In Svizzera cittadinanza più facile per i nipoti degli immigrati. Il fronte del Sì vince il referendum con il 60,4%

Sarà ora più facile ottenere l’ambito passaporto elvetico per i nipoti di immigrati, tra i quali molti italiani, nati e cresciuti in Svizzera. Chiamati oggi alle urne, gli elettori della Confederazione hanno infatti approvato con il 60,4% una modifica costituzionale sulla naturalizzazione agevolata per i giovani stranieri di terza generazione. Il testo ha ottenuto anche la maggioranza dei cantoni: 19 su 26 hanno votato sì.

Finora – ricorda l’agenzia di stampa svizzera Ats – i progetti per facilitare l’ottenimento della cittadinanza da parte dei discendenti di immigrati non avevano mai superato lo scoglio delle urne. Oggi invece il consenso è stato ampio, con punte superiori al 70% nei cantoni di Giura, Vaud, Ginevra e Neuchatel. Per i giovani stranieri di terza generazione sarà dunque un pò più semplice e meno costoso ottenere il passaporto rossocrociato, anche se non sarà automatico. Gli stranieri dovranno infatti candidarsi e potranno beneficiare della procedura agevolata solo se nati sul territorio elvetico, se hanno meno di 25 anni, detengono un permesso di domicilio ed hanno frequentato almeno 5 anni di scuola dell’obbligo in Svizzera. Inoltre, almeno uno dei genitori ed uno dei nonni devono tra l’altro aver soggiornato in Svizzera.

Soddisfatto, il governo ha sottolineato che gli aspiranti dovranno dimostrare la loro integrazione. La ministra di giustizia e polizia Simmonetta Sommaruga ha ricordato che ne approfitteranno 25 mila giovani, soprattutto italiani, spagnoli e portoghesi, che con procedura agevolata otterranno “il passaporto della loro patria, quello svizzero”.

La naturalizzazione facilitata era sostenuta da tutti i grandi partiti, ad eccezione del partito di destra Udc che ha fatto campagna contro agitando la paura di giovani non integrati e dell’Islam con manifesti raffiguranti una donna con il niqab. Per la deputata socialista Ada Marra, di origini pugliesi, si tratta di una “grande vittoria”. Le nuove disposizioni – scrive l’Ats – potrebbero entrare in vigore l’anno prossimo insieme alle modifiche della Legge federale sull’acquisto e la perdita della cittadinanza svizzera.

Severa sconfitta del governo invece per la Riforma dell’imposizione delle imprese, secondo tema in votazione a livello federale bocciato da oltre il 59% dei votanti. Il progetto approvato dal parlamento era combattuto da un referendum del Partito socialista. Scopo della Riforma, che godeva dell’appoggio delle maggiori organizzazioni economiche, era di adeguare ai nuovi standard internazionali il sistema fiscale svizzero, ed in particolare i regimi speciali ideati per attirare holding, società miste e società di domicilio. La Riforma prevedeva di sopprimere l’imposizione ridotta delle società con statuto speciale e nuove misure di sgravio fiscale per promuovere innovazione e attività di ricerca e sviluppo.

Senza sorprese, gli svizzeri hanno infine approvato con il 61,9% di Sì la creazione di un Fondo per finanziare le strade nazionali e il traffico d’agglomerato.

Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Matteo Renzi fa autocritica sul referendum. Ma difende il suo operato da Banca Etruria a Mps, passando per la Rai

“Le nuove polarità sono esclusi e inclusi, innovazione e identità, paura e speranza. Gli esclusi sono la vera nuova faccia delle disuguaglianze, dobbiamo farli sentire rappresentati. L’identità è ciò che noi siamo, senza muri e barriere, e non dobbiamo lasciarla alla destra. Quanto all’innovazione, è indispensabile per non finire ai margini, ma ne ho parlato in termini troppo entusiastici, bisogna pensare anche ai posti di lavoro che fa saltare. Insomma, c’è un gran da fare per la sinistra”. È quanto afferma l’ex premier Matteo Renzi in una lunga intervista a Repubblica in cui spiega come intenda, a partire dai suoi “errori”, rilanciare il Pd.

