Evviva la Deflazione! Più degli 80 euro di Renzi potè il ribasso della benzina.

Anche se in ritardo la grande distribuzione ha capito che per far tornare gli acquisti bisogna far scendere i prezzi; la pacchia, complici i mancati controlli che hanno consentito in breve tempo il raddoppio dei prezzi dopo il passaggio Lire/Euro, è finita!

Non c’è bisogno che Grillo, a cui vanno le nostre simpatie, si affanni tanto e spenda tante energie per arrivare ad un referendum sull’uscita dell’Italia dall’Euro, le stesse energie potrebbero essere utilizzate, sul territorio e magari attraverso gli stessi banchetti ai quali si raccolgono le firme, per incidere ancor di più sulla discesa dei prezzi al consumo.

 

qualsiasi cosa di uso comune e giornaliero, dai biscotti al dentifricio, oggi sta calando di prezzo; i produttori e distributori vedendo che la crisi delle vendite non accennava a finire hanno fatto la cosa più logica (peraltro senza fare cartello ma semplicemente adottando criteri di libera concorrenza) e pian piano la gente sta ritrovando la voglia di spendere e magari di potersi permettere qualche sfizio.

 

Renzi pensava, ma per molti è stata solo una mossa tendente ad acquisire voti nelle elezioni europee, che elargendo 80 Euro ad una fascia della popolazione l’economia si sarebbe prontamente ripresa; in realtà così non è stato perchè, come poi si è potuto constatare, pur senza voler generalizzare, quanto dato con la mano destra è stato ripreso (e magari abbondando) con la mano sinistra.

Quindi la deflazione, cioè non l’aumento ma la discesa dei prezzi, vista dai grandi economisti come una sciagura, si sta rivelando una grande risorsa per le economie famigliari e se questi grandi scienziati la smettessero di guardarsi l’ombelico potrebbero persino arrivare a capire che se a fronte di una riduzione dei prezzi del 10 % ottengo maggiori vendite del 30% (ovviamente le percentuali sono variabili in base ai settori economici e le varie attività) il PIL torna a crescere e lo stato introita più tasse, IVA in primis.

 

Quindi la battaglia che vale la pena di combattere non è quella sull’uscita (improbabile e demagogica) dell’Italia dall’Euro, bensì quella del riallineamento dei prezzi in euro al valore che avevano (ovviamente rivalutato considerando un 2% medio di inflazione annua) ai tempi della lira.
Altri Paesi europei, vedi Germania, non hanno consentito, dopo il cambio Marco/Euro, l’aumento indiscriminato dei prezzi ed è per questo che oggi a Dusseldorf o a Berlino, un dentifrico della stessa marca costa il 40% di quanto costi in Italia.

 

Ma veniamo alla benzina, su cui grava una mole di tasse inaudita, e anche (unico caso l’Italia) l’iva sulle tasse; è in atto una speculazione di una entità colossale; vi basti pensare che all’attuale prezzo di un barile di greggio (intorno ai 45 dollari) dovrebbe corrispondere un prezzo alla pompa, pur gravato dell’esorbitante 75% di tasse, di circa 65 centesimi il litro. Invece, sempre ad oggi, si fatica a trovare stazioni di servizio che vendano un litro di diesel a meno del doppio.

 

Qualcuno dice che petrolieri e Stato sono prudenti (e intanto straguadagnano) perchè, hai visto mai, il prezzo del greggio potrebbe ricominciare a salire da un minuto all’altro; ma anche questa ipotesi, sempre a voler sollevare lo sguardo dall’ombelico, è fortemente improbabile e per vari motivi: primo, perchè le nuove tecniche di estrazione consentono maggiore produttività; secondo, il sempre maggiore ricorso alle energie rinnovabili continua a far scendere la richiesta di petrolio; terzo, al largo del Brasile c’è probabilmente più petrolio di quanto ce ne sia nel resto del mondo; quarto, il cartello dell’OPEC non riesce più, e forse neanche vuole, a condizionare i mercati.

 

Ecco quindi che ad una già normale, benchè tardiva, tendenza a risvegliare i mercati applicando prezzi più equi, si aggiunge il risparmio (solo negli ultimi giorni, benchè ancora ben lontano dal valore effettivo, del 20%) sul costo del carburante; cosa questa che incide sul valore delle merci (che vedono nel trasporto una delle maggiori voci di costo) e sul conto economico delle singole famiglie.

 

Addirittura i medici si stanno adeguando e anche i centri di analisi strumentali, con più lentezza ma anche loro, e sempre in virtù della concorrenza, si stanno ridimensionando.
Sono sempre meno (ma purtoppo ancora ci sono) i baroni che osano chiedere 500 Euro per una visita e anche per una semplice lettura di analisi o i centri che per una risonanza "sparano" 500 (quando non di più) Euro.

 

Se ci lasceremo alle spalle la crisi, speriamo presto, è auspicabile che i cittadini non abbassino la guardia; è questo l’unico modo per tenere a bada gli speculatori e far si che i soldi che abbiamo in tasca, pochi o tanti che siano, abbiano un reale e non fittizio potere d’acquisto ma che, soprattutto, bastino per arrivare a fine mese e magari consentano pure qualche risparmio.

Master Viaggi News – Economia e Finanza (Ultime 10 News Inserite)

Tiziano Renzi raccomandò un amico gelataio per ottenere un carretto al centro commerciale The Mall

Il padre di Matteo Renzi cercò di raccomandare un suo amico gelataio per fargli ottenere un carretto con i dolci all’interno del centro commerciale The Mall. Lo scrive Il Fatto Quotidiano, che cita le carte dell’inchiesta dei pm fiorentini Von Borries e Turco che indagano sull’ipotesi che Luigi Dagostino (ex socio di Renzi senior e pilota del progetto The Mall) e alcuni suoi partner abbiano frodato il fisco.

Scrive Il Fatto:

A fine maggio 2016 un negozio La Perla cerca qualcuno per distribuire gelati e bibite davanti alla bottega. Il contratto sembra interessare molto a Tiziano Renzi, che interviene con Dagostino “per conto di una terza persona”, spiegandogli al telefono che questa “ha un mezzo capito?… costa il giusto… 500/600 euro e il gelato gratis glielo dà”.

