Michele Emiliano: “Abbiamo convinto Renzi a sostenere Gentiloni fino alla fine”

“Adesso che abbiamo convinto Renzi a sostenere Gentiloni fino alla fine della legislatura senza fargli brutti scherzi, possiamo darci il tempo di riconciliarci e trovare le ragioni per stare ancora insieme”. Lo scrive su Facebook il presidente della Puglia Michele Emiliano. E lo fa a pochi minuti dall’inizio della manifestazione della minoranza Pd a Roma, dove parleranno sul palco i tre leader anti-Renzi: Roberto Speranza, Enrico Rossi e, appunto, Michele Emiliano. Un post mattutino, quello del governatore pugliese, che può essere interpretato come un tentativo di tenere ancora aperta la trattativa fino all’ultimo con l’ex premier per evitare la scissione e, in seconda battuta, smarcarsi dalla posizione più oltranzista di Massimo D’Alema.

Ecco il post integrale:

Ieri ho detto a Renzi che basterebbe fare una conferenza programmatica a maggio e le primarie congressuali a settembre per ricomporre un clima di rispetto reciproco e salvare il PD.
Adesso che lo abbiamo convinto a sostenere Gentiloni fino alla fine della legislatura senza fargli brutti scherzi, possiamo darci il tempo di riconciliarci e trovare le ragioni per stare ancora insieme.
Questo è il lavoro che deve fare il segretario. Rimettere insieme i cocci di anni difficili per ripartire insieme.
Senza questo lavoro le distanze politiche tra noi sono troppo grandi e non basterebbe una conta per evitare anche a breve nuovi dissensi e nuovi rischi di conflitto.
Diamoci una possibilità.

Intanto Emiliano non è il solo a pensare che la scissione sia ancora evitabile. “I margini per una trattativa ci
sono”: lo ha detto il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini ai cronisti, entrando al Palazzo dei congressi a Firenze per consegnare un premio a Piero Angela.
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Massimo D’Alema certifica la scissione e presenta di fatto un nuovo partito: a sinistra per parlare ai delusi di Renzi e Grillo

Alle 19.30, a Lecce, cuore del suo Salento, Massimo D’Alema parla già da ex Pd: “La scissione non è un dramma o una tragedia. Certo non è una festa, ma è anche l’inizio di un processo di costruzione di un nuovo centrosinistra”. Pausa, tra gli applausi di una sala che non aspettava altro.

Roma è lontana, come le mediazioni che di ora in ora si consumano. Ed è lontano anche il Pd, a meno di 48 ore dall’assemblea di domenica. D’Alema chiede una “svolta profonda”, un “congresso vero”, ma, al tempo stesso, fa capire che non ci crede, convinto che, come ha spiegato nell’intervista al Corriere, Renzi non concederà nulla perché ha fretta di fare subito un plebiscito per puntare sul voto anticipato: “Renzi sa che sul lungo periodo può perdere tutto, e dunque accelererà. L’uomo ha ambizioni modeste, sa bene che non prende il 40 per cento, e punta a portare in Parlamento un gruppo di fedelissimi che gli ubbidiscano”.

Nell’intervento di D’Alema, oltre un’ora e mezza, c’è tutta l’antica sapienza del capo comunista alla vigilia di un passaggio storico. C’è l’abilità tattica di chi porta l’asticella in alto, consapevole che, nelle ultime ore, c’è chi può cedere a mediazioni al ribasso. La telefonata di Renzi a Emiliano, ad esempio, suona certo come una smentita di Delrio e del suo celebre fuori-onda, ma anche come un modo per tentare l’area dei dubbiosi attorno al governatore della Puglia sperando di staccarli dagli ex Pci. I codici della grammatica politica, avrà pensato D’Alema, avrebbero suggerito una telefonata a Bersani se mai Renzi avesse voluto aprire una trattativa vera. E invece ciò che sarà descritta come una mediazione in realtà è uno sgarro.

Ecco il discorso teso a scavare un punto di non ritorno nella trattativa o presunta tale. Ma non solo. Un’ora e mezza, per indicare la prospettiva, partendo dall’analisi del mondo, della nuova destra, non più liberista ma protezionista, passando per le politiche neoliberiste del governo Renzi, fino ad arrivare ai compiti del partito nella fase attuale, nel “radicale mutamento di scenario”. Partito che non è più il Pd. Il lìder Maximo parla di un “movimento in grado di tornare in mezzo al popolo” di fronte alla “deriva neocentrista del Pd”, ne tratteggia profilo, interlocutori e anima. Non una compagnia di combattenti e reduci che fa testimonianza, ma un movimento che “tenga aperta la prospettiva di una ricomposizione unitaria”: “Un movimento di questo tipo può raccogliere quelli che non votano più, quelli che non voterebbero mai più il Pd di Renzi, ne conosco svariate migliaia, e sarebbe in grado anche di contendere l’elettorato ai Cinque stelle”.

Nel decennale del Partito democratico e, per gli amanti del genere, nel più evocativo centenario della rivoluzione d’Ottobre, nella rottura del Pd l’auspicio di D’Alema è la rinascita di un centro-sinistra a due gambe, evocativa dello schema Margherita e Ds, in forma nuove: “La somma dei voti che questi due movimenti possono raccogliere è assai maggiore di quelli che può prendere il Pd”. Uno, appunto, è quello che nascerà dalla rottura di domenica, l’altro è il Pd, in cui è in atto da tempo una deriva neocentrista nelle politiche, su banche lavoro, utilizzo della flessibilità e nel partito.

