. Per l’America la minaccia è la grande esposizione che molti Paesi, Germania in primis, hanno verso il suo mercato. Basta pensare a Berlino: l’export tedesco negli Stati Uniti ha toccato quota 113,73 miliardi, mentre il flusso inverso, cioè le importazioni di prodotti e merci americane in Germania sono state appena pari a 59,30 miliardi. Una differenza che per Berlino vale un surplus di quasi 50 miliardi di euro. Troppo per non spingere Trump a correre ai ripari: prima la minaccia di introdurre una tassa sulle importazioni delle Bmw prodotte in Messico. In attesa di capire se il presidente americano passerà alle misure pesanti, come la border tax per frenare le importazioni, gli Usa danno un primo segnale, e forte, al G-20, ma non chiudono la porta in faccia agli altri Paesi. Per questo Mnuchin si dice “fiducioso” di riuscire a collaborare “costruttivamente” sui macro temi della crescita globale e della stabilità finanziaria. E il braccio di ferro potrebbe passare anche attraverso il cambio del dollaro. Con la Banca centrale europea che potrebbe finire sotto ulteriore pressione per una normalizzazione monetaria che pone un sacco di problemi, in Europa e in Italia.

Il dinamismo dell’America si contrappone alla posizione degli altri player. La Cina esce sconfitta da questo G-20: le raccomandazioni del ministro delle Finanze, Xiao Jie, sulla necessità di opporsi al protezionismo “in modo deciso” si sono rivelate insufficienti per far convergere il G-20 su una posizione diversa rispetto a quella assunta nel comunicato finale. A pagare lo scotto di un’America che vuole lasciare il segno è anche l’Europa. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha affermato chiaramente che ci aspettava ben altro sul tema del commercio. Lecca le ferite anche la Francia, che aveva fatto da casa madre all’accordo sul clima di Parigi. Il ministro dell’Economia francese, Michel Sapin, esprime tutto il suo rammarico per il fatto che nella dichiarazione finale non si faccia riferimento al tema dell’ambiente. “È un vero peccato che nelle discussione odierna siamo stati incapaci di raggiungere qualsiasi accordo soddisfacente”. Parole di resa.

La partita per la direzione da imprimere all’economia globale è entrata nel vivo. Intanto, per non farsi troppo male, i Paesi del G-20 hanno deciso di non dare vita a una guerra tra le valute: si sono impegnati a consultarsi in modo assiduo sui tassi di cambio e a evitare svalutazioni competitive. Sarà una sfida alla pari. Almeno sulla carta.


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Sandrine Bakayoko, dall’Africa morta nel bagno di un’ex base militare. Forse aveva abortito. Nel campo scontro con gli ivoriani che vogliono lo sciopero della fame

L’ex base militare Silvestri di Conetta di Cona prima di diventare il centro di accoglienza più affollato del Veneto era una struttura abbandonata da anni. Attorno ci sono solo campi, terra rivoltata dalle macchine agricole per l’inverno in attesa di venire seminata in primavera. Sembra fare quasi più freddo in questo posto raggiungibile solo seguendo una strada stretta, una lingua di asfalto dove a fatica riescono a transitare due auto contemporaneamente.

Da più di 24 ore varcare quel cancello dove ancora compare un cartello con la scritta “zona militare-limite di sicurezza”, è diventato pericoloso, difficile, complicato se non si indossa una divisa da poliziotto o da carabiniere e se non si è uno degli operatori della Coop Edeco che si occupa della gestione dell’accoglienza dei 1360, forse anche di più, profughi ospitati all’interno. Mali, Bangladesh, Costa D’Avorio, Marocco, Zambia, Tunisia, Senegal, i migranti che ci vivono, chi da 2 mesi chi da oltre un anno, provengono tutti dall’Africa e quasi tutti sono arrivati via mare con i barconi della speranza che dalla Libia puntano verso la Sicilia. Il loro sogno da “Eldorado” però, una volta arrivati a Conetta sembra essersi bruscamente interrotto.