“Ho fatto tante riforme senza capire – ammette – che serviva più cuore e meno slide”, “credo nel Pd, lo rilanceremo con facce nuove e valori forti. Non ho fretta di votare – aggiunge – ma evitiamo un bis del 2013”. “Continuo a pensare – dice Renzi sulla legge elettorale – che il ballottaggio sia il modo migliore di evitare inciuci. Se la Consulta lo boccerà, c’è il Mattarellum. Con il proporzionale si torna alla Dc”. Sugli istituti di credito l’ex premier rivendica: “abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, l’errore l’ha fatto Monti sulla bad bank. Il caso di Boschi padre ci è costato molto. Dissi che Mps era un affare? C’erano le condizioni”.

Sul cosiddetto Giglio magico, Renzi nega favoritismi: “Mai scelto le persone in base alla fedeltà. L’inchiesta su Luca Lotti? sono sicuro di lui, bene le indagini ma i pm facciano in fretta”. Sulla vicenda Consip, Renzi ribadisce: “La mia linea è sempre una sola: si vada a sentenza. Noi chiediamo ai giudici di fare presto, sempre”, “ovviamente non ho alcun dubbio sulla totale correttezza dei carabinieri e dei membri del governo in questa vicenda”. Renzi parla anche dei Cinque stelle e del leader Beppe Grillo: “Lui vince se denuncia il male. Non se prova a cambiare.

Quei ragazzi sono già divisi, si odiano tra gruppi dirigenti, fanno carte e firme false per farsi la guerra. Ma sono un algoritmo, non un partito. Lui è il Capo di un sistema che ripete ai seguaci solo quello che vogliono sentirsi dire, raccogliendo la schiuma dell’onda del web. Dovremmo fare una colletta per liberare la Raggi e i parlamentari europei dalle orrende manette incostituzionali che multano l’infedeltà al partito, ogni ribellione o autonomia. Ma quelli che vedevano la deriva autoritaria nella riforma costituzionale, su questo tacciono”.

Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Jobs act: il lodo Amato in Consulta smina il referendum e allunga la vita alla legislatura

Passa il “lodo Amato”, che stabilizza il governo Gentiloni. Due quesiti ammessi, uno – quello sull’articolo 18, l’esplosivo vero – bocciato. Sotto la regia del dottor Sottile viene tutelato – almeno questo è l’intento – il percorso ordinato del capo dello Stato: legge elettorale e voto, senza incidenti e tensioni. Un’operazione, come anticipato dall’HuffPost nei giorni scorsi, da “artificieri” per togliere la prima mina, che avrebbe consentito a Matteo Renzi di far saltare la legislatura pur di evitare il referendum della Cgil sul jobs act.

La Corte è un campo di battaglia. Con la relatrice, Silvana Sciarra, che finisce in minoranza sull’articolo 18 e, alla fine, si dimette dal ruolo di “redattrice” della sentenza, ruolo che viene affidato al vicepresidente. La Sciarra aveva sostenuto che il referendum della Cgil andava ammesso perché lineare, abrogativo e “non manipolativo” e soprattutto sostenuto da precedenti della Corte, come il referendum del 2003. Otto a cinque, la conta finale. Con otto giudici che, di fatto, hanno accolto il parere dell’Avvocatura dello Stato sul quesito “manipolativo”. Ovvero che il quesito non si limita a cancellare le restrizioni sul reintegro ma introduce una norma ex novo. Sugli altri quesiti, voucher e appalti, nessuna tensione. Quesiti che nel Palazzo non vengono vissuti come “mine”. In questo caso l’artificiere però è il Parlamento. Perché il modo per far saltare il referendum è legiferare sui voucher. Spiega una fonte vicina al dossier: “Non è facile, ma è possibile. Il quesito della Cgil è abrogativo di tutta la norma sui voucher, dunque non basta qualche modifica. Occorre una legge dunque che abroghi la norma attuale e costruisca un altro quadro normativo, che cambi nome e disciplini quelle forme di lavoro”. Tradotto: se sul punto si torna alla legge Biagi – ci sono già proposte in commissione di Cesare Damiano – il referendum sui voucher è disinnescato.