La persona in questione è Corrado Menchetti di Arezzo, amico intimo di Tiziano Renzi, che considera “un fratello”. La questione, però, si dimostra più complicata del previsto perché Menchetti non ha l’autorizzazione necessaria a ottenere il lavoro. Renzi e Dagostino ne parlano più volte al telefono: “È stato elevato un verbale perché l’ambulante, per le modalità di vendita riscontrate, necessità di un’autorizzazione sanitaria”, si dicono i due.

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Lingotto strapieno ma svuotato di proposte: Renzi riparte da Marchionne e garantismo, ma rimanda programma e alleanze

Nell’ultimo giorno del Lingotto renziano a Torino le sedie arrivano fino alla porta d’ingresso. Ne hanno aggiunte a centinaia nel tentativo di accomodare tutti. Per la chiusura, affidata a Matteo Renzi esattamente come l’apertura di venerdì, si presentano in migliaia (5 mila dicono gli organizzatori) e molti restano in piedi. Il Padiglione 1 è strapieno. Ma la kermesse di presentazione della mozione congressuale di Renzi si chiude senza proposte precise. La stesura della mozione è rimandata alla “prossima settimana”, dice il leader. Rimandato il tema spinosissimo delle alleanze: “Nessuno sa se ci sarà il maggioritario o il proporzionale…”.

I tre giorni di Torino servono però a rafforzare la direzione già nota: sul lavoro, fra i lavoratori e i datori di lavoro, o per semplificare tra Landini e Marchionne, Renzi sceglie ancora il secondo. Proprio lì, nei locali che una volta ospitavano gli operai che votavano Pci. Sulla giustizia, col caso Consip ancora aperto e Luca Lotti sulla graticola, ribadisce il garantismo.

Non è poco, mentre il dibattito su contenuti e alleanze agita la platea del Lingotto e polarizza le tensioni tra Orfini e Martina da una parte e i centristi di Franceschini dall’altra. Convitati di pietra: Ncd, Pisapia e finanche Mdp. Renzi tenta faticosamente di stare al centro. Elogia l’a.d. di Fiat, il suo amico Marchionne: “Il fatto che ci siano degli stabilimenti Fiat in Italia non significa la vittoria del capitalismo, ma che ci sono donne e degli uomini che sono tornati in fabbrica. Dieci anni fa non era scontato che la Fiat potesse avere insediamenti importanti in Italia”.

Attacca gli scissionisti del Pd e l’amarcord di sinistra: “Non si crea lavoro cantando Bandiera Rossa o facendo il pugno chiuso…”. Li attacca anche nel loro richiamo all’Ulivo. Questa è per Massimo D’Alema: “Sento parlare di Ulivo da parte di chi lo ha segato dall’interno, avverto apoteosi intorno all’Ulivo da parte di chi ha contribuito a far finire anticipatamente l’esperienza di Romano Prodi”. E mentre la platea si scatena, lui prova a continuare: “Se Prodi fosse stato anche capo del partito oltre che del governo non sarebbe andata così… Alcuni sono più esperti di xylella che di Ulivo”.

Renzi: “Parla di Ulivo chi ha mandato a casa Prodi”

Renzi non attacca Pisapia con cui immagina di poter dialogare, anche in nome dell’unica cosa che per ora li avvicina: il garantismo.

“Giustizia e non giustizialismo!”, scandisce dal palco. Luca Lotti, il ministro e braccio destro indagato per l’inchiesta Consip, lo ascolta in prima fila, seduto accanto a Martina, che corre in ticket con Renzi per la segreteria. “Un cittadino è innocente fino a sentenza passata in giudicato sempre e non a giorni alterni!”. Gli applausi anche qui crescono e lui si galvanizza: “I processi si fanno nei tribunali e non sui giornali, devono giudicare i giudici e non i commentatori; gli articoli sono quelli del codice penale e non quelli dei giornali!”. Fa sul serio tanto da inviare un “messaggio di solidarietà a Raggi indagata, perché noi non facciamo come il Movimento 5 Stelle. Anzi, Di Maio e Di Battista: rinunciate all’immunità e prendetevi le querele, venite in tribunale e vediamo chi avrà ragione e chi torto. Vi aspettiamo con affetto… e con gli avvocati”.

Renzi: ”Di Maio e Di Battista rinunciate a immunità e rivediamoci in tribunale”

Marchionne e garantismo. Sono le due direzioni di marcia che – non si sa come – stabiliscono un qualche ordine nel caos di contraddizioni del Lingotto. C’è chi ci sta comodo e chi meno. Ma tanto di proposte concrete, oggi non se ne parla. “La partita inizia adesso – dice Renzi – la mozione sarà scritta la prossima settimana, ma c’è il progetto per il Paese. Noi non sappiamo se il futuro è maggioritario o proporzionale, abbiamo le nostre idee, ma dopo il 4 dicembre quel disegno di innovazione istituzionale è più debole, la forza delle nostre idee è il confronto con gli altri e allora vincerà chi sarà più forte in termini di progetti e proposte”.

In platea c’è il premier Paolo Gentiloni. Standing ovation per lui quando Renzi lo cita e lo ringrazia dal palco. Eppure alla fine è stato proprio il premier a svuotare il Lingotto. Nel senso che Gentiloni avrebbe chiesto all’organizzatore dei contenuti, Tommaso Nannicini, di evitare proposte precise in materia di economia. Sarebbero servite solo a peggiorare la vita del governo, in quanto la tre giorni del Lingotto è di una parte del Pd, una parte dell’alleanza di governo. Meglio non mettere carri davanti ai buoi insomma, proprio nel periodo che serve a preparare il Def. E pazienza se, nelle intenzioni originarie di Renzi, il Lingotto doveva servire a elaborare le ricette di green economy studiate nel recente viaggio in Silicon Valley.