“Iniettare populismo a bassa intensità non è un vaccino contro il populismo”, “se ci si mette a fare gli imitatori di Grillo e di Salvini gli elettori sceglieranno l’originale”, “non si sconfigge il populismo senza rimettere in campo un popolo”. C’è, nel primo discorso sul movimento che verrà, anche un tentativo, anche interno, di raddrizzare la linea su una scissione presentata e attaccata come una “scissione sul calendario”. Fredda, come fu la famosa fusione fredda che diede vita al Pd con la somma di Ds e Margherita. Tutto il discorso è teso a “politicizzare” la rottura, dandole solennità storica e ideale, con parole d’ordine che suscitino più entusiasmo e passione di uno statuto “scritto male”. E che rende le primarie un “plebiscito manipolato”, come accaduto a Napoli dove “aveva vinto Bassolino” (uno che guarda con interesse al nuovo movimento) o in Liguria “dove aveva vinto Cofferati” (altro interlocutore).

Meno due. E sabato all’iniziativa di Testaccio saliranno sul palco Speranza-Rossi-Emiliano. Al termine si chiuderanno in una stanza per scrivere un documento appello da portare all’assemblea di domenica: richiesta di una svolta, congresso a ottobre, sostegno del governo con qualche correzione di rotta. Bersani è pronto e non crede agli spifferi che raccontano di aperture di Renzi. Né lo convincono le mozioni degli affetti, ovvero le valanghe di appelli da ogni dove: “Ognuno – dicono i suoi – si deve prendere le sue responsabilità. Abbiamo posto questioni politiche, senza risposte, il sentiero è tracciato”. D’Alema è già oltre. Per non sbagliare gli organizzatori dell’evento a Testaccio hanno scelto canzoni molto evocative. A partire da Malarazza, di Domenico Modugno, che parla della ribellione degli ultimi di fronte ai padroni. “Tu ti lamenti, ma che ti lamenti? Pigghia nu bastune e tira fora li denti”.
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Direzione Pd, la minoranza non ci sta: “Se è così si avvicina la scissione”. Pressing su Orlando per candidarsi contro Renzi

Alle 19,30, si materializza lo spettro della scissione. Roberto Speranza, seduto vicino a Davide Zoggia, sussurra: “Vedi, il re è nudo. Non hanno fatto votare il sostegno al governo fino al 2018, perché il congresso in tempi brevi gli serve per poi tirare giù il governo e andare al voto”. Il che, negli effetti, porta a una linea riassunta in una parola, che fa tremare le vene ai polsi, per chi è cresciuto col mito della disciplina di partito: scissione: “Se l’obiettivo – dichiara Speranza – è un congresso- lampo per poi andare a un voto-lampo, non c’è più il Pd, diventa il partito dell’avventura. Questo per noi crea un problema enorme. Non si capisce come si può andare al voto senza una legge elettorale che può garantire un minimo di governabilità”.

Il riferimento è all’ordine del giorno presentato dalla minoranza, non messo ai voti. E a quello su congresso subito, stravotato. Pare una questione procedurale, ma è sostanza politica. La proposta era: una conferenza programmatica, come aveva chiesto il ministro Orlando, poi un congresso a ottobre, dunque voto. Uno degli estensori del documento dice: “Si era aperta una trattativa e alcuni renziani erano anche d’accordo, ma Renzi e soprattutto Orfini l’hanno chiusa, e hanno optato sulla forzatura votando solo il loro ordine del giorno, così Renzi si tiene le mani libere sul governo”.

È il momento più teso del pomeriggio. Dalla sala qualcuno urla: “Votiamo per parti separate”. La forzatura suona anche come uno schiaffo al protagonista dell’unica, vera, mediazione alla luce del sole, come si sarebbe detto una volta. Appunto Andrea Orlando. Il quale, non a caso, alla fine non ha partecipato al voto. Nel suo intervento il guardasigilli aveva suggerito un percorso diverso, bacchettando al tempo stesso la minoranza per la “campagna di delegittimazione” quotidiana del segretario e Renzi perché “i caminetti sono iniziati perché manca una proposta politica forte”. E fare le primarie per legittimare il leader senza discutere in una conferenza programmatica di una piattaforma politica è come “fare le tagliatelle con una macchina da scrivere”.

“Andrea candidati”, “a questo punto è una via obbligata”. Il pressing sul guardasigilli parte dai suoi, che anche sul territorio danno segnali di insofferenza, come in Veneto dove i “turchi” e “sinistra” si sono riuniti. Per ora, Orlando ha declinato l’offerta, anche perché non è chiaro il dove candidarsi. Perché la scissione è un’ipotesi molto concreta. Anzi cresce. Perché dietro il dibattito, criptico, sul congresso c’è tutto il tema del voto, in tutte le sue sfumature. Che vanno dalla “responsabilità verso il paese” alla formazione delle liste. Detto in termini prosaici, la sinistra non condivide l’accelerazione sul governo, che in altri tempi si sarebbe chiamata la linea della “crisi e dell’avventura” e al tempo stesso non si fida di Renzi: “Lui – dicono – vuole una rilegittimazione, per avere le mani libere sul voto e farsi le liste come vuole lui e nelle liste fare l’epurazione”. In questo quadro, se di qui a domenica non ci saranno novità, meglio non partecipare al congresso. Michele Emiliano, e non solo lui, sabato aveva già avuto l’idea di non partecipare alla direzione, prevedendo come sarebbe andata. “Non diamogli alibi” gli hanno detto gli altri.