Tornando alla Consulta, dove nella seduta odierna mancavano due giudici. Uno, Giuseppe Frigo, si è dimesso. E proprio oggi il Parlamento si è riunito in seduta comune – anche se invano – per sostituirlo. L’altro assente Alessandro Criscuolo, per ragioni di salute. Qualche giudice, favorevole alla bocciatura, si mostra infastidito per la tesi delle “pressioni politiche” sulla Consulta, che dopo la sentenza diventa l’accusa principale del segretario della Cgil Susanna Camusso. Sotto la sapiente regia di Amato otto giudici smontano l’ottavo comma di un quesito lunghissimo, sottolineando gli effetti manipolativi. Sullo sfondo la logica giuridica, secondo l’idea che la democrazia diretta non può prevaricare sulla democrazia rappresentativa con quesiti ritagliati in modo spregiudicato e con effetti sulle maxi riforme che spetterebbero alle Camere. Detta in modo grezzo: il quesito non sarebbe “abrogativo” ma “propositivo” perché l’articolo 18, per come uscirebbe dal quesito della Cgil, verrebbe esteso alle imprese con più di cinque dipendenti.

Per la Sciarra il riferimento per l’ammissibilità è la sentenza numero 41 del 2003 che dichiarò ammissibile il referendum che ampliava l’applicabilità della tutela dell’articolo 18 al di sotto dei 16 dipendenti e lo estendeva addirittura all’impresa con un solo dipendente. Identica per materia al quesito del 2016. Non solo. Entrando ancora di più nel dettaglio. Tradizionalmente l’articolo 18, ovvero la reintegra per licenziamento ingiustificato, si fermava di fronte a due soglie: quella dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali e quella inferiore a cinque per le imprese agricole. Il quesito del referendum (ammesso) nel 2003 proponeva di abolire entrambe le soglie cosicché tutte le imprese – commerciali, industriali ed agricole – anche con un solo dipendente sarebbero divenute soggette all’articolo 18. Il quesito discusso oggi fa saltare solo un limite, quello dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali, e dunque il limite sarebbe solo di 5 dipendenti come per le agricole. Ecco l’argomentazione della relatrice, finita in minoranza: che senso ha dire che quello del 2003 era abrogativo – infatti il referendum si celebrò – e questo è manipolativo? E ancora: se la Corte ha ritenuto ammissibile nel 2003 un quesito che abrogava tutti i limiti, perché non ammettere un quesito che ne elimina solo uno? Sarebbe come se la Corte smentisse se stessa.

“A nostra memoria non ci ricordiamo analoghe pressioni sulla Corte” denuncia il segretario della Cgil. “Sentenza animata da logiche politiche” dice un pezzo di sinistra fuori dal Pd. La sinistra dem, invece, invoca modifiche sulla normativa dei voucher “sennò votiamo sì al referendum”. Nella sostanza plaude al Lodo Amato perché non avrebbe portato risultati, ma avrebbe fatto saltare il governo. Lasciando anche i voucher come stanno.

Tra 15 giorni scarsi, altra sentenza della Corte sull’Italicum. Il baricentro della legislatura si è spostato in quei cento passi che uniscono palazzo Corte e Quirinale. Al voto con un percorso ordinato, aveva detto Mattarella. La prima mina è stata tolta.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Referendum jobs act, durissima lettera di risposta della Cgil alle parole di Staino. E sulla decisione della Consulta la temperatura sale

La risposta della Cgil è durissima, quasi feroce. La “bomba” sganciata dall’Unità, dalla penna del suo direttore Staino che ha lanciato un durissimo j’accuse contro la segretaria della Cgil Susanna Camusso, al timone di un sindacato che avrebbe dimenticato gli insegnamenti di predecessori come Luciano Lama e Bruno Trentin, non poteva rimanere senza replica.

