Sondaggio Scenari Politici, per avere la maggioranza l’unica opzione possibile sono le “larghissime intese” tra Renzi, Alfano e Berlusconi

“La sera delle elezioni sapremo chi governerà per i successivi cinque anni”. Era riassunto in questa frase dell’ex premier Matteo Renzi l’impianto dell’Italicum, la legge elettorale bocciata per buona parte dalla Corte Costituzionale. Ma quell’impianto è saltato: la Consulta ha cassato il ballottaggio. E la soglia del 40% per far scattare il premio di maggioranza resta, allo stato attuale, un miraggio per tutte le forze politiche in campo. In queste condizioni, se si andasse al voto, per avere una maggioranza sia alla Camera che al Senato le larghe intese non basterebbero. Ci vorrebbero le “larghissime intese”, e anche in questo caso la governabilità non sarebbe certo assicurata. L’ipotesi non è da scartare: dopo una riunione con Renzi al Nazareno, il presidente del Pd Matteo Orfini, in un’intervista all’Huffington Post, ha fissato il termine ultimo per trovare un’intesa tra i gruppi parlamentari sulla legge elettorale: dieci giorni, al massimo. Senza accordo, non ha lasciato spazio a dubbi: si va a elezioni con le leggi che ci sono.

In tal caso, “l’inciucio” sarebbe una strada forzata, secondo un sondaggio e relative simulazioni di Scenari Politici per HuffPost. Andiamo con ordine.

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Per quanto riguarda la Camera dei Deputati, si andrebbe al voto con un sistema proporzionale con premio che scatta se raggiunta la soglia del 40% (ribattezzato dal M5S come Legalicum). Laddove, come facilmente pronosticabile, non venisse raggiunta, la ripartizione dei seggi verrebbe fatta su base proporzionale. Fissata la soglia di maggioranza a 316 seggi, ci sarebbe un solo modo per poter assicurare la fiducia a un governo: le larghissime intese. Ovvero l’arco parlamentare composto da Partito Democratico, Forza Italia, Alleanza Popolare e Südtiroler Volkspartei. In particolare: 201 deputati per il Pd, 91 per FI, 20 per Ap e 5 per Svp. In questo modo, 317 seggi potrebbero assicurare, almeno sulla carta, la tenuta di un governo. Ma è evidente che un equilibrio così precario produrrebbe un esecutivo pronto a cadere alla prima folata di vento.

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Se invece i dem si alleassero con la sinistra (un ritorno all’Unione, in sintesi) si fermerebbero a 232 seggi a Montecitorio. Il Centrodestra unito che vede insieme Silvio Berlusconi, Angelino Alfano, Matteo Salvini e Giorgia Meloni (un ritorno al Popolo della Libertà, per intendersi) non supererebbe la soglia di 224 eletti. Ci sarebbe solo una via d’uscita per governare, una sorta di conventio ad excludendum da Prima Repubblica che tenga fuori i partiti ‘antisistema’ come M5S, Lega Nord e FdI: larghissime intese tra Renzi, Berlusconi e Alfano. E forse neanche basterebbero.

Situazione grossomodo analoga per il Senato redivivo. Per eleggere i membri di Palazzo Madama si andrebbe al voto, anche in questo caso, con un sistema proporzionale su base regionale, frutto dell’ex legge Calderoli (il cosiddetto Porcellum) depurata dal premio di maggioranza bocciato nel dicembre 2013 dalla Corte Costituzionale (che ha preso il nome di Consultellum).

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Accantonando per un attimo le differenze tra le leggi elettorali che regolano l’elezione per le due Camere (differenza sulle soglie di sbarramento, coalizioni ammesse al Senato ma non alla Camera), anche in questo caso, stando alle simulazioni di Scenari Politici, l’unica compagine in grado di votare la fiducia a un governo sarebbe composta da Pd (112), Forza Italia (44), Alleanza Popolare (5), Svp (3), per un totale di 164 seggi con soglia di maggioranza fissata a 158 scranni. A Palazzo Madama, quindi, le larghissime intese produrrebbero un margine di sicurezza più ampio rispetto alla Camera.