Con l’ordine del giorno si ripresenta il convitato di pietra, il governo e il voto anticipato. Argomento sul quale provano a “stanare” Renzi sia Bersani sia Roberto Speranza, dopo che l’ex premier non aveva chiarito la mission del governo né il percorso sulla legge elettorale: “La prima cosa che dobbiamo dire – scandisce Bersani – è quando si vota. Non possiamo lasciare un punto interrogativo sulle sorti del nostro governo. Io propongo che noi non solo diciamo, ma garantiamo all’Europa, ai mercati agli italiani, la conclusione normale e ordinata della legislatura”.

L’intervento dell’ex segretario ha un grande valore simbolico. E prepara la grande rottura perché – questo è il ragionamento – “se esce lui, non si può dire che se ne vanno quattro gatti, ma non c’è più il Pd”. Negli ultimi giorni ci sono stati contatti anche con Pisapia. Solo la disponibilità di Orlando, di qui a domenica, potrebbe cambiare lo schema. E il terreno su cui in parecchi cercano di convincerlo è il governo: “Se Renzi forza sul governo come evidente, si rende protagonista della crisi istituzionale e tu ti devi intestare la linea della responsabilità”.
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Sanremo 2017, Maurizio Crozza propone il Sanremellum al posto dell’Italicum e si chiede: “Cos’ha fatto Matteo Renzi in 3 anni?”

Matteo Renzi, Sergio Mattarella, Papa Francesco: nelle prime 3 serate del Festival di Sanremo Maurizio Crozza ha fatto ridere il pubblico dell’Ariston interpretando alcuni tra i suoi personaggi più famosi e riusciti. Ma per la quarta puntata ha voluto stupire il pubblico con un personaggio “minore” ma azzeccatissimo per Sanremo, centrando il bersaglio anche stavolta.

Nando Pagnoncelli, amministratore delegato di IPSOS, apre infatti la quarta videocartolina firmata Crozza. Plausibili i sondaggi che il comico genovese inventa per il suo Pagnoncelli, ma le risposte sono assurde e davvero divertenti: “Abbiamo chiesto chiesto agli italiani cosa hanno gradito di più del Festival“. Tra le risposte: “Tua sorella” e “Ma la Parodi non ha nient’altro da fare?”. Oppure, in un’ipotetica consultazione degli italiani sulla conduzione a due Conti-De Filippi: “Libero i rottweiler” e “ho rivalutato Pippo Baudo”.

Prima di passare a tematiche politiche, poi, il comico Genovese rimane nelle questioni interne al Festival e si pronuncia sulla presuntata trattativa tra Carlo Conti e Mediaset per un passaggio ai canali di Berlusconi, smentita più volte dallo stesso Conti. “Carlo e Maria, Maria e Carlo, ormai siete inseparabili: dove va l’uno va l’altra, Maria per amore di Carlo è venuta in Rai, Carlo per amore di Maria… va beh, per ora c’è una trattativa…”.

Successivamente, la videocartolina di Crozza assume una colorazione politica, più congeniale alla sua vena comica. Prende spunto dalla gara dei giovani per decretare il vincitorie, infatti, per colpire il ministro Fedeli: “Uno dei giovani si laureerà campione. Mi dispiace per lui, perché in questo Paese se ti laurei dopo non puoi più fare il ministro dell’istruzione”.

Poi, una riflessione sulla città che ospita la kermesse: “Dalla settimana prossima cosa sarà di Sanremo? In questi giorni assomiglia a Las Vegas, dalla settimana prossima sembrerà un congresso di Scelta Civica”. Ma la parte probabilmente più riuscita dell’intervento di Crozza è quella riguardante la legge elettorale italiana. “Il sistema di votazione qui al festival di Sanremo funziona alla grande. Perché non lo usiamo anche per il parlamento? Il Sanremellum: cinque giorni di campagna elettorale e via”.

Si tratta dell’aggancio giusto per lanciare una stoccata a Renzi, che quell’Italicum l’aveva pensato e voluto. “L’Italicum è stato definitivamente bocciato dalla Consulta, hannno slavato solo il font, il Times New Roman. Una cosa doveva fare Renzi, ma alla fine del governo Renzi cos’è rimasto? Piuttosto che restare lì 3 anni, uno impara a suonare l’ukulele”.

Tre anni è durato il governo del fiorentino e proprio da 3 anni Carlo Conti è al timone del Festival. Crozza non poteva non notarlo: “Carlo hai fatto più tu in tre anni di festival: hai riciclato Arisa, hai sdoganato Gabriel Garko e ora stai cercando di rendere più umana Maria De Filippi”.


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Dario Franceschini in campo tra Renzi e Bersani: “No agli strappi. E non si dica ‘voto’ senza legge”. Calenda isolato nel governo

Quando nel Pd il gioco si fa duro, quando volano gli stracci e tutto sembra crollare, scende in campo Dario Franceschini. Il ministro dei Beni Culturali media tra Matteo Renzi e Pierluigi Bersani, tra l’opzione ‘voto a tutti i costi entro giugno’ e l’opzione ‘prima il congresso e poi il voto nel 2018’. Franceschini non parla di date. Dice che soprattutto bisogna pensare a “come” si arriva al voto. E non si può dire “voto” senza prima aver compiuto tutti i passaggi fondamentali per arrivarci per bene: la legge elettorale e il cammino più consono all’unità nel Pd.

