Mediaset presenta un ricorso contro Vivendi: “Sequestrare il 3,5% delle azioni dei francesi”. Il titolo ko in Borsa

Mediaset stringe nella battaglia giudiziaria contro Vivendi per portare il gruppo francese a onorare il contratto per l’acquisto di Premium. Secondo quanto appreso dall’ANSA, il Biscione ha depositato una richiesta di sequestro di azioni proprie di Vivendi pari al 3,5% del capitale (dal valore di circa 820 milioni), cioè la quota che le parti si sarebbero dovute scambiare: il Tribunale di Milano ha fissato la prima udienza sull’istanza cautelare per il prossimo 8 novembre, mentre al momento le cause per danni intentate da Mediaset e Fininvest rimangono in calendario il 21 marzo 2017.

Di fronte al giudice civile Vincenzo Perrozziello, che ha accolto la fondatezza del ricorso d’urgenza di Mediaset, le parti dovranno presentarsi e presumibilmente portare proprie memorie sulla vicenda: di fatto il Biscione prova a ‘stanare’ i francesi, che per ora tentano di cuocere lentamente una controparte che si deve occupare interamente di una società che pensava di aver già ceduto, non potendo tra l’altro compiere su di essa alcuna scelta. Formalmente la pay tv sarebbe infatti in una gestione condivisa, ma se il management Mediaset prende delle decisioni queste potrebbero venir impugnate come mancanze nel contratto di vendita.

Oggetto del contendere è ovviamente il contratto di acquisto di Premium da parte di Vivendi firmato nell’aprile scorso con uno scambio paritario del 3,5% tra le capogruppo Mediaset e Vivendi. La valorizzazione della pay tv, dalla quale sarebbe dovuto uscire il socio di minoranza Telefonica, fu superiore ai 700 milioni, ma in maggio i conti del primo trimestre di Premium evidenziarono una perdita mai emersa prima: oltre 56 milioni, che in proiezione indicava un rosso di oltre 200 milioni l’anno, pur superando la quota di due milioni di abbonati.

Ed è su questa debolezza strutturale della pay tv che in Borsa il titolo Mediaset fatica: nell’ultima seduta il Biscione ha ceduto il 4% tornando ai minimi degli ultimi due anni toccati in agosto. Dall’emersione dei contrasti con Vivendi Mediaset ha perso il 20%, dalla Brexit un terzo del suo valore. La novità delle ultime ore è che Premium, che già ha dato via libera a un aumento di capitale per ripianare le perdite, potrebbe fortemente rivedere il suo perimetro. In che modo non è ben chiaro, ma gli analisti pensano ovviamente a un forte taglio dei costi.

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Ricorso sul quesito referendario. “Spot per il Sì” per M5S e Sinistra. “Riprende il titolo della legge” per i dem. Il Colle si tira fuori

“Quella scheda è uno spot, così non rispetta la legge”. La guerra referendaria finisce tra carte bollate e ricorsi con i comitati del No che chiedono l’impugnazione del quesito che comparirà sulla scheda davanti al Tar. Dietro le quinte della tenzone giuridica, i senatori del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi e di Sinistra Italiana, Loredana De Petris che contestano la formulazione “impropria e incompleta ”che finisce per tradursi in uno “spot pubblicitario a favore della conferma e dunque inganna i cittadini”. La querelle è nota da quando è stata svelata la scheda che sarà consegnata agli elettori il prossimo 4 dicembre.

Questo il contenuto: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della seconda parte della Costituzione, approvato dal Parlamento eccetera eccetera…?”.

“E chi non sarebbe d’accordo?”, dicono i fautori del No, secondo cui nella domanda per loro manca molto altro. Secondo le motivazioni presentate davanti al tribunale amministrativo dagli avvocati Vincenzo Palumbo e Giuseppe Bozzi, quel testo non rispetterebbe la legge che regola i passaggi del referendum costituzionale. Il punto d’attacco è la legge 352 del 1970 dove all’articolo 16, si prescrive che nel quesito sia indicato il singolo o i singoli articoli della Costituzione oggetto di revisione. La seconda contestazione, riguarda la citazione sul “contenimento dei costi” che non trova riferimento nelle norme revisionate, ma è solamente una conseguenza e neppure poi tanto certa. Chiedono perciò di riformulare la domanda nella scheda al fine di rendere chiara in tutte le parti la scelta dell’elettore evitando letture distorte.

“Un ricorso pretestuoso, summa di cavilli” replicano dalla maggioranza, che si limita a ricordare come sia stata la Cassazione a dare il via libera al quesito. Il costituzionalista Stefano Ceccanti conferma che la domanda da sottoporre all’elettore “non può che riprendere il titolo della legge votato dalle Camere e che il richiamo ai singoli articoli non c’è stato neppure nelle precedenti consultazioni”. Ma la vicenda del ricorso fa tanto rumore e ottiene già il primo effetto di rimbalzare sul Quirinale contro il quale si rivolgono le sedici pagine di motivazioni degli avvocati Palumbo e Bozzi. Un quesito e una formulazione da cui la Presidenza della Repubblica si tira subito fuori, ricordando che “è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla Corte di Cassazione, secondo le norme e riproduce il titolo della legge approvata dal Parlamento”.

Fondate o meno le motivazioni del ricorso, il Colle non vuole entrare nella disfida restando in territorio neutrale. Una precisazione corretta per il costituzionalista Francesco Clementi, che definisce bene il percorso referendario. Interpellato dall’Huffington Post, spiega che le motivazioni del ricorso hanno pochi appigli. La legge 352 è chiara, e prevede due scelte differenti per la formulazione del quesito referendario. “In questo caso il governo ha preferito la seconda ipotesi così com’è avvenuto anche nelle precedenti tornate referendarie ”. Questa la domanda semplificata: “Approvate il testo della legge costituzionale… concernente… approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero …del …?”. Versione “più leggibile e aggiungo di buon senso”, spiega ancora il professor Clementi, “ perché supportata dalla giurisprudenza con una sentenza della Corte costituzionale: la scelta da sottoporre all’elettore deve essere intellegibile, questi deve capire ciò che sta votando, sia con il voto elettivo sia deliberativo come nel caso del referendum”.

Se lo scontro tra i Sì e i No, si arma delle baionette giuridiche, c’è da giurare che saranno due mesi di campagna elettorale senza esclusione di colpi e il campo di battaglia del Tar, sarà solo uno dei tanti.

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