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Altre soluzioni? Niente da fare: anche un’ipotetica alleanza post-elettorale tra tutte le forze antisistema, con Movimento 5 Stelle (96), Lega Nord (36), Fratelli d’Italia (9) e altri di centrodestra raggiungerebbe la soglia di 146 seggi al Senato. Troppo pochi. E se il Pd ha intenzione di tener fede alle condizioni che ha posto, non resta molto tempo alle forze parlamentari per trovare un accordo. In caso contrario, le larghe intese sono a portata di mano. Larghissime, pardon.

Ripartizione su base regionale dei seggi al Senato con il Consultellum
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Intenzioni di voto al 28 gennaio
intenzioni

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Referendum, Matteo Renzi e gli scenari post-voto: in ogni caso, urne anticipate

Vince il sì, vince il no e non ci sarà nessun forse. Domenica notte, mentre aspetterà i risultati con i suoi fedelissimi, Matteo Renzi comincerà a mettere a fuoco la sua risposta. Piano A: la vittoria. Il premier resta in carica e si prepara alla campagna elettorale per le politiche. Piano B: la sconfitta. Il premier resta in carica solo per l’approvazione della legge di stabilità, come gli chiederebbe Sergio Mattarella, congela le dimissioni e comunque affila le armi per le urne. Comunque vada, sarà voto anticipato. O almeno questa è la via d’uscita immaginata da Renzi. Anche se in caso di vittoria del sì, i renziani sono più restii ad ammetterlo.

Piano A Gli elettori consegnano a Renzi l’agognata vittoria. A risultato certo, Renzi si presenta davanti alle telecamere e tiene la conferenza stampa della rivincita. La rivincita rispetto ai sondaggi che in questa ossessiva campagna referendaria hanno sempre dato il no vincente. Da notare: solo alle europee, quando il Pd incassò il 40,8 per cento, Renzi tenne una conferenza stampa nella notte dello scrutinio. Era il 2014 e l’ex sindaco di Firenze era appena arrivato a Palazzo Chigi. Nelle altre tornate – amministrative, sempre molto meno generose con il Pd – ha rimandato le conferenze stampa al giorno dopo. In alcuni casi, le ha saltate a piè pari, come per le comunali 2015 quando partì per l’Afghanistan, visita a sorpresa dai “ragazzi” del contingente italiano.

Il discorso della vittoria tenterebbe di limitare i trionfalismi, della serie ‘ora serve unità’. Ma Renzi in cuor suo comincerebbe a sentirsi davvero legittimato da un voto popolare con il quale finora non si è mai confrontato. Non è un caso se il termine di paragone usato dal premier nel comizio di chiusura di campagna a Firenze sia stato il suo discorso per le primarie per la premiership del centrosinistra 4 anni fa, quelle perse contro Pier Luigi Bersani. “Quello fu il comizio della sconfitta, questo è invece è il comizio della vittoria”, ha detto in piazza della Signoria. Gli sarà difficile contenere orgoglio e trionfo.

È per questo che, con un occhio alla consulta che prima o poi dirà la sua sull’Italicum, i suoi abbozzano una possibile strategia. Che guarda al voto anticipato nel 2017. Per ora è idea che sta tra i desiderata. “Dovrà tener conto degli alleati – dice un renziano doc – di Alfano, di tutti quelli che chiedono la modifica della legge elettorale”. E anche della minoranza Dem che ha scelto di votare sì con la promessa di rivedere l’Italicum. Dunque, percorso complicato quello che porta al voto nel 2017 in caso di vittoria del sì. Il punto è che Renzi potrebbe averne bisogno per legittimarsi definitivamente anche a livello europeo. Visto che a partire dalla celebrazione dei 60anni del Trattato di Roma a marzo, subito dopo quello che spera sia un ok della commissione europea sulla legge di stabilità, Renzi vorrebbe assestare il colpo finale contro l’austerity. “Se vinciamo, gli diciamo che non vogliamo più essere il loro bancomat, il loro portafoglio!”, dice sempre a piazza della Signoria aizzando la folla contro l’Europa che sui profughi non si muove.