Tutto questo Franceschini lo spiega al Corriere della Sera in un’intervista che esce domani, a 24 ore da quella del ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda, convinto sostenitore del no al voto anticipato. Ecco, una cosa per ora è chiara: Calenda è isolato nel governo. Nemmeno Franceschini gli dà sponda. Tantomeno Graziano Delrio, uno dei ministri rimasti ancorati fino in fondo alla linea del segretario del Pd. “E’ vero che ci sono delle emergenze, Calenda ha ragione, ma un governo come questo può affrontare queste emergenze? – dice Delrio ospite di Bianca Berlinguer su Raitre – Serve un governo legittimato per questo e le elezioni fanno parte delle democrazie”.

Franceschini non è così ‘schiacciato’ su Renzi. E ci tiene anche a togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Pensa che sia un successo essere riusciti a “parlamentarizzare” la discussione sulla legge elettorale dopo la sentenza della Consulta sull’Italicum. Un successo, visto che invece la prima reazione del segretario del Pd è stata “andiamo al voto, la legge c’è”. Non c’è ancora, sostiene Franceschini, convinto in questo di avere un forte assist al Colle da Sergio Mattarella. E dunque bisogna che il Parlamento ci lavori: partenza il 27 febbraio alla Camera, c’è un mese di tempo per farsi trovare pronti all’appuntamento.

Insomma, non si può parlare di voto senza prima aver effettuato questi passaggi, è il ragionamento di Franceschini. E’ questa la stoccata a Renzi, il freno all’ansia del segretario di correre alle urne. Un freno che sia Franceschini che Orlando si sono premurati di comunicare a Renzi negli incontri di questi giorni.

L’obiettivo è stabilire una tregua nel Pd, intanto. “Procedere senza strappi”, dice Franceschini nel tentativo di riacchiappare sia Bersani e le sue minacce di scissione che Renzi e la sua fissazione di andare al voto entro giugno, costi quel che costi.

Il quadro sembra così ricomposto. Per ora. Time out per i pasdaran di entrambi i fronti. Anche Paolo Gentiloni isola Calenda: “Posizione personale”. Pur sottolineando che “non sono io a decidere la durata della legislatura: spetta al Parlamento, al presidente della Repubblica, alla dialettica tra le forze politiche alle quali guardo con il massimo rispetto”, specifica il premier.

Ma Calenda lascia una scia. I bersaniani guardano a lui come possibile nuovo leader. Più volte Bersani ha espresso apprezzamenti sul ministro, i contatti tra Calenda e l’ex segretario hanno finito per rovinare i rapporti con Renzi. Ma soprattutto tra i parlamentari Pd prevale la convinzione che dietro Calenda e il suo no al voto anticipato ci sia un pezzo di mondo imprenditoriale. Nello specifico il capo di Confindustria Vincenzo Boccia.

Del resto Calenda viene da lì, creatura di Luca Cordero di Montezemolo, arrivato in politica con Monti e Scelta civica, promosso da Renzi ambasciatore nell’Ue e poi ministro al posto della Guidi. Poi la fine dell’idillio. E ora i bersaniani lo ‘pesano’ come possibile ‘nuovo Prodi’. Già prima del referendum costituzionale, il suo nome girava come possibile premier dopo Renzi in caso di sconfitta. I renziani invece approfondiscono i propri sospetti su di lui. Per niente sorpresi dalla sua intervista al Corriere, ora però si chiedono se dietro non ci siano anche quei poteri europei che chiedono all’Italia una manovra correttiva e che quindi non vedono di buon occhio il voto anticipato.
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Rimini. Renzi riunisce gli amministratori Pd ma si ferma solo per lanciare il nuovo azzardo: 40 per cento per evitare il caos

“Non possiamo essere accusati per la riforma costituzionale e poi anche per le complicazioni assurde della sconfitta. Prima il rischio autoritario e ora le larghe intese… C’è un modo per evitare il caos: arrivare al 40 per cento!”. La sala del Palacongressi di Rimini viene giù in applausi. Matteo Renzi, figura tutta in nero casual sul palco, è a metà del suo intervento di un’ora davanti agli amministratori locali del Pd. Si è già goduto la standing ovation quando lo hanno chiamato sul palco. Roberto Speranza e Nico Stumpo, i due bersaniani venuti in terra ‘ostile’, si guardano intorno sperduti e poi sono costretti ad alzarsi anche loro. Renzi d’altronde non li attacca, non attacca nemmeno Massimo D’Alema che da Roma ha evocato la scissione del Pd. Il segretario pensa invece a fissare il prossimo azzardo: conquistare il 40 per cento alle prossime elezioni col premio di maggioranza per governare. Un voto che Renzi vuole vicino perché “l’Italia torni a contare in Europa e non giochi in serie B”.