Il Lingotto serve invece a rilanciare la vecchia proposta renziana di “primarie per la scelta del presidente della Commissione europea: dal primo maggio chiederemo questo al Pse. Il prossimo presidente sarà scelto dal popolo: è un passaggio rivoluzionario e lo porterà il Pd”, dice Renzi. Ma soprattutto il Lingotto è servito a risollevare una leadership caduta in disgrazia. I sondaggi lo vedono in testa, saldamente, alle primarie del Pd.

“Vedo molto bene Matteo e Maurizio Martina insieme”, avverte il ministro Marco Minniti, uno dei più applauditi. Ma un partito moderno è un partito che ha una leadership forte: non c’è leader senza partito ma anche non c’è partito senza leader”. Sulla stessa linea Graziano Delrio: “I napoletani non avevano paura che Maradona giocasse troppo la palla: erano una squadra, ma senza Maradona non vincevano lo scudetto”.

E’ chiaro chi ha lo scettro del comando. O meglio: della sintesi. Perché dalla sconfitta referendaria in poi “tutto è cambiato”, ammette una fonte renziana. Non a caso, ogni corrente ha approfittato del Lingotto per piantare paletti intorno a Renzi. “Ma lui non ragiona ideologicamente come fanno Orfini e Martina”, spiega una fonte dell’area di Franceschini, “Renzi ragionerà con realismo. Oggi non ci sono più le condizioni che hanno dato vita al Pd. Abbiamo provato a sconfiggere i populismi con il bipolarismo ma non ci siamo riusciti. Ora si ragiona in termini proporzionali”. Insomma la ‘santa alleanza’ contro Lega e M5S.

Ma Renzi è cauto, non si scopre a sinistra per non alimentare le sirene dell’avversario Andrea Orlando. “Il passato è il futuro”, dice un renziano di prima fascia quando il Lingotto si è già svuotato, al termine della convention. “La Dc aveva al suo interno sinistra e destra, con un capo a fare sintesi”. Il progetto è questo, con Renzi segretario del Pd. Pure premier? Chissà, col proporzionale nulla è scritto, figurarsi le regole dello Statuto dem. Per tutto il resto, bisognerà aspettare.
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Renzi reloaded: al Lingotto i vecchi cavalli di battaglia contro l’austerity e l’euroburocrazia

“Per anni una parte delle elite dell’Italia ha usato l’Europa per convincere gli italiani a fare riforme che altrimenti non avrebbero voluto fare. Ci sono stati premier che andavano in Europa con la giustificazione, come a scuola, premier tecnici animati da sentimento antipatriottico e antitaliano. Dicevano: ‘Ce lo chiede l’Europa’. Quella stagione ha migliorato forse i conti pubblici, forse. Ma ha disintegrato l’idea di Europa dei padri fondatori. Alla celebrazione del Trattato di Roma il 25 marzo dobbiamo mettere da parte quella stagione!”. Matteo Renzi è tornato. Ritrova i vecchi cavalli di battaglia contro l’austerity, contro i tecnici italiani (alla Mario Monti, per dire) e i burocrati europei. Ritrova ritmo e verve. La platea del Lingotto si scatena, ritrova il suo Renzi: senza grandi novità, non più il leader nuovo del 2013 ma con un inedito effetto rassicurante. “Io ci sono”. “Anche noi”, gli urlano dalla platea.

L’abito istituzionale di quando era premier e cravatta scura. Quando arriva con il ‘promesso’ vice-segretario Maurizio Martina sotto il palco del Padiglione 1 si scatena il delirio. “Voglio solo guardarlo!”, una signora sgomita nella folla. Lui raggiunge una postazione laterale e in mezzo al capannello di stampa e fans si mette serio a cantare l’inno nazionale. La tre-giorni di presentazione della candidatura alle primarie Dem del 30 aprile ha ufficialmente inizio.

Circa duemila persone presenti, “non ce ne aspettavamo così tante al primo giorno”, si sbalordisce il senatore renziano Andrea Marcucci. “Lingotto 2017”, recitano i maxi-schermi allestiti dai creativi pugliesi di Proforma, in rigoroso verde speranza: ne serve tanta, dopo la sconfitta al referendum, il calo, l’inchiesta Consip, gli attacchi, i veleni. “Tornare a casa per ripartire”, lo slogan: perché qui dieci anni fa è partito Walter Veltroni e il suo Pd. Veltroni oggi non c’è, ma questa platea ha delle similitudini con la sua. Anche se, come dice Renzi, “da allora i tempi sono cambiati: allora con il telefonino si telefonava, adesso è la decima cosa che si fa con quell’aggeggio…”. Ecco, ma senza andare per il sottile tra le sedie sistemate in mezzo alle piccole aule dei gruppi di lavoro, si notano le similitudini con il 2007: c’erano le suore allora per Walter, ce n’è una anche ora per Matteo. “Le porta Stefano Lepri, senatore cattolico torinese del Pd famoso per ‘il voto delle suore’”, ti dicono dal Pd. Curiosità.

C’è Sergio Chiamparino: “Il mio è un sostegno non acritico”, ci tiene a specificare mentre cerca di capire dove sedersi: non ci sono prime file riservate, sedia libera. C’è Piero Fassino, ci sono i parlamentari renzianissimi, come Francesco Bonifazi che sta un po’ nel backstage con Renzi, un po’ fuori. Ci sono i franceschiniani Francesco Garofani ed Emanuele Fiano, in prima fila anche l’ex lettiano Francesco Sanna. C’è Vincenzo De Luca: unico governatore del sud presente. Niente governo: non ancora, oggi c’è consiglio dei ministri a Roma. Gentiloni e i ministri del Pd, compreso Padoan, arriveranno tra domani e domenica.

“Io ci sono!”, urla ancora Renzi mentre chiude un intervento di apertura che non doveva esserci, almeno fino a ieri, ma che poi dura un’ora buona. Sembra abbia qualche kilo in meno. I sondaggi che lo danno al 63 per cento alle primarie lo hanno rinvigorito: “Un uomo si vede da come indossa le cicatrici”. Niente a che fare col tono opaco della kermesse con gli amministratori locali del Pd a Rimini a fine gennaio: era ancora pieno inverno, qui a Torino oggi la massima è 20 gradi.