Il sindacato di Corso d’Italia, dopo un frenetico giro di telefonate, ha deciso di replicare con una lettera al giornale del Pd. Che già dai firmatari indica la “pesantezza” del concetto che si vuole esprimere. In calce compaiono le firme di tutti i componenti della segreteria nazionale. Più quelle di tutti i segretari di categoria. L’autografo mancante è uno solo: quello della Camusso. Una risposta unanime, collegiale, a quello che viene derubricato ad attacco personale. Ed è proprio quello del rifiuto del metodo personalistico di Staino il primo dei tre punti intorno a cui ruota la missiva. Il secondo, se si vuole, è ancora più pesante. E indica nel livore del direttore de L’Unità l’unico contributo alla discussione sulle politiche del lavoro. Staino, terzo punto, parli nel merito, offra soluzioni. In caso contrario l’interlocuzione non ha luogo di essere.

Mancano pochi giorni alla decisione della Corte Costituzionale sui referendum sul jobs act e la temperatura politica sale vertiginosamente. L’11 gennaio il giorno clou che rischia di trasformarsi (dopo il referendum costituzionale) in un nuovo conto alla rovescia per la fine della legislatura. E segnerebbe, in caso di vittoria dei Sì, lo smembramento definitivo dei provvedimenti simbolo dell’era Renzi. Senza contare che l’ammissione dei quesiti proposti dalla Cgil diventerebbero la scusa per accelerare lo scioglimento delle Camere ed evitare così una consultazione piuttosto insidiosa. Ma nonostante la decisione sia prettamente giuridica, le ricadute politiche non sono certo ignorate dai giudici della Consulta.

Sarebbe più opportuno un “dialogo con il Parlamento” e non un ripetitivo attacco al governo di turno, senza offrire al contempo un progetto, una prospettiva e una conseguente azione politica”, aveva scritto il direttore dell’Unità, accusando la Cgil di “rimanere sulle barricate aspettando che cambi il governo”. Nello stesso giorno in cui anche la Cisl scarica il sindacato di Corso Italia e nonostante in tanti invochino la strada che eviti lo scontro finale a sinistra e nel Pd, la tensione è alle stelle. L’Unità non è un giornale qualsiasi e nella minoranza Dem è il senatore Federico Fornaro a esprimere “tristezza” per l’attacco frontale. “Ci saremmo aspettati di leggere certe frasi su altri quotidiani”, dice l’esponente della minoranza interna che considera l’attacco “tutto personale e non in linea con la storia del giornale”. In sintesi ritorna quel “fuoco amico” indirizzato verso Bersani e ad altri esponenti della sinistra del Pd che sembra essere diventato lo stile dell’Unità”.

A dare una mano al governo che a tutti i costi vuole disinnescare la pericolosissima mina è arrivata anche Annamaria Furlan. In un’intervista all’Huffpost, la segretaria della Cisl liquida senza troppe sfumature la consultazione proposta dalla collega: “Il referendum non è lo strumento migliore per parlare di legislazione del lavoro, sui voucher si proceda con un intervento legislativo. Quando le imprese sono in crisi non c’è articolo 18 che valga”. Un accerchiamento dal quale la Cgil, che in questi giorni ha intrapreso la linea della prudenza comunicativa, ritenuta la più efficace per non caricare troppo la decisione della Consulta, non poteva non uscire.

Ma la maggioranza del Pd tira dritta. Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, ribadisce la linea: “Le modifiche non si fanno per evitare il referendum, ma per migliorare la norma, se necessario”. Specifica che sta a cuore anche al governo, e che persegue sempre la via Parlamentare e il conseguente venir meno delle urne

Qualunque sia la motivazione, dietro lo scontro, il merito dei referendum sui quali anche parte della sinistra sembra voler perseguire la strada parlamentare. “A partire dal quesito sui voucher, bisogna andare incontro alle richieste dei proponenti” è la linea della minoranza che sollecita maggioranza e governo a mandare avanti le proposte della commissione lavoro della Camera che ha già avviato il lavoro. “Le forze politiche facciano il loro mestiere mentre la Corte Costituzionale sta facendo il suo” spiega ancora Fornaro disponibile alla correzione “senza furberie legislative o pressioni improprie sui giudici” utili solo a neutralizzare i referendum. Nella sostanza, un ritorno alla legge Biagi dove gli stessi voucher erano previsti ma limitati agli stagionali in agricoltura, un settore dove oggi i buoni lavoro sono solo l’un per cento del totale.