E’ la sua nuova roulette russa (politica). Ma nella continua scommessa Renzi trova la sua ragion d’essere (politica). Lo ha fatto puntando al referendum, dopo la batosta delle amministrative. Lo fa di nuovo adesso, dopo la sconfitta referendaria. Il sistema proporzionale disegnato dalla sentenza della Consulta sull’Italicum gli sta bene. “Verificheremo in Parlamento se si potrà cambiare”, dice timidamente a Rimini. L’offerta alle altre forze politiche – leggi: a Forza Italia – è di cambiare subito, se si vuole. Una finestra di disponibilità che si chiude, se non si va al voto entro giugno, dicono i suoi. La scommessa è in questo pacchetto.

Al 40 per cento “noi ci siamo abituati”, dice pensando alle europee del 2014 e con una punta di polemica implicita contro la minoranza interna. Nei pensieri di tutti c’è il Massimo D’Alema che ha appena finito di evocare la scissione da Roma. Dalla prima fila, Speranza ascolta nervoso: c’era pure lui da D’Alema prima di venire qui. Ma Renzi non polemizza con gli anti-renziani del Pd: li ignora. E’ convinto che i bersaniani non seguiranno Massimo: bloccati da quell’8 per cento di soglia che complica l’accesso al Senato per le forze più piccole. Non a caso agita il drappo rosso dei posti in Parlamento come davanti a tori pronti per la corrida: “I capilista sono cento, poi ci sono le preferenze… E lo dico a qualcuno…”. Non sono tanti, ma ce n’è per più di qualcuno.

Semplifica. “La prossima competizione elettorale sarà una competizione a tre: il Pd, l’area di centrodestra che vedremo se sarà più vicina al Ppe o se Berlusconi e Salvini torneranno insieme, sembra Beautiful….”, risate in sala. E “…un’area indistinta… il M5s…”. Stop.

Renzi immagina dialoghi con Giuliano Pisapia per la costruzione di un centrosinistra. “Deve farlo però, iniziare subito”, avverte il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina che incrociamo al bar del Palacongressi. L’ex sindaco di Milano non vuole il listone unico, ma si vedrà. Il tutto passa attraverso accordi a livello territoriale, per le singole candidature in ogni singolo collegio. In modo da fare il pieno per scongiurare il rischio di dover governare con Berlusconi dopo il voto. Eventualità che Renzi ha ben presente e mette nel conto. Ma preferisce puntare alto: sfida aperta al M5s. Altro che D’Alema. “I giornalisti si aspettano che replicheremo ad altre assemblee: ma gli è andata male. Riprovare prego. L’avversario politico non è chi cerca di fare polemica nella nostra area, ma chi scommette sulla paura, l’individualismo, l’insicurezza…”.

Dunque i cinquestelle, quelli che possono contendere il tanto agognato 40 per cento. Con le loro “post-verità”. E quelle “trasmissioni televisive con i giornalisti che le cavalcano… Ma dov’è l’ordine dei giornalisti in questi casi?!”, urla il segretario e qui l’assemblea si scatena con lui in altrettante urla e applausi. Speranza e Stumpo restano impassibili. Il segretario è in campagna elettorale, anche se non lo dice. “Prima o poi si voterà, entro un anno o quando sarà. Ma c’è un solo modo per non farlo: dichiarare guerra a qualcuno e mi sembra un po’ forte…”. Qui anche i due bersaniani accennano un sorriso, cedono alla battuta. Poco dopo Speranza si sganascia dalle risate quando Renzi racconta della sua vita attuale, più famiglia e meno politica. “Mi piace fare la spesa. L’altro giorno ho incontrato uno al supermercato che mi ha detto: ‘Ma tu che ci fai qui? Io comunque ho votato no’. Gli ho risposto: allora, hai capito che ci faccio qui…”.

La battuta non gli manca. Del resto, a Rimini ci è arrivato riposato nel primo pomeriggio, direttamente da casa a Pontassieve. Si è risparmiato la “carrellata” (parole sue) di amministratori che si alternano sul palco dal mattino. Ci sono i governatori Nicola Zingaretti e Stefano Bonaccini. I sindaci che lui coccola, come Mattia Palazzi di Mantova, il fedelissimo Antonio Decaro di Bari, Dario Nardella di Firenze. Solo per citare alcune delle presenza di un Palacongressi gremitissimo. A Rimini – kermesse dedicata a Jessica, una delle vittime dell’hotel Rigopiano, “militante del Pd” – però Renzi ci resta solo per il tempo del suo intervento, poi due chiacchiere con i fedelissimi nel backstage, anche lì parlano del M5s e Orfini ne approfitta per spedire un tweet al loro indirizzo. E poi via di nuovo a casa: a Rimini Renzi ha convocato gli amministratori locali del Pd per due giorni ma lui ci resta solo per un paio d’ore, nemmeno domani sarà qui.

La possibilità di andare al voto lo ha distratto di nuovo dalle ‘beghe’ della nuova segreteria. Scomparsa di nuovo all’orizzonte. Renzi è lì che combatte con la finestra elettorale per tornare in pista, possibilmente da premier. Per far tornare l’Italia in pista, dice lui, pensando a Bruxelles che minaccia la procedura di infrazione contro Roma per mancata riduzione del debito.

“Ci sono paesi che hanno sforato il 3 per cento e non hanno procedure di infrazione – attacca Renzi – Abbiamo un’Europa che anziché riflettere sul futuro, su Trump, i populismi, si mette a mandare letterine con il tal parametro, il comma, il protocollo…”. E’ la tavola imbandita della prossima campagna elettorale. La miccia si potrebbe accendere già la prossima settimana, sempre che il governo superi i timori di Padoan e risponda no alla Commissione sulla manovra correttiva. A quel punto, confermano fonti renzianissime di governo, si potrebbe determinare un’accelerazione che potrebbe finire con il voto anticipato, a giugno ma perché no finanche ad aprile.