“Dobbiamo togliere alla burocrazia la gestione dell’Ue, dobbiamo rimettere al centro la democrazia. L’Italia dovrà impegnarsi per l’elezione diretta del presidente della Commissione Ue. E’ un obiettivo di medio periodo, non sarà per le prossime elezioni ma dobbiamo chiedere primarie transnazionali!”. Non è un’idea nuova, Renzi l’ha accarezzata già alle europee del 2014, ma oggi al Lingotto suona bene: la vecchia e cara Europa, utile in tante battaglie.

Europa e M5s. “Sono passati dall’alleanza con l’anti-Ue Farage a quella con l’ultra-europeista Verhofstadt solo per piazzarsi!”. Qui la platea va in visibilio più che sulle primarie europee. Europa e Pd. “Il doppio ruolo di segretario e premier non è solo una norma dello statuto del Pd, non è solo un’ambizione ma è così in tutt’Europa: Merkel, Schroeder, Blair, Zapatero… Se non fossi stato anche segretario del Pd, non avrei vinto sulla flessibilità: è successo perché dietro avevo il consenso al 41 per cento!”.

Nessuna polemica diretta con gli avversari Pd. Anzi: “in bocca al lupo a Orlando ed Emiliano”. Nessun attacco diretto nemmeno agli scissionisti. “Non siamo contro qualcuno, ma per qualcosa”. Renzi fa l’inclusivo: “Dobbiamo restistuire senso alla parola ‘compagno’”. Annuncia la nuova scuola di formazione politica diretta dallo psicanalista Massimo Recalcati, porge un “saluto” cortese alla sindaca di Torino Chiara Appendino. Il resto è contro “l’antipolitica” tutta.

Quella del “populista che va nei talk show”, ma anche “del tecnocrate che fa tutto al chiuso dei Palazzi” e “del burocrate del ministero che fa a meno del ministro perché il governo passa e lui resta”. Applausi: la vecchia bestia della burocrazia da abbattere, che tre anni di governo non sono bastati, miete ancora successo. Almeno qui al Lingotto.

Qui c’è il Pd che forse non comprende fino in fondo cos’è questa “piattaforma Bob” che il leader lancia in onore di Kennedy e in risposta alla Rousseau del M5s. Ma è un pubblico che si scalda quando lo sente attaccare il reddito di cittadinanza: “Noi vogliamo una repubblica fondata sul lavoro non sull’assistenzialismo!”. Il leader evita la formula confusa del ‘lavoro di cittadinanza’, usata in diverse interviste, mai meglio specificata, a rischio trappola insomma. Cita Veltroni che a sua volta citò lo svedese Olof Palme: “Bisogna combattere la povertà non la ricchezza”.

Colonna sonora che parte dall’elettronica di Kruder & Dorfmeister, ma poi si arrende a Claudio Baglioni. L’età media è alta al Lingotto. “Sono i problemi della sinistra…”, allarga le braccia Marcucci. “Vogliamo essere eredi e non reduci”, insiste Renzi. “L’Italia dei prossimi dieci anni riparte da Bruxelles”. Sul palco sale l’alleato Joseph Muscat, il premier maltese che parla italiano: “Vi auguro tanta sete di governo…”. Ma la folla è ancora lì impegnata a commentare il suo Renzi: che non regala più il brivido dell’imprevisto come il rottamatore del 2013, ma dà sollievo ad una platea spossata dal 4 dicembre.
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Caso Consip, Matteo Renzi: “Un disegno evidente per creare tensioni ad hoc. Mio padre? Se colpevole pena doppia”

Non crede al complotto. Però lo evoca. “C’è un disegno evidente in queste ore di tentare di mettere insieme cose vecchie di mesi”. L’indagine su Lotti e Del Sette “è una cosa di tre mesi fa. Cosa è successo?”, domanda Renzi. “Una discussione incredibile. Non credo ai complotti” ha detto, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo. Ma ha poi specificato che “si creano tensioni ad hoc con polemiche come quelle di questi giorni”.

Mentre a Piazzale Clodio quasi contemporaneamente terminava l’interrogatorio di suo padre Tiziano Renzi, indagato nell’inchiesta Consip per traffico di influenze, l’ex premier ne parla in tv: “Se c’è un parente di un politico indagato in passato si pensava a trovare le soluzioni per scantonare il problema ed evitare i processi. Io sono fatto in un altro modo: per me i cittadini sono tutti uguali. Anzi. Se mio padre secondo i magistrati ha commesso qualcosa mi auguro che si faccia il processo in tempi rapidi. E se è davvero colpevole deve essere condannato di più degli altri per dare un segnale, con una pena doppia”.

“Se ci sono ricatti si va dai magistrati. Vogliamo essere chiari: stiamo parlando di soldi pubblici e allora se ci sono ricatti e reati, se ci sono tangenti c’è il dovere di fare i processi. Noi siamo persone perbene, non abbiamo paura dei processi. Anzi. Erano quelli di prima che facevano i lodi e il legittimo impedimento per non fare i processi”, ha aggiunto Renzi. “Io so chi è mio padre e lui deve difendersi dal punto di vista processuale. Di quello che ha fatto mio padre ne Deve rispondere lui davanti ai magistrati, lo considererei una cosa gravissima se fosse condannato”.

Renzi poi blinda il suo braccio destro Luca Lotti, anche lui indagato nell’inchiesta Consip: “Non deve assolutamente dimettersi, a mio giudizio. Lo conosco da anni e la sua famiglia deve sapere di avere in casa una persona estremamente onesta. Non accetto processi sommari. È una persona straordinariamente seria. Io non ho mai scaricato nessuno e mai lo farò”. “Sono pronto a scommettere che Lotti e Del Sette non hanno commesso il reato”, ha aggiunto.

“In questi anni in cui abbiamo governato ci sono stati una serie di cambiamenti ai vertici della macchina pubblica e non c’è stato alcuno scandalo verificato dalla magistratura, e non dai giornalisti di Cerno (Espresso, ndr)”, si è difeso Renzi. “Si è garantisti sempre. Non sto in un partito guidato da un pregiudicato e io non ho la fedina penale sporca. Abbiamo fatto cambiamenti epocali”.