A Conetta lunedì 2 gennaio è morta una donna, Sandrine Bakayoko: aveva 25 anni, era della Costa D’Avorio, della parte francofona dell’Africa. Le cause del suo decesso, come ha accertato l’autopsia disposta dalla Procura di Venezia, non sono da ricercare in un ritardo dei soccorsi o in motivi di negligenza nell’assistenza. Ha avuto un’embolia ed è morta durante il trasporto in ambulanza verso l’ospedale di Piove di Sacco, il paese più vicino con un ospedale e che si trova in provincia di Padova seppur a pochi chilometri da Cona che è ancora sotto la provincia di Venezia. Sandrine Bakayoko in Italia e poi a Conetta c’era arrivata con il marito il 30 agosto scorso. Era una delle 25 donne che sono ospitate nella ex base militare. Alcune di loro sono incinta, pare in otto. Sandrine pare fosse anche lei in dolce attesa ma avrebbe abortito almeno due mesi fa. Prima di martedì non aveva richiesto delle cure particolari o non aveva avuto modo di lamentarsi per il suo stato di salute.

Simone Borile è il direttore della Cooperativa Edeco che opera all’interno della ex base. “È stato il marito a trovarla: lei era andata in bagno e non tornava. Era quasi ora di pranzo e lui è andato a cercarla. Le donne, nel campo di accoglienza, hanno alloggi e servizi separati dai maschi. I bagni, in particolare, hanno una chiusura a chiave. Quindi il marito, quando ha trovato la porta chiusa ha capito che sua moglie era dentro e ha chiesto l’intervento del nostro personale per aprire facendo la macabra scoperta. È intervenuto subito il medico del campo, continua Borile – che ha cominciato a praticare manovre di rianimazione cardiopolmonare. Contemporaneamente abbiamo chiamato il 118 e l’ambulanza è giunta dopo un quarto d’ora”.

I profughi sono seguiti da quaranta operatori di giorno, venti di notte, 5 medici a turno, infermieri, operatori sociosanitari. Ogni giorni vengono cotti 465 chili di riso. Ma martedì, per tutti, niente cibo. La morte di Sandrine ha innescato una rivolta soprattutto da parte di quella parte di migranti francofona, non solo gli ivoriani, connazionali della 25enne deceduta. Le prime “vittime” sono stati gli stessi operatori della cooperativa costretti a restare chiusi per motivi di sicurezza fino alle 3 del mattino nel loro container adibito ad ufficio. Circa duecento dei 1360 migranti ospiti hanno approfittato della morte di Sandrine per innescare una rivolta e protestare contro tutto e contro tutti: dalla presunta mancanza di medicine, alla scarsa pulizia dei bagni, fino al freddo nei tendoni dove dormono e a presunte mancate consegne dei pocket money fino alla lunghezza dell’arrivo dei permessi di soggiorno per lasciare il campo.

Una situazione esplosiva che la polizia, con il questore di Venezia Angelo Sanna in prima linea assieme al dirigente della Digos Daniele Calenda cercano di disinnescare spiegando che impedire l’ingresso al campo e obbligando degli operatori a uscire è un reato penalmente perseguibile e che costerebbe il rilascio del permesso di soggiorno. I “rivoltosi” così, consentono l’apertura dei cancelli ma non concedono ai furgoni arrivati per portare il pranzo di consegnare il cibo in mensa. “Scioperiamo, non mangiamo, vogliamo le medicine, vogliamo i nostri documenti, vogliamo che questo campo venga pulito e che ci lascino andare a lavorare”. Passano le ore. Sono le due del pomeriggio quando scoppia un rissa tra migranti: a darsele di santa ragione, pugni, calci, schiaffi sono due fazioni: da una parte quelli che vogliono mangiare e dall’altra gli ivoriani che non intendono interrompere la loro protesta. Non si lotta più, però, per Sandrine ma per altro.

Arrivano le prime luce della sera. Dalla base escono in sella alle loro bici a decine. Molti indossano lo stesso giaccone nero con un cappuccio e la scritta di un’azienda: forse è un regalo, uno stock di fine serie finito in beneficenza. Molti in mano hanno un cellulare, altri alle orecchie hanno delle cuffie dalle quali ascoltano musica a tutto volume. Non sembrano provati e denutriti. Alcuni indossano delle ciabatte infradito. Malgrado si sfiorino i zero gradi qualcuno gira in maniche corte e sorride, incurante del freddo.