Se D’Alema da Roma si prepara ad “ogni evenienza” imbastendo una scissione, Renzi si prepara ad ogni evenienza convocando la direzione del Pd per il 13 febbraio. Potrebbe essere quella che decide l’accelerazione verso le urne, chissà. Tra i suoi c’è qualche perplessità. Matteo Richetti avverte che non bisognerebbe correre a tutti i costi verso il voto, “ci sono cose da fare prima…”. Ma Renzi così si gioca la sua partita, con il 40 per cento da acchiappare. “Non pensiamo che il nostro compito sia rassegnarci ai tempi cupi, anche se abbiamo perso la battaglia. Il livido fa male ma quando si perde, ci sono vari modi per reagire…”. E sparisce in una nuvola di abbracci e selfie.
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Sondaggio Scenari Politici, per avere la maggioranza l’unica opzione possibile sono le “larghissime intese” tra Renzi, Alfano e Berlusconi

“La sera delle elezioni sapremo chi governerà per i successivi cinque anni”. Era riassunto in questa frase dell’ex premier Matteo Renzi l’impianto dell’Italicum, la legge elettorale bocciata per buona parte dalla Corte Costituzionale. Ma quell’impianto è saltato: la Consulta ha cassato il ballottaggio. E la soglia del 40% per far scattare il premio di maggioranza resta, allo stato attuale, un miraggio per tutte le forze politiche in campo. In queste condizioni, se si andasse al voto, per avere una maggioranza sia alla Camera che al Senato le larghe intese non basterebbero. Ci vorrebbero le “larghissime intese”, e anche in questo caso la governabilità non sarebbe certo assicurata. L’ipotesi non è da scartare: dopo una riunione con Renzi al Nazareno, il presidente del Pd Matteo Orfini, in un’intervista all’Huffington Post, ha fissato il termine ultimo per trovare un’intesa tra i gruppi parlamentari sulla legge elettorale: dieci giorni, al massimo. Senza accordo, non ha lasciato spazio a dubbi: si va a elezioni con le leggi che ci sono.

In tal caso, “l’inciucio” sarebbe una strada forzata, secondo un sondaggio e relative simulazioni di Scenari Politici per HuffPost. Andiamo con ordine.

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Per quanto riguarda la Camera dei Deputati, si andrebbe al voto con un sistema proporzionale con premio che scatta se raggiunta la soglia del 40% (ribattezzato dal M5S come Legalicum). Laddove, come facilmente pronosticabile, non venisse raggiunta, la ripartizione dei seggi verrebbe fatta su base proporzionale. Fissata la soglia di maggioranza a 316 seggi, ci sarebbe un solo modo per poter assicurare la fiducia a un governo: le larghissime intese. Ovvero l’arco parlamentare composto da Partito Democratico, Forza Italia, Alleanza Popolare e Südtiroler Volkspartei. In particolare: 201 deputati per il Pd, 91 per FI, 20 per Ap e 5 per Svp. In questo modo, 317 seggi potrebbero assicurare, almeno sulla carta, la tenuta di un governo. Ma è evidente che un equilibrio così precario produrrebbe un esecutivo pronto a cadere alla prima folata di vento.

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Se invece i dem si alleassero con la sinistra (un ritorno all’Unione, in sintesi) si fermerebbero a 232 seggi a Montecitorio. Il Centrodestra unito che vede insieme Silvio Berlusconi, Angelino Alfano, Matteo Salvini e Giorgia Meloni (un ritorno al Popolo della Libertà, per intendersi) non supererebbe la soglia di 224 eletti. Ci sarebbe solo una via d’uscita per governare, una sorta di conventio ad excludendum da Prima Repubblica che tenga fuori i partiti ‘antisistema’ come M5S, Lega Nord e FdI: larghissime intese tra Renzi, Berlusconi e Alfano. E forse neanche basterebbero.

Situazione grossomodo analoga per il Senato redivivo. Per eleggere i membri di Palazzo Madama si andrebbe al voto, anche in questo caso, con un sistema proporzionale su base regionale, frutto dell’ex legge Calderoli (il cosiddetto Porcellum) depurata dal premio di maggioranza bocciato nel dicembre 2013 dalla Corte Costituzionale (che ha preso il nome di Consultellum).

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Accantonando per un attimo le differenze tra le leggi elettorali che regolano l’elezione per le due Camere (differenza sulle soglie di sbarramento, coalizioni ammesse al Senato ma non alla Camera), anche in questo caso, stando alle simulazioni di Scenari Politici, l’unica compagine in grado di votare la fiducia a un governo sarebbe composta da Pd (112), Forza Italia (44), Alleanza Popolare (5), Svp (3), per un totale di 164 seggi con soglia di maggioranza fissata a 158 scranni. A Palazzo Madama, quindi, le larghissime intese produrrebbero un margine di sicurezza più ampio rispetto alla Camera.