L’ex premier ha poi parlato della condanna in primo grado inflitta dal tribunale di Firenze al senatore Denis Verdini a nove anni: una sentenza “pesante” e “se la condanna verrà confermata” in via definitiva, è un “fatto rilevante, grave e con conseguenze non solo politiche ma anche personali”, ha detto. “Quanto al giudizio politico, se si è fatto Jobs act, Expo e Giubileo e una serie di cose concrete, è perché c’è stata una maggioranza che nonostante il fallimento delle elezioni 2013 ha governato. Se non c’era Verdini non passavano i diritti civili, perché Bersani non ha vinto le elezioni nel 2013”.

Quanto alla campagna per le primarie Renzi ha annunciato che “mi farò accompagnare da Maurizio Martina, che ha fatto molto bene come ministro, in un ticket. Ci saranno altre persone che saranno coinvolte, metà donne e metà uomini. E sarà una bella esperienza di campagna elettorale fatta con le proposte. Non mi sentirà mai parlar male degli altri”.

“In questi tre anni qualcosa è cambiato. Potevo fare meglio e mi viene un groppo in gola a pensarlo. Ma il Lingotto non può essere il racconto dei mille giorni appena trascorsi ma l’occasione di raccontare che tipo di Italia possiamo mandare a testa alta in Europa”, ha aggiunto.

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Roberto Fico: “Gentiloni è preoccupato? Venga in Aula a riferire su Consip. E Renzi pubblichi tutti i finanziamenti a Open”

“Nessuno più di Paolo Gentiloni può venire in Aula a dirci cosa sta succedendo in Consip”, la società del ministero del Tesoro che si occupa di controllare e gestire gli appalti per il pubblico. “Nell’informativa vogliamo sapere se è preoccupato e se questa preoccupazione lo porta, in via cautelativa, a rimuovere qualche ministro come Luca Lotti, indagato per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento (avrebbe avvisato i vertici Consip dell’indagine ndr). Roberto Fico, in un’intervista all’Huffpost, chiede al premier di intervenire in prima persona e davanti al Parlamento per fare chiarezza, ma anche di domandare a Matteo Renzi se sapeva qualcosa.

Il ministro Finocchiaro oggi è sembrato possibilista su un intervento di Gentiloni in Aula. Millantano serenità?
“Questo dovrà dirlo Gentiloni e a quel punto valuteremo se chiedere le dimissioni di Lotti. Intanto però c’è anche un’accusa a Tiziano Renzi, c’è un’indagine in corso, e la cosa che più mi sconvolge è che l’ex premier sa benissimo che Alfredo Romeo ha finanziato la fondazione renziana Open nel 2013 con 60 mila euro. Non solo era al corrente, ma sapeva benissimo chi fosse Romeo perché ai tempi era già condannato in primo grado per corruzione”.

Per questo chiedete che Renzi renda pubblici i finanziatori?
“Certo. Per quale motivo non lo fa? C’è un motivo? Se non lo fa mi viene da pensare che potrebbe andare a spiegarlo ai magistrati. Noi abbiamo chiesto la lista di tutti i finanziatori della campagna elettorale di Renzi e stiamo ancora aspettando. Renzi ha uno slogan buono per ogni tempo. Parla di trasparenza e poi nasconde gli scontrini di quando era presidente della provincia e nasconde i finanziatori della fondazione”.

Renzi ha già detto di essere con i magistrati.
“E vorrei vedere se non lo fosse, è con i magistrati, ma si è preso 60mila euro da Romeo, deve fare i conti con l’etica. Sempre, non solo quando gli conviene”.

Ognuno ha il suo Romeo, insomma. Voi avete avuto Salvatore Romeo, ex capo della segreteria capitolina, che stipulava polizze a favore del sindaco Virginia Raggi.
“C’entra? Raggi ha già spiegato tutto. Quelli non erano finanziamenti, erano polizze che vengono fatte senza che il diretto interessato lo sappia”.

Passiamo al tema dei vitalizi. M5S sta facendo una battaglia equiparare le pensioni dei parlamentari a quello dei comuni cittadini, ma il Pd dice che nei fatti è già così. Dov’è il cortocircuito?
“Il Pd continua a dire bugie. Dopo 4 anni, 6 mesi e un giorno i parlamentari, anche se non hanno mai versato un contributo nella loro vita, prendono circa mille euro di pensione a 65 anni. Quale persona in Italia può avere un trattamento del genere dopo 4 anni e mezzo di lavoro? Nessuno. Per questo motivo il Pd continua a dire bugie e noi continueremo a incalzare anche il governo”.

Perché non avete chiesto di intervenire sui vitalizi passati come invece previsto dalla proposta Pd a firma Richetti?
“Se il Pd nel 2017 continua a parlare della proposta Richetti depositata anni fa e mai discussa mi viene da pensare che in realtà non vogliono discuterla. Il Pd ha una maggioranza enorme e parla come se fosse un partito piccolo che non riesce a calendarizzare una loro proposta. È il Pd che non ha voluto la normativa Richetti. Noi invece abbiamo parlato degli stipendi precedenti e dell’abolizione dei vitalizi precedenti, abbiamo portato la proposta in Aula e ce l’hanno bocciata. Per levare ogni dubbio oggi senza nessun tipo di equivoco loro dovranno approvare questa proposta per far sì che noi stessi in questa legislatura non prenderemo questo tipo di vitalizio. Accampare scuse, significa perdere la faccia, più si va avanti così e più perdono la faccia”.
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Matteo Renzi si paragona a Claudio Ranieri: “Prima esaltato, poi maramaldeggiato. Ma lui tornerà, chi lo ha tradito chissà”

Matteo Renzi come Claudio Ranieri. Dallo scudetto con il Leicester all’esonero, dal trionfo del 41% alla sconfitta del referendum. “Le favole finiscono. È normale. Prima o poi finiscono. Ma quando finiscono male la tristezza pervade non solo i bambini che hanno creduto alla favola” scrive l’ex premier sulla sua eNews.