“Sono qui da sei mesi, sono arrivato a luglio – racconta un malese in un inglese stentato – So fare il cameriere, sono venuto in Italia per fare questo. Ma voglio andarmene presto da qui, a Roma o a Milano dove ci sono tanti ristoranti e tante possibilità. Mi piace l’Italia, amo l’Italia ma fatemi andar via da qui”. Vicino a lui un altro migrante dello Zambia. “Ho una spalla lussata e non mi danno le medicine giuste e non mi fanno fare le radiografie – racconta – Me la sono rotta in Africa ma il gesso si è rotto e non si è saldata bene. Mi servono cure specifiche”. Come stai? chiediamo ad un altro di loro con il cappuccio del giaccone che lo copre fino agli occhi. “Sono qui da febbraio e non ho ancora visto i miei documenti per andarmene – dice – basta, non ne posso più di restare qui a fare niente. Fatemi lavorare, sono venuto in Italia per lavorare”. Poi arriva Yacouby, Gabriele il suo nome in italiano, ci mostra alcune foto dell’interno del campo. “Guardate come viviamo, come dormiamo, ammassati, con i bagni sporchi, con i rifiuti. Non ci assistono non ci puliscono. Vogliamo andarcene via. Siamo troppi qui”.

Ormai fa buio. Sono le sei del pomeriggio. Arrivano i furgoni per le pulizie e per portare il cibo. Il vice Prefetto di Venezia Vito Cusumano esce dal campo dopo un sopralluogo assieme al direttore della Edeco Simone Borile. Pare ci sia l’accordo per la consegna del cibo. Ma è un accordo di sabbia che vola via quando i furgoni entrano e vengono accerchiati dal gruppo di “ribelli” che hanno deciso che l’unica strada è lo sciopero della fame. Un paio di furgoni se ne vanno. Uno viene inseguito e fermato da alcuni migranti. Hanno fame. Chiedono e ottengono almeno tre sacchi di panini. E si sfamano con quelli. La notte, però, è ancora lunga. E anche se il Prefetto ha annunciato che da domani se ne andranno in 100, la situazione sembra ancora lontana dall’essere risolta.
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Migranti, Viktor Orban contro Matteo Renzi: “È nervoso perché l’Italia è in difficoltà”. Ancora scontro tra Roma e Budapest

“La politica interna italiana è un terreno difficile. L’Italia ha difficoltà di bilancio con un deficit che aumenta, mentre stanno arrivando in massa i migranti, con spese ingenti. Renzi ha tutte le ragioni di essere nervoso”. Così il premier ungherese Viktor Orban, secondo quanto riporta Mti, dopo lo scontro di ieri sui migranti.

“La compassione – ha aggiunto – non cambia il fatto che l’Italia ha il dovere di adempire agli obblighi” di Schengen, “ma non lo fa”, “è anche vero che l’Ue non dà una mano in modo sufficiente all’Italia”.

La stoccata di Orban a Renzi arriva dopo due giorni di polemiche tra Roma e Budapest. L’altro ieri il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto aveva criticato il premier italiano perché “fraintende completamente la situazione: sta attaccando i paesi dell’Europa centrale i quali rispettano le regole comuni mentre l’Italia non adempie i propri obblighi derivanti dall’appartenenza alla zona Schengen”. Un’uscita alla quale aveva replicato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni con un tweet: “Con muri e referendum l’Ungheria ha sempre rivendicato di violare le regole europee sulle migrazioni. Ora almeno eviti di dare lezioni all’Italia”.

L’attacco di Budapest è arrivato dopo che Renzi aveva annunciato che l’Italia è pronta a mettere il veto sul bilancio europeo se paesi come l’Ungheria e la Slovacchia non accoglieranno i migranti come previsto dagli accordi Ue.


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Verso lo scontro frontale fra Matteo Renzi e minoranza in direzione Pd. Le promesse di modifiche all’Italicum non bastano

Ribadire che la volontà di cambiare la legge elettorale “è reale” ma “senza forzature” e, soprattutto, non da soli. E, dunque, non prima di aver consultato maggioranza e opposizione. Insomma, non prima del referendum. È questa la linea Maginot di Matteo Renzi che nella Direzione del Partito Democratico in programma lunedì pomeriggio proverà a tener fede alla linea aperturista degli ultimi tempi senza, però, concedere ulteriori spazi di mediazione alla minoranza. Anche perché la convinzione è che l’obiettivo sia un altro: attaccare lui.