Il peso dei 121,5 milioni di voucher venduti nei primi dieci mesi del 2016 rischia poi di ricadere anche sulla mozione di sfiducia che pende sul ministro del Lavoro Poletti, presentata dalla Lega, M5S e Sinistra Italiana. La scivolata del ministro (sulla possibilità che il referendum potesse essere evitato grazie allo scioglimento anticipato delle Camere) scatenò le dure reazioni della sinistra Pd che senza una marcia indietro sui voucher ha minacciato di non sostenerlo.

Martedì Poletti è atteso in Senato per un’informativa sulla vicenda mentre la sfiducia personale non è stata ancora calendarizzata. Un voto che in apparenza non vede rischi per la maggioranza ma che potrebbe diventare un altro elemento di pressione per i giudici della Corte che il giorno dopo dovranno esprimersi sull’ammissibilità dei tre referendum della Cgil.

Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Referendum sul jobs act, dentro la Consulta grandi manovre per disinnescare i quesiti promossi dalla Cgil

Gli “artificieri” sono a già all’opera, nel campo di battaglia della Corte Costituzionale, per disinnescare la prima mina, il referendum promosso dalla Cgil sull’articolo 18. Mina che rischia di far saltare tutto, a partire dal percorso “ordinato” immaginato dal capo dello Stato Sergio Mattarella: prima la modifica della legge elettorale, poi il voto.

I referendum sul jobs act sono sempre stati vissuti, nelle stanze del potere renziano, in un tutta la loro portata politica. Perché ogni voto, nell’epoca moderna, come insegna la Grecia o l’Inghilterra, è ad alta intensità politica, figuriamoci una consultazione che ha come titolo “referendum sul lavoro” con i tassi di povertà e disoccupazione del nostro paese. E il jobs act è la riforma simbolo dell’era Renzi, la più divisiva di tutte, nel paese e nella sinistra: da un lato Marchionne e Confindustria, dall’altro la Cgil. Insomma un potenziale, nuovo 4 dicembre: “C’è un solo modo per evitare il referendum – disse il ministro Giuliano Poletti nella famosa dichiarazione – sciogliere le Camere e andare al voto anticipato”.

Ecco la mina, o meglio, le mine. Su “come finisce” la legislatura. Tutto in cento passi, tanti separano il Quirinale dal palazzo della Consulta. E tutto in un mese. L’11 gennaio la Corte si riunisce per l’ammissibilità dei quesiti sul jobs act. Il 24 sull’Italicum. In caso di ammissibilità il referendum, per legge, si deve svolgere nella “finestra” tra il 15 aprile e il 15 giugno: “È difficile – dice quella vecchia volpe di Gaetano Quagliariello – immaginare la durata della legislatura senza considerare quello che deciderà la Corte in questo mese”.

Proprio attorno alle decisioni della Corte, le grandi manovre sono iniziate. Più di un costituzionalista che ha consuetudine con il Quirinale spiega: “È chiaro che ammettere il referendum destabilizza la linea di Mattarella, perché Renzi a quel punto dice ‘basta, si vota’, anche con leggi diverse. Per Amato e altri giudici che hanno più sensibilità istituzionale si stanno ponendo il problema di non introdurre un elemento di drammatizzazione”.

Il che tradotto dal compassato linguaggio dei frequentatori dei Palazzi significa che, nella Corte, la tensione è già alta. Gli spifferi raccontano di orientamenti discordanti tra i giudici, con i “magistrati” più favorevoli ai quesiti della Cgil. E dei primi attriti tra Giuliano Amato, nei panni del grande artificiere, e la relatrice, Silvana Sciarra, allieva di Gino Giugni, giuslavorista, scelta da Renzi e votata dal Parlamento nel 2014. Non sul quesito sui voucher – tema su cui è prevedibile un intervento del governo – o sulle responsabilità in materia di appalti, ma sull’articolo 18. Giuliano Amato la pensa come l’Avvocatura dello Stato, ovvero che il quesito è di fatto propositivo e quindi “manipolativo”. La Sciarra, secondo i ben informati, sarebbe intenzionata a dichiararlo ammissibile. Ognuno, con diplomazia, cerca consensi alla posizione.