“Lo scorso anno il calcio mondiale è stato letteralmente rivoluzionato da una piccola squadra inglese, il Leicester, che grazie a un italiano coraggioso e tenace come Claudio Ranieri ha trionfato in Premier League. A distanza di otto mesi la squadra gli si è rivoltata contro e mister Ranieri è stato esonerato: gli stessi che esaltavano l’impresa, hanno maramaldeggiato sul mister romano. Ma anche se le favole finiscono, prima o poi, le persone vere restano. Chi conosce Ranieri sa che lui tornerà, mentre i giocatori che lo hanno tradito… chissà. Viva il calcio, viva le favole”.

Nella eNews, Renzi torna a parlare di Pd e di Governo. Sul Partito Democratico l’ex segretario lancia un appello in vista delle primarie del 30 aprile e rilancia l’appuntamento al Lingotto dal 10 al 12 marzo: “Perché finalmente si discuta di cosa serve all’Italia, e non più di quanto è antipatico Tizio o Caio, è fondamentale rilanciare sui contenuti, sulle idee, sulle proposte. Sulla sanità, la cultura, le tasse, l’innovazione, il capitale umano”.

Sul Governo, Renzi scrive che “ha il compito di guidare il Paese fino alle elezioni e noi facciamo il tifo per l’Italia, quindi per tutto l’esecutivo. Ci sono cose da fare, avanti tutta! Nei mille giorni abbiamo commesso alcuni errori e ottenuto risultati storici, ma abbiamo anche lasciato un’eredità concreta. Non mi riferisco alle statistiche, ma ai progetti già finanziati. Ci sono quasi due miliardi di euro sulla povertà: niente chiacchiere, si spendano! Ci sono cinquecento milioni di euro già pronti sulle periferie (e con quelli già stanziati si arriva a oltre due miliardi): si parta, i progetti – alcuni molto belli – sono già pronti da mesi. E sull’Europa noi non vogliamo violare le regole, anzi. Nei mille giorni abbiamo ridotto al minimo le infrazioni europee, segno che vogliamo che le regole siano rispettate (quelle che non ci piacciono le vorremmo cambiare, ma questa è un’altra storia): l’importante è che il Paese sia forte e autorevole nella trattativa con Bruxelles sui numeri del bilancio. E noi stiamo dalla parte dell’Italia, sempre”.

Renzi scrive infine di essersi “rimesso in viaggio e continuerò a girare, con l’allegra curiosità di chi è innamorato della vita e del futuro, scrivendo i miei appunti su un taccuino che diventerà libro molto presto”.

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Matteo Renzi: “Una scissione di palazzo, disegno ideato e prodotto da D’Alema”

Dice che gli dispiace e che farà “di tutto perché si possa andare insieme”. Ma il buonismo verso gli ex compagni di viaggio finisce lì. Matteo Renzi preferisce non citare i nomi dei vari scissionisti che hanno dato vita a ‘Democratici e progressisti’. Tranne uno: Massimo D’Alema. E a lui che, nell’intervista a ‘Che tempo che fa’, la prima in tv dopo i mesi travagliati seguiti alla sconfitta nel referendum costituzionale, l’ex segretario del Pd imputa tutte le colpe della recente rottura. “Abbiamo fatto di tutto – dice – perchè chiunque non se ne andasse. Ma abbiamo avuto l’impressione che fosse un disegno già scritto, ideato e prodotto da D’Alema”.

Che la strategia fosse questa, si era già intuito nel pomeriggio quando, alle dichiarazioni di Roberto Speranza, che lo aveva accusato di essere fuggito in California mentre il suo partito implodeva, il vice segretario dem, Lorenzo Guerini, aveva risposto: “Arriverà un giorno in cui finalmente metteranno da parte l’odio personale e ci racconteranno cosa pensano dell’Italia”.

Nella sua narrazione, Renzi si trasforma addirittura in un rospo: non quello delle favole, ovviamente, ma piuttosto quello che gli ex Ds – dice – non hanno mai voluto digerire. “E’ come – è la sua metafora – se D’Alema e i suoi amici non abbiano mai mandato giù il rospo che uno che non fosse dei loro avesse combattuto nel Pd”.

“Nel mondo – rincara la dose – il problema della sinistra è Trump, è Le Pen. In Italia il problema sarei io? Rimettiamo al centro l’Italia. Io non ne posso più di questo dibattito. E oggi che ne sono fuori sono ancora più convinto che questo sia un Paese meraviglioso”.

L’ex segretario del Pd, insomma, dà tutta l’impressione di aver scelto chi mettere nel mirino, proprio come fece all’epoca della rottamazione, anche per separare “vecchio” e “nuovo”: ed è chiaro dove – a suo giudizio – si sente odore di stantio.
Anche per questo, Renzi ostenta il suo essere lontano dal potere, il non avere un seggio in Parlamento, non ambire a un vitalizio. Anzi, si descrive contento di aver ripreso il trolley e aver ricominciato a girare: da Scampia alla California. “Riparto da zero, con la forza delle idee. Ora – prosegue – tocca ai parlamentari, non a me. Ora fate le cose, non rinviate”, “c’è un altro capo. Lo stimo, gli voglio bene, ma tocca a lui. Io sono fuori, sono uscito”. Tanto fuori, sostiene, da non aver alcuna influenza sulla data delle prossime politiche. “Le elezioni – afferma – sono previste a febbraio del 2018, se Gentiloni vorrà votare prima lo deciderà lui”.