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Altre soluzioni? Niente da fare: anche un’ipotetica alleanza post-elettorale tra tutte le forze antisistema, con Movimento 5 Stelle (96), Lega Nord (36), Fratelli d’Italia (9) e altri di centrodestra raggiungerebbe la soglia di 146 seggi al Senato. Troppo pochi. E se il Pd ha intenzione di tener fede alle condizioni che ha posto, non resta molto tempo alle forze parlamentari per trovare un accordo. In caso contrario, le larghe intese sono a portata di mano. Larghissime, pardon.

Ripartizione su base regionale dei seggi al Senato con il Consultellum
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Intenzioni di voto al 28 gennaio
intenzioni

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Attacco all’eredità di Matteo Renzi: Commissione Ue, Fmi e Berlino sul Dieselgate. Il governo resiste, Renzi punta al voto

La Commissione Europea chiede all’Italia una manovra aggiuntiva di 3,4 miliardi di euro. Il Fondo Monetario Internazionale taglia le stime di crescita del Belpaese. Il ministro dei trasporti tedesco Alexander Dobrindt chiede all’Ue di garantire che i modelli Fca Fiat500, Doblò e Jeep-Renegade siano ritirate dal mercato per violazioni delle norme sulle emissioni. E’ un attacco concentrico al cuore di ciò che Matteo Renzi ha lasciato nel momento in cui ha mollato Palazzo Chigi dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre.

L’eredità dell’ex premier è presa d’assalto. Prima di tutto dalla Commissione Europea, che prima del referendum aveva di fatto sospeso il giudizio su una legge di stabilità fatta anche quest’anno di sforamenti rispetto ai vincoli dell’austerity, per via delle spese per migranti e sicurezza. Eccolo qui, un primo giudizio è arrivato: l’Italia deve varare una manovra correttiva del valore di 3,4 miliardi di euro, fanno sapere da Palazzo Berlaymont.

E’ una doccia gelata per Roma, in un inverno già alquanto rigido. Già in mattinata, Padoan si riunisce per un’ora con il premier Paolo Gentiloni. Dal Tesoro insistono a dire che ancora dalla Commissione non è arrivata alcuna lettera ufficiale e che il confronto, mai interrotto con il commissario all’Economia Pierre Moscovici, continua. Al governo decidono di resistere all’attacco. Ma non è Gentiloni a parlare.

Per l’esecutivo parla il ministro Pier Carlo Padoan e per ora non cede. “Vedremo se sarà il caso di prendere misure ulteriori per rispettare gli obiettivi – dice – Ma la via maestra per abbattere il debito è la crescita: e questa resta la priorità del governo”.

Troppo presto per dire se siamo di fronte ad un nuovo braccio di ferro con l’Ue. Ma certo gli indizi ci sono tutti. Dal governo fanno sapere che non se ne parla di nuove tasse per riparare il debito. E comunque si parte da una trattativa con la Commissione per cercare di ridurre l’impatto dell’eventuale nuova manovra. E poi, questo è il secondo elemento di reazione del governo, a Roma non la chiamano ‘manovra correttiva’. Piuttosto, dice il viceministro all’Economia Enrico Morando si tratta di “misure di aggiustamento, ma senza penalizzare la crescita e senza ostacolare il contrasto alla povertà e all’eccesso di disuguaglianze”.

Insomma, anche con l’uso delle parole si cerca di attutire l’impatto dell’attacco all’eredità di Renzi. Padoan poi si dice “stupito” per la decisione dell’Fmi. “Le ragioni addotte per dire che la crescita sarà più bassa sono: che ci sarà più incertezza politica, che secondo me è difficile da argomentare perché il nuovo governo è in continuità con il precedente, e ci saranno problemi con le banche. Anche qui il governo ha preso importanti misure proprio per fronteggiare situazioni che non sono preoccupanti”.

Il punto è che, off the record, sono proprio il premier e i suoi a dirsi certi che “se avesse vinto il sì al referendum, questo attacco non ci sarebbe stato”. E’ questo il commento a caldo che trapela nei contatti tra Roma e Pontassieve, tra Palazzo Chigi e il quartier generale provvisorio del segretario Pd. “Monti ha votato no al referendum costituzionale: facciamoci una domanda, diamoci una risposta”, dice il renziano David Ermini. Insomma, dice un altro fedelissimo dell’ex premier, “non mi figuro uno scenario con Renzi ancora a Palazzo Chigi, vittorioso al referendum, e la Commissione che chiede una manovra correttiva…”.

Colpa di Gentiloni? “No, è che la voce grossa con l’Europa la si poteva fare dopo il 40 per cento preso alle europee. Adesso l’Italia potrà tornare ad avere voce nel capitolo europeo solo con nuove elezioni, legittimità popolare e un Pd che vinca…”, aggiunge un renziano della prima ora.

Commenti a denti stretti, con tanta amarezza e consapevolezza che di armi a disposizione non ce ne sono molte. Una cosa è certezza: di fronte all’attacco, Renzi e il suo successore a Palazzo Chigi cercano una stessa risposta. Tanto che nel pomeriggio a un certo punto si diffonde addirittura la voce di una nuova enews da parte dell’ex premier, la prima nel ruolo di segretario Pd. Poi ci ripensa.

Ma per lui lo scenario resta lo stesso: andare al voto al più presto. A maggior ragione di fronte al nuovo attacco straniero, che per ora conosce tre piste: Commissione, Fmi, la Germania che quest’anno ha la sua campagna elettorale per le politiche. “Fattore da non dimenticare – dicono i Dem a Bruxelles – useranno l’argomento Italia ai fini del voto…”.