Piano B Gli elettori scelgono il no, si schierano con l’accozzaglia. Renzi non si capacita. Niente conferenza stampa nella notte più buia della sconfitta. Il giorno dopo sale al Colle per un confronto con Sergio Mattarella. Priorità: mettere il paese al sicuro dalle speculazioni dei mercati, che a quel punto si saranno già scatenati alla ricerca di un nuovo ordine. Dunque, niente dimissioni prima che il Senato – quel Senato che è ancora lì, uscito intatto dalla lavatrice del voto popolare – abbia approvato in via definitiva la legge di bilancio appena licenziata dalla Camera. Dimissioni congelate e via alla ricerca dello show down per azzerare tutto e arrivare al voto anticipato.

Ma qui iniziano gli interrogativi seri. Renzi resta segretario del Pd. Ma un minuto dopo la sconfitta è lì a studiare le mosse della sua maggioranza nel partito. Primo punto: “Se perdiamo anche solo con il 45 per cento, quella percentuale è tutta di Matteo”, dicono i suoi. “E’ come se portassimo a casa ancora una volta il risultato delle europee del 2014, con la differenza che stavolta il merito è tutto di Renzi che in questa campagna è stato più o meno solo contro tutti…”. Se così fosse, il premier-segretario lo farebbe pesare al momento delle scelte nel partito, nella direzione che convocherà dopo il voto, nel congresso che a questo punto parte subito. Ma questo non elude la domanda: cosa faranno i non-renziani e non-renzianissimi?

Vale a dire: Orfini, Orlando, Franceschini e poi Delrio, Richetti. Renzi resta il loro leader più spendibile a livello comunicativo, ma è azzoppato. Quanto Pd Renzi continuerà ad avere alle spalle, sopratutto nei gruppi parlamentari? Mattarella gli potrebbe chiedere di tornare davanti alle Camere per una nuova fiducia, magari scontata, stando agli innumerevoli inviti a restare che arrivano da tutti i ministri nonché dall’estero, da Obama al Financial Times e il New York Times. Ma Renzi si porrà la domanda: mi conviene?

Vuole restare al governo. Ma dopo la sconfitta ha un problema. Lui, il leader che si professa nuovo e non attaccato alla poltrona, dovrà trovare un’ottima giustificazione per un eventuale reincarico. Con Mattarella e i sostenitori in Parlamento dovrà raccontare una storia che non lo riduca al rango dei ‘rottamati’. Possibilmente una storia credibile. Potrà essere la storia della stabilità, della necessità di garantire un ordine. Ma a Renzi potrebbe non bastare. Avrà bisogno di un pulpito per recuperare la verginità politica perduta. Un pulpito esterno alle responsabilità di governo. Ma riuscirà a convincere il Pd a dare l’ok alla nascita di un governo di transizione (Grasso, Boldrini?) sul quale poi però scatenerà i suoi fulmini, in competizione già da campagna elettorale con Grillo?

Scenario complicato. Ed è ancora più complicato immaginare un governo Padoan, Calenda o Franceschini – i nomi più gettonati nelle chiacchiere di Transatlantico – a meno che in cuor suo Renzi non abbia deciso di cuocerli alla ‘Letta maniera’ una volta che arrivano a Palazzo Chigi.

Ecco perché, ogni scenario di sconfitta passa per un Renzi bis. A meno che Renzi non decida davvero di mollare la politica subito. Ma questa opzione non sembra essere all’orizzonte. O almeno non c’è alcun segno visibile che la annunci. A meno che il no non arrivi come un’inondazione. A quel punto gli scenari tratteggiati col bilancino sarebbero travolti.
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