L’ex premier si mostra anche tranquillo sulle vicende giudiziarie che riguardano il padre in quel processo Consip a cui, in questi giorni, ha fatto riferimento anche il suo competitor alla segreteria, Michele Emiliano. “Essendo io un personaggio pubblico – osserva – non posso che dire che sto con i magistrati” ma “conosco mio padre e conosco i suoi valori”, però “i processi ci devono essere nelle Aule dei tribunali, non sui giornali”.
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Il governo prepara la ‘manovrina’ per l’Ue, gelo del Pd con Padoan. Renzi dice no a tasse e privatizzazioni

Il rapporto debito/Pil si è “finalmente stabilizzato ma è interesse nazionale ridurlo con un aggiustamento contenuto del percorso di consolidamento”, scrive Pier Carlo Padoan via tweet: sintetico, dritto al punto per far capire che non ci sono margini. Insomma, le privatizzazioni sono necessarie, non si può tornare indietro. Così come è inevitabile una correzione dei conti da fare entro fine aprile, come conferma anche Gentiloni a fine giornata. Il governo infatti deve varare una manovra correttiva di 3,4 miliardi di euro, come chiede la Commissione Ue che oggi ha scelto di non aprire una procedura di infrazione verso Roma ma di aspettare aprile. La manovra dovrà essere condotta in porto nei prossimi due mesi. Pena una procedura di infrazione contro l’Italia a maggio. Al ritorno da Bruxelles, dopo la riunione dell’Ecofin, Padoan entra a Palazzo Chigi per discuterne con il premier Paolo Gentiloni. Cioè con colui che deve mediare tra il Pd di Matteo Renzi e il Tesoro. Le frizioni tra l’ex premier e il ministro dell’Economia non si sono placate. Anzi minacciano di acuirsi sull’onda della ‘manovra bis necessaria’.

Di fronte all’annuncio di Padoan il Pd di Renzi resta freddo. Gelo in Transatlantico alla Camera tra i parlamentari del Pd. “Il governo farà una sua proposta e valuteremo”, ci dice il capogruppo Dem Ettore Rosato, tono pacato ma distaccato rispetto a quanto sta avvenendo a Palazzo Chigi, dove Padoan sta appunto discutendo con Gentiloni dove andare a prendere i 3,4 miliardi per soddisfare l’Ue.

“E’ vero che dobbiamo confrontarci con l’Ue e rispondere ma siamo stati mille giorni al governo senza alzare le tasse: non vorremmo smentirci all’ultimo minuto”, mette in chiaro Rosato. “Quanto alle privatizzazioni: abbiamo già detto più volte che per noi Poste e ferrovie sono asset di valenza sociale, dunque non si toccano”, aggiunge, andando a colpire uno dei cavalli di battaglia del Tesoro per ridurre il debito.

Anche oggi a Bruxelles Padoan ha difese le privatizzazioni. “La via maestra per ridurre il debito è la crescita – ha spiegato il ministro – le privatizzazioni hanno diversi motivi, uno dei quali è la riduzione del debito”. Un invito a pensarci su: “E’ di oggi la notizia che la privatizzazione di Enav è stata premiata quale migliore Ipo d’Europa”.

Affermazioni che cadono nel giorno in cui il presidente e reggente del Pd Matteo Orfini chiama ad uno “stop delle privatizzazioni” e a due settimane dall’invito a “riflettere sulle privatizzazioni delle Fs” avanzato dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio nella direzione Dem del 13 febbraio scorso. Il Pd di Renzi resta di questa idea e ritiene di aver trovato sponda niente meno che in Romano Prodi.

Delrio ha letto infatti come un punto a suo favore l’editoriale del professore bolognese sul Messaggero di domenica scorsa. ‘Ultimo bivio per il futuro dei servizi pubblici’, è il titolo. L’argomentazione: “Mentre il processo di privatizzazione delle aziende operanti in regime di concorrenza è intellettualmente semplice, la messa sul mercato delle imprese con grande contenuto di utilità sociale e operanti in situazione di monopolio naturale deve essere portata avanti tenendo conto di tutti i conseguenti gravami. Per questo motivo gli altri grandi paesi europei sono stati estremamente prudenti a procedere alle privatizzazioni di questi settori”.

Se lo dice il padre nobile del centrosinistra, sarà vero: è l’argomento di forza nella disputa col Tesoro.

Eppure proprio oggi Renzi si è sbilanciato a favore del governo, scrivendo dalla California che “sta facendo molte cose importanti di cui si parla poco…”. La manovrina annunciata da Padoan è il boccone indigesto che Renzi non aveva messo in conto di digerire a gennaio, quando la Commissione ha chiesto la correzione dello 0,2 per cento del pil. Ora ci siamo. Rosato esclude che la manovra bis possa essere la buccia di banana per scivolare fino al voto anticipato a giugno. “Io sono stato un sostenitore del voto anticipato ma ormai quella finestra si è chiusa”, dice.

Riaprirla per Renzi vorrebbe dire mettere in crisi il rapporto con Dario Franceschini, che su input del Colle ha sempre cercato di frenare le ansie di tornare al voto al più presto. E si sa che l’appoggio del ministro per i Beni Culturali è fondamentale per vincere il congresso del Pd: Renzi non può perderlo.

E’ questa la cruna dell’ago da cui dovrà passare il rapporto tra Pd e governo. Padoan cerca di far ingoiare la pillola. “Se la Commissione non avesse riconosciuto la legittimità delle ragioni italiane (spese legate a causa di forza maggiore come il terremoto e il flusso di migranti) l’esigenza di correzione dei conti sarebbe stata almeno tripla”, dice da Bruxelles. Ma questo non basta a lenire le preoccupazioni di un Pd incastrato tra la manovrina che non voleva e la difficoltà di tornare al voto a giugno per evitarla.
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Assemblea Pd. Matteo Renzi: minoranza spaccata, scissione arginata, via al congresso. Per Emiliano primarie il 14 maggio

Un primo momento clou della giornata arriva quando su Raitre Pierluigi Bersani dice di voler attendere la “replica di Renzi” prima di decidere sulla scissione. In quel momento Matteo Renzi condivide con i suoi la certezza che non avrebbe replicato. “La linea non cambia, quel che avevo da dire l’ho detto in apertura”. Dimissioni da segretario e congresso subito. Ma tutta l’assemblea del Pd ruota intorno a Michele Emiliano, il governatore pugliese che ieri si è fatto fotografare con gli altri due candidati alla segreteria, gli scissionisti Roberto Speranza ed Enrico Rossi, e oggi invece: “Che fa? Si scinde? Va o resta?”, si chiedono tutti al Parco dei Principi, hotel a due passi dallo zoo di Villa Borghese a Roma. Per Emiliano le primarie potrebbero slittare di una settimana: dal termine ultimo del 7 maggio al 14 maggio. Non di più, ma abbastanza per tenerlo dentro, confidano i renziani.