Partita aperta, tutta politica. Previsioni impossibili: “L’ambiente della Corte – prosegue la fonte – è molto particolare. C’entra la politica, ma ogni testa è un tribunale e l’attivismo non sempre produce i risultati sperati”. Certo è che la pressione è destinata ad aumentare. La camera di consiglio è l’11 gennaio. Il 10 Giuliano Poletti, il ministro del jobs act sarà a palazzo Madama per una “informativa”, trascinato dalle opposizione dopo le sue gaffe sui giovani italiani all’estero che “è meglio non avere tra i piedi”. Il giorno dopo, i titoloni dei giornali, con le opposizioni alla carica: una bocciatura dei quesiti sarebbe letta come un mossa dell’establishment per negare che si esprima la volontà popolare. Comunque vada la mina rischia di esplodere.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Referendum. Al Nazareno e senza snack, il racconto della notte della sconfitta del Giglio Magico

Persino la macchinetta delle bevande e degli snack di conforto a un certo punto dice: No. Maledetta. Notte elettorale del 4 dicembre 2016 a Largo del Nazareno. Il secondo round di exit poll ha già buttato i presenti nello sconforto più inconsolabile. Maria Elena Boschi, chiusa nella stanza del segretario Matteo Renzi – che nel frattempo è a Palazzo Chigi – con Luca Lotti, Francesco Bonifazi e altri che vanno e vengono, ha il viso tiratissimo e ha anche pianto un po’. Marianna Madia è vestita di nero, a lutto, preparata ad una sconfitta che era nell’aria ma che non si annunciava così funesta. I nervi sono tesissimi. Si abbattono anche sulla povera macchinetta automatica: che infatti si inceppa, lasciando tutti a secco. C’è ancora quella del caffè che sputa tazzine di continuo, anche se qui nessuno avrebbe bisogno di caffeina. Eppure, ci si aggrappa. A quello che c’è.

Notte da fine dell’impero per i Leopoldini toscani sbarcati a Roma con belle speranze, arrivati all’apice del potere senza nemmeno sapere come e deposti con altrettanta velocità. Supersonica. Cosa si fa? Come si reagisce al ko che nessuno di loro aveva previsto di queste dimensioni? Al Nazareno la domanda fa il giro delle stanze, sbatte contro i muri e ritorna in circolo. Da Palazzo Chigi è arrivata notizia dello sfogo di Renzi: “Mollo tutto, basta con la politica, basta con il Pd. Mollo il governo e anche il Pd”. Poi sarà Dario Franceschini a convincerlo a restare, come farà nella direzione nazionale Dem convocata dopodomani. Ma sulle prime sono tutti atterriti. Ma non increduli. Tanto che quando il premier prende la parola dalla sala dei Galeoni di Palazzo Chigi per dire delle sue dimissioni dal governo, appena finita la conferenza stampa, nei corridoi del Nazareno echeggia l’inizio di un applauso. Qualcuno insomma prende l’iniziativa di battere le mani al premier nel momento più buio della sua storia al governo. Il punto è che nessuno lo segue e il battimani si perde nell’aria. Clap, clap. Stop.

In quel momento, al secondo piano del palazzone del Pd a Largo del Nazareno ci sono circa 150 persone, tra dirigenti e staff. Oltre a Boschi, arrivata al partito intorno alle 22 direttamente dalla sua Laterina, oltre a Lotti e il portavoce di Renzi, Filippo Sensi, che invece arrivano da Palazzo Chigi dove hanno trascorso il pomeriggio con il premier, ci sono anche Dario Franceschini, Gianni Cuperlo, Pina Picierno e Francesco Nicodemo, Lorenzo Guerini, Debora Serracchiani. C’è la deputata Anna Ascani terrorizzata perché poco dopo deve andare in tv. Ed è dura andarci da sconfitti, mandati a casa da quasi il 70 per cento dell’elettorato. Ma al partito a un certo punto arriva anche Luigi Berlinguer, lui che renziano di osservanza non è ma che si è battuto tantissimo nella campagna del sì. “Sono qui per festeggiare…”. Tutti lo guardano sbigottiti: sei pazzo? “…per festeggiare la grande partecipazione… che è democrazia”. Ah sì, vabbè. I visi tirati non si sciolgono in sorriso. Nessuna consolazione per il partito di Renzi.