La rottura sul referendum sembra ormai giunta a un punto di non ritorno e il premier avrebbe letto con molta irritazione le interviste con cui Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza annunciavano il loro No al ddl Boschi poche ore prima che il partito si riunisse a via del Nazareno proprio per discutere delle modifiche all’Italicum che da mesi invocano. “Tempo scaduto”, “solo chiacchiere”, dicono i due esponenti dell’opposizione interna.

Il premier – raccontano – sarebbe stato colto di sorpresa soprattutto dal tono tranchant di Bersani anche perché, spiegano, le colombe erano al lavoro da giorni perché domani si arrivasse a un documento comune. Una freddezza, quella del segretario, che emerge durante l’intervista a L’Arena su Rai1. Renzi decide di non cogliere l’occasione del salotto televisivo per lanciare un segnale di apertura e, anzi, commenta caustico l’uscita dell’ex segretario dem. “Io dico soltanto una cosa, Bersani – è la sua risposta – ha votato Sì tre volte alla Camera. Se poi cambia opinione per il referendum, ciascuno si farà una sua valutazione sul perché. Questa riforma non l’ho scritta io di nascosto a Rignano sull’Arno al mio pc”. La linea – insomma – è quella di dimostrare che l’incoerenza sta negli altri e, di conseguenza, anche le ragioni della rottura. D’altra parte – aggiunge – è “un anno e mezzo che mi danno contro”. Sebbene ribadisca che personalizzare l’appuntamento sia stato un errore, il presidente del Consiglio si dice anche convinto che in molti stanno orientando il loro voto per “antipatia” nei suoi confronti e questo – aggiunge – mostra “scarsa visione per il Paese”.

La proposta che dovrebbe essere messa sul piatto della discussione della Direzione è quella di affidare a una delegazione formata dai capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda e da Lorenzo Guerini, un compito “esplorativo” nei confronti di tutte le altre forze politiche. “Bisogna costruire le condizioni per le modifiche, pensare che in sei settimane, mentre è in discussione la legge di bilancio, si chiuda questa partita sarebbe una forzatura”, spiega un renziano. Una mossa il cui effetto dovrebbe essere quello di “stanare” la minoranza, perché la convinzione è che il punto di approdo reale non sia la modifica della legge elettorale. La scelta di Pier Luigi Bersani di votare No al referendum sulla riforma costituzionale – dice esplicitamente il ministro dei Beni culturali, Enrico Franceschini – “penso sia motivata da altro”, “il tema vero è che nel Pd e fuori dal Pd si sta utilizzando il tema referendario per contrastare Renzi”.

Dalla minoranza, ovviamente, l’accusa è ribaltata: è il segretario – dicono – che continua a fare solo melina senza alcuna proposta concreta. La direzione di domani, spiega Roberto Speranza, “è l’ultima possibilità, però non per annunci generici: il governo e la sua maggioranza hanno prodotto il disastro dell’Italicum, ora senza una loro vera iniziativa ogni mossa e invito al Parlamento, è una perdita di tempo”. La richiesta è quella di mettere in discussione il doppio turno, esattamente la norma che finora Renzi ha difeso più strenuamente.
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Referendum, Gustavo Zagrebelsky Vs Matteo Renzi: scontro tra due mondi sulla tirannia della maggioranza

Lo scontro tra due mondi opposti. Divisi su tutto, persino sull’idea stessa di democrazia. E’ questo il leit motiv dello confronto tv tra il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e il presidente del Consiglio Matteo Renzi in onda su La7.

A 64 giorni dal referendum il premier e il giurista, moderati da Enrico Mentana, si confrontano sul “merito” della riforma costituzionale che sarà sottoposta alla consultazione del 4 dicembre. Da una parte chi l’ha promossa per uscire dalla “palude”, dall’altro il “professorone” in prima fila per arginare la “deriva autoritaria” nel caso di vittoria del Sì. Ma si capisce, guardando il duello, che a dividere i due interlocutori non sono solo gli articoli e le modifiche apportate al testo costituzionale, quanto una differenza ontologica della concezione del sistema democratico. “Le elezioni in democrazia non si vincono – dice a un certo punto Zagrebelsky – Chi prevale nelle elezioni non ha ‘vinto’ ma è colui che gli elettori hanno incaricato di un grave compito. Mentre il ‘vincere’ comporta che ci siano degli ‘sconfitti’, che non conteranno nulla”.