Renzi gongola per il risultato raggiunto. Per lo meno, il fronte scissionista si è spaccato. Anche se a sera Emiliano firma una nuova nota minacciosa con Rossi e Speranza. Al quartier generale renziano la considerano un altro segnale di sbandamento. Quella di oggi doveva essere l’assemblea della scissione. E’ stata invece l’assemblea che l’ha rimandata, ridimensionata o definitivamente archiviata. L’ultima parola la dirà la direzione di dopodomani. E’ il termine ultimo per gli scissionisti: dentro o fuori, giacché la direzione, convocata al Nazareno alle 15, dovrà comporre la commissione congressuale che deciderà le regole con la partecipazione di tutte le aree del Pd. Dentro o fuori.

Eppure al mattino i presagi erano terribili. “Attenzione, sono arrivati per rompere oggi stesso…”. Dario Franceschini, gran mediatore anti-scissione in questi giorni, arriva con questo avvertimento per il segretario. Davanti all’Hotel Parco dei Principi di Roma si affollano gli oltre 700 delegati, mai così tanti, ressa agli ingressi tra piddini e giornalisti, cameramen e fotografi, Enrico Lucci delle ‘Iene’ vestito da Stalin, divisa sovietica e baffetti: un vero Carnevale della politica.

L’aspettativa era da fine del ‘mondo Pd’. Il partito si presenta all’appuntamento del 19 febbraio così acciaccato che quando il presidente Orfini in apertura di seduta conferma le “dimissioni del segretario” e invita a raccogliere “117 firme se qualcuno vuole candidarsi a segretario”, tutti scoppiano a ridere. Quasi a volersi liberare dei fantasmi. Il premier Paolo Gentiloni è muto accanto a Renzi, apre bocca solo per cantare l’inno nazionale. Sulle scale tra la sala dell’assemblea e la sala stampa, il vicesegretario Lorenzo Guerini chiede lumi a Rossi: “Parlate?”. “No, siamo qui per ascoltare…”, è la risposta. Nessuno ci capisce più niente. Però la scaletta è organizzata in maniera tale da scongiurare la rottura.

“La scissione conosce ragioni che il cuore non conosce”. All’inizio sembra che Renzi scarti baci Perugina e ne legga le massime. Un minuto di applausi per lui in aperture. “Fermiamoci!”, chiede, fermo sul suo punto irrinunciabile: il congresso da svolgersi prima che entri nel vivo la campagna per le amministrative di giugno. E’ furioso con la minoranza, con Bersani, presente in sala: “Peggio della parola ‘scissione’ c’è la parola ‘ricatto’, non è accettabile che si blocchi il partito sulla base di un ricatto della minoranza”. Gli ultrà renziani scoppiano in applausi. Franceschini resta a mani incrociate, sguardo teso.

“Io non accetto che qualcuno pensi di avere il copyright della parola sinistra – continua Renzi – anche se non canto ‘Bandiera rossa’, penso che il Pd abbia un futuro che non è quello che altri immaginano…”.

Ce l’ha anche con D’Alema, il vero motore della scissione, assente al Parco dei Principi: “La sinistra non è come dire capo-tavola è dove mi siedo io…”. E per Emiliano: “Si può dire io non sono d’accordo ma poi ci si misura al congresso…”. Una spolverata di contenuti, tra recupero di Keynes e ambiente, e poi il Lingotto, “ripartire da lì a marzo: grazie Walter per essere venuto qui”. Ancora con la minoranza: “Avete il diritto di sconfiggerci non di eliminarci”. Chiusura su Joseph Conrad di ‘Linea d’ombra’: “Accogliendo il bene e il male, le rose e le spine, si va avanti. Scusatemi se in questi due mesi abbiamo zigzagato un po’ troppo”. I pasdaran del renzismo si scatenano.

L’assemblea prosegue in accorati appelli all’unità. Si scomoda anche Veltroni che di solito non partecipa: “Era e sarà giusto così”, precisa. “Ma oggi è mio dovere dire quanto mi sembri sbagliato e ingiusto ciò che sta accadendo: mi appello a tutti coloro con cui abbiamo condiviso la strada affinché la loro strada non si separi dalla nostra…”. E via con la cronistoria delle scissioni: “Se il primo governo Prodi avesse proseguito, la storia italiana avrebbe avuto un altro corso…”. Applausi. “La sinistra quando si è divisa ha fatto male a se stessa e al paese…”.

A quel punto il grosso è fatto. Franceschini, ancora convinto sostenitore del premio di coalizione, avverte che il Pd non dialogherà automaticamente con tutti alle politiche, scissionista avvisato… Orlando chiede la conferenza programmatica. Cui si aggrappa anche Emiliano, “disperato”, come si definisce lui stesso in mattinata. Su di lui si consuma la grande attesa della giornata. Soprattutto dopo che Rossi e Speranza scelgono di non intervenire, affidando il loro messaggio a Epifani, che prende tempo sulla scissione.

Emiliano invece interviene. Ed è già uno strappo. Gli altri due si arrabbiano, ma il governatore dà sfogo al suo dolore: “Si soffre da matti…”. E via con una serie di giri che in sostanza chiedono a Renzi un appiglio per poter restare nel Pd e accettare la sfida congressuale: “Ci mancherebbe che qualcuno ti dica di non candidarti al congresso…”. Brusio in sala. “Le agenzie di ieri le abbiamo smentite…”. Ancora brusio. “La saggezza di chi fa politica non sta solo nel tenere il punto, ma qualche volta sta nel fare un piccolo passo indietro per farlo fare in avanti alla comunità. Io sto provando a farlo, ditemi voi quale per la comunità, senza mortificare nessuno”.

Emiliano chiede un po’ di tempo in più affinché anche gli altri candidati possano “presentarsi al partito…”. Potrebbe essergli concessa una settimana in più: primarie il 14 maggio. Ma intanto i renziani si sono scatenati in tweet, senza pietà e con l’euforia incredula di chi ancora oggi si sente di poter dire: l’abbiamo quasi sfangata.



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