Intorno all’una meno un quarto sono tutti ammutoliti. Il premier ha parlato, in una conferenza stampa peraltro decisa già nel pomeriggio. Da mezzogiorno infatti gli instant poll del Pd parlano chiaro: pollice verso. Comunque, a notte non tanto fonda le dimissioni di Renzi dal governo sono sul tavolo, anche i sondaggisti hanno detto la loro. Il fedelissimo Sensi li ha consultati per tutta la sera. Piepoli, Masia, Ghisleri: giri di telefonate per capire come avrebbero aggiornato i dati alla luce della maxi-affluenza alle urne, totalmente inaspettata. Ansia inutile o comunque mal ripagata: ci pensano le prime proiezioni a suonare il de profundis. A quel punto, al Nazareno, oltre alla macchinetta dell’acqua, anche le chiacchiere dicono: No. Bla, bla. Stop.

Nessuno ha più voglia di parlare, commentare, arrabbiarsi. Tutto è già accaduto. Boschi, Lotti, anche Sensi sono tutti lì con la testa china sugli smart phone a digerire la sconfitta a colpi di sms. Automi, compulsivi, quasi non alzano la testa per salutare chi arriva. Al massimo un “Ciao”. Poi si lasciano andare a qualche commento sulle roccaforti del sì: Firenze, Bologna, Milano. Ma già chiamarle roccaforti suona strano. Guardano la cartina del voto: le tre città del nord che hanno dato ragione a Renzi sono tre isolette in un mare di no. Non c’è speranza.

Fa freddo in questa notte di dicembre. Dopo la conferenza stampa di Renzi, il gruppo del Nazareno si disperde. Lotti però torna a Palazzo Chigi. Da un premier preso a pugni da una realtà che non aveva considerato. Eppure, racconta chi lo vede ogni giorno al palazzo del governo, gliel’avevano detto. Lo avevano avvertito che si andava a sbattere. Nell’ultima settimana al suo quartier generale tutti sapevano della sconfitta più che probabile. Lui un po’ ci credeva, un po’ ha fatto leva su quell’ottimismo della volontà che mai gli è mancato. Certo non si aspettava la debacle. E ora?

La reazione prende forma all’indomani del voto. Renzi accetta di restare al governo per l’approvazione della legge di stabilità. Poi, dimissioni. A metà giornata in piazza Colonna, sollevando lo sguardo verso Palazzo Chigi, Antonio Funiciello, un dei suoi fedelissimi, dice: “Ce ne dobbiamo andare da qui prima possibile”. Dove? Direzione voto in primavera. E’ ciò che Renzi chiede a Mattarella. In 24 ore infatti si è rialzato dal ko tecnico e ha deciso di restare alla guida del Pd. Lo sfogo della notte ha avuto effetto. Franceschini non è l’unico a chiedergli di restare. L’invito arriva anche dai Giovani Turchi. Nello specifico da Matteo Orfini. Nonostante che il guardasigilli Andrea Orlando sia in gelo con Renzi per la storia della mancata fiducia sul ddl sul processo penale, rimasto sul binario morto in Senato. Insomma avanti con Renzi, che dopodomani in direzione non mancherà di affondare contro la minoranza Dem che ha detto no, spaccando il partito. Tutto tranquillo nel Pd?