Intanto a sera l’argomento lo usa Graziano Delrio, tornando ad attaccare Berlino sul Dieselgate. “Non accettiamo imposizioni per le campagne elettorali o le tensioni interne ad un paese – dice il ministro al Tg1 – La proposta tedesca è irricevibile: non si danno ordini a un paese sovrano come l’Italia, l’autorità di omologazione italiana è quella deputata a stabilire la correttezza dei dispositivi e noi l’abbiamo stabilito esattamente come loro hanno stabilito le irregolarità sulla Volkswagen. Queste sono le relazioni tra buoni vicini che si rispettano, noi non abbiamo niente da nascondere, per questo i dati sono a disposizione della commissione europea che ha messo in piedi una camera di mediazione”.
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Matteo Renzi fa autocritica sul referendum. Ma difende il suo operato da Banca Etruria a Mps, passando per la Rai

“Le nuove polarità sono esclusi e inclusi, innovazione e identità, paura e speranza. Gli esclusi sono la vera nuova faccia delle disuguaglianze, dobbiamo farli sentire rappresentati. L’identità è ciò che noi siamo, senza muri e barriere, e non dobbiamo lasciarla alla destra. Quanto all’innovazione, è indispensabile per non finire ai margini, ma ne ho parlato in termini troppo entusiastici, bisogna pensare anche ai posti di lavoro che fa saltare. Insomma, c’è un gran da fare per la sinistra”. È quanto afferma l’ex premier Matteo Renzi in una lunga intervista a Repubblica in cui spiega come intenda, a partire dai suoi “errori”, rilanciare il Pd.

“Ho fatto tante riforme senza capire – ammette – che serviva più cuore e meno slide”, “credo nel Pd, lo rilanceremo con facce nuove e valori forti. Non ho fretta di votare – aggiunge – ma evitiamo un bis del 2013”. “Continuo a pensare – dice Renzi sulla legge elettorale – che il ballottaggio sia il modo migliore di evitare inciuci. Se la Consulta lo boccerà, c’è il Mattarellum. Con il proporzionale si torna alla Dc”. Sugli istituti di credito l’ex premier rivendica: “abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, l’errore l’ha fatto Monti sulla bad bank. Il caso di Boschi padre ci è costato molto. Dissi che Mps era un affare? C’erano le condizioni”.

Sul cosiddetto Giglio magico, Renzi nega favoritismi: “Mai scelto le persone in base alla fedeltà. L’inchiesta su Luca Lotti? sono sicuro di lui, bene le indagini ma i pm facciano in fretta”. Sulla vicenda Consip, Renzi ribadisce: “La mia linea è sempre una sola: si vada a sentenza. Noi chiediamo ai giudici di fare presto, sempre”, “ovviamente non ho alcun dubbio sulla totale correttezza dei carabinieri e dei membri del governo in questa vicenda”. Renzi parla anche dei Cinque stelle e del leader Beppe Grillo: “Lui vince se denuncia il male. Non se prova a cambiare.

Quei ragazzi sono già divisi, si odiano tra gruppi dirigenti, fanno carte e firme false per farsi la guerra. Ma sono un algoritmo, non un partito. Lui è il Capo di un sistema che ripete ai seguaci solo quello che vogliono sentirsi dire, raccogliendo la schiuma dell’onda del web. Dovremmo fare una colletta per liberare la Raggi e i parlamentari europei dalle orrende manette incostituzionali che multano l’infedeltà al partito, ogni ribellione o autonomia. Ma quelli che vedevano la deriva autoritaria nella riforma costituzionale, su questo tacciono”.

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Sergio Staino: “Matteo Renzi è sparito, questo non è un leader. Bonifazi? Non auguro a nessuno di averci a che fare”

“Fa sempre così: parte, si butta, si disamora e ti abbandona. Fine della storia. E questo è un leader, questo è un segretario?”.
Così il direttore de L’Unità Sergio Staino, in una intervista a Repubblica, se la prende direttamente con il segretario del Pd che ha riaperto l’Unità nel 2015 ponendo il vignettista alla guida del quotidiano che ora rischia nuovamente di chiudere. “Ho rotto con decine di amici, mi sono preso quintalate di offese e di insulti per venire a dirigere l’Unità renziana. Il giornale è cambiato, è migliorato. Lo vedono tutti. C’è più confronto, ci sono opinioni diverse ma a Matteo non serve più. Allora lo dica: ho fatto una cazzata a riaprirlo e ora lo chiudo. Invece no. Sparito. Lui che ci mette sempre la faccia. Scomparso. Matteo, perché ti nascondi?”. Quindi Staino attacca l’ambasciatore inviato dal premier per gestire la faccenda: “Uno che te lo raccomando, non auguro a nessuno di avere a che fare con lui. Ma il tesoriere che c’entra?”.

Alla notizia prima dei licenziamenti per 12 redattori e poi del preannuncio di una chiusura imminente, Staino accusa: “Non chiama, non risponde al telefono, non legge i messaggini”. E aggiunge: “La situazione economico finanziaria è grave. Ma la crisi vera è politica. La crisi è Renzi. Sono stato nominato da lui. Mi dice: ‘Fai un bel giornale, ricco, tante pagine. E dei soldi non preoccuparti, quelli ci sono’. Una delle battute più infelici che potesse farmi”.
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