“Il cittadino ha il dovere di decidere chi vince alle elezioni e l’Italicum è già una legge proporzionale”, ribatte Renzi. “Il Senato conta meno, perchè non si può continuare con un sistema che scambia la complessità e l’arzigogolo con la democrazia”, aggiunge il premier. Semplificazione contro complessità.

Renzi ha il dente avvelenato nei confronti del costituzionalista per quell’appello firmato contro la “deriva autoritaria”: “Lei ha firmato l’appello ‘Libertà e Giustizia’ che parla di svolta autoritaria: questo appello a mio giudizio è offensivo verso l’Italia. La svolta anti democratica c’è, ed è dove si incarcerano giornalisti, insegnanti, magistrati, non in un Paese in cui si tagliano il Cnel e qualche centinaia di poltrone”, ha attaccato il premier. E poi ha aggiunto: “Con la riforma si semplifica la vita delle persone e si riducono costi della politica, si riducono le poltrone”.

Ma il professore Zagrebelsky, col piglio del docente, ribatte: “L’instabilità del nostro paese deriva dal fatto che è un sistema politico molto complesso. Con questa riforma c’è un rischio di concentrazione dei poteri al vertice e il rischio di passare dalla democrazia all’oligarchia”, spiega ancora Zagrebelsky osservando come degli stessi sistemi costituzionali applicati a diverse realtà possano portare ad esiti diversi. “La Costituzione di Bokassa è molto simile a quella degli Usa. Ma la resa è completamente diversa”, afferma citando il noto dittatore della Repubblica Centrafricana. E rimarca la svolta autoritaria: “Il significato di queste riforme è conservativo, servono a blindare un sistema sempre più oligarchico. I fautori del No pensano che le vere riforme si fanno sul corpo, ovvero sulla classe politica, perché riformi se stessa”.

Poi si passa alle nuove modalità per l’elezione del Presidente della Repubblica: “Oggi è richiesta maggioranza assoluta dei due terzi, calcolata sul numero dei componenti delle Camere. Quando si abolisce il requisito dei componenti vuol dire che un numero anche minimo di presenti con una parte del Parlamento eventualmente assente può eleggersi il suo Capo dello Stato. E questo in un parlamento nel quale ci sono deputati che passano da uno schieramento all’altro per valutazioni non sempre limpidissime”.

Il presidente del Consiglio difende invece il sistema introdotto dalla riforma: “Sono radicalmente in dissenso da lei. Con l’Italicum la maggioranza avrebbe il 55% dei seggi: con il sistema di voto previsto oggi, dal quarto scrutinio la maggioranza semplice può eleggersi il presidente della Repubblica. Il Parlamento invece ha previsto di alzare il quorum fino al settimo scrutinio quando i 3/5 dei votanti previsti sono una norma di chiusura. Ma nessuno può pensare che c’è una minoranza così assurda da andar via per far eleggere il presidente”.

Zagrebelsky resta convinto della svolta autoritaria, derivante dal combinato disposto riforme – Italicum. Combinata con questa legge elettorale, la riforma “raggiunge un risultato di premierato assoluto, più forte del presidenzialismo”, ha affermato il giurista aggiungendo che il ddl Boschi è più forte di quella voluta da Silvio Berlusconi. “Ma che sta dicendo? Lei sta dicendo una cosa che non è vera”, replica Renzi che attacca: “La sua parte culturale si è sempre preoccupata di andare contro Berlusconi. Noi abbiamo smosso la palude, perché non volete parlare di futuro?”.

Tuttavia Renzi riconosce che la legge elettorale ha un elemento da correggere: “Il meccanismo dei capolista non piace nemmeno a me ed è una delle cose che vorrei cambiare”, ha annunciato il premier.

Il dibattito al calor bianco – seppur condito dal “profondo rispetto” espresso numerose volte dal premier al giurista – è la rappresentazione plastica dell’incomunicabilità di due mondi contrapposti, ma al tempo stesso orbitanti nell’idea di “sinistra”. Dove nemmeno il metodo per riformare il sistema istituzionale è condiviso: “Il problema – dice Zagrebelsky – è la complessità politica, non è legata alle regole scritte nella Costituzione. Quello del presidente mi sembra il ragionamento del debole che vuole le regole per diventare forte. Ma le regole non rendono forte nessuno se è debole”.

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