No, Renzi sa che non è così. Ma per ora si fida della sua maggioranza. Anche Delrio gli ha assicurato sostegno. Sì ma a cosa, ora che l’impero è caduto? L’idea è di appoggiare un governo a tempo per andare al voto a primavera. Magari un governo Padoan, l’unico che a differenza di ogni altro candidato non avrebbe ambizioni politiche e che quindi non avrebbe problemi a stringere un accordo e rimanere a Palazzo Chigi solo fino a marzo. Tanto sarebbe sempre lui il ministro dell’Economia, se Renzi dovesse tornare al governo. Ad ogni modo, questo è il piano di un Renzi che non esce di scena. E conta di potersi poggiare sulla richiesta di elezioni anticipate che arriva anche dal M5s, dalla Lega, da buona parte del fronte del no. Tranne la minoranza Dem, contraria anche ad anticipare il congresso.

Ed è questo il secondo punto del piano: elezioni anticipate a primavera, senza congresso. Con Renzi candidato premier e al massimo primarie con chi nel partito volesse sfidarlo. Come fece lui con Bersani nel 2012, quando perse. In questo scenario il congresso verrebbe celebrato a fine anno. E’ una mediazione anche con i Giovani Turchi, che vorrebbero candidare Orlando ma hanno bisogno di tempo per organizzarsi. E’ un modo per non mandare in frantumi quello che rimane nel Pd. Ed è il senso del tweet di Lotti:

Tanto alle elezioni si andrebbe con un sistema proporzionale, non con l’Italicum. E dunque la candidatura alla premiership potrebbe risultare meno appetibile. E’ un piano che porta un po’ di serenità dopo la notte del terrore. “Come abbiamo fatto a non pensare che questo referendum sarebbe finito come un ballottaggio del tutti contro Renzi?!”, allarga le braccia in Transatlantico un deputato renziano. Già. Come hanno fatto a decantare le lodi dell’Italicum? Errori di gioventù, arrivata a Roma con furore, detronizzata senza nemmeno sapere come.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Referendum, Beppe Grillo al seggio: “Se vince il Sì rispetteremo il verdetto. Ma andare comunque alle elezioni”

“Abbiamo fatto un grande lavoro, quindi l’importante, se dovessimo perdere, è non dare colpe a nessuno, abbiamo lavorato tutti bene. Se gli italiani hanno scelto una cosa diversa noi la rispettiamo”. Lo ha detto il leader del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo dopo il voto al seggio di Sant’Ilario, dove è arrivato intorno alle 17.30.

“Io credo che qualunque sia il responso, noi siamo decisi ad andare a elezioni in modo che poi, se verrà confermata questa leadership, rispetteremo il verdetto”, ha poi detto Grillo. Sul futuro del M5S, Grillo ha detto che da martedì “cominceremo sulla rete a condividere il programma su energia, politica estera difesa: cominciamo a lavorare. Stiamo lavorando già sulle persone”. Il programma, ha spiegato Grillo, “integrerà le cose non dette nel 2013”. A scegliere, in caso di vittoria del No, l’eventuale squadra di governo, sarà la rete: “Non avete ancora capito? Sceglierà la rete le persone: sono tutte cose condivise”, ha assicurato Grillo.

Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Referendum, Matteo Renzi e gli scenari post-voto: in ogni caso, urne anticipate

Vince il sì, vince il no e non ci sarà nessun forse. Domenica notte, mentre aspetterà i risultati con i suoi fedelissimi, Matteo Renzi comincerà a mettere a fuoco la sua risposta. Piano A: la vittoria. Il premier resta in carica e si prepara alla campagna elettorale per le politiche. Piano B: la sconfitta. Il premier resta in carica solo per l’approvazione della legge di stabilità, come gli chiederebbe Sergio Mattarella, congela le dimissioni e comunque affila le armi per le urne. Comunque vada, sarà voto anticipato. O almeno questa è la via d’uscita immaginata da Renzi. Anche se in caso di vittoria del sì, i renziani sono più restii ad ammetterlo.

Piano A Gli elettori consegnano a Renzi l’agognata vittoria. A risultato certo, Renzi si presenta davanti alle telecamere e tiene la conferenza stampa della rivincita. La rivincita rispetto ai sondaggi che in questa ossessiva campagna referendaria hanno sempre dato il no vincente. Da notare: solo alle europee, quando il Pd incassò il 40,8 per cento, Renzi tenne una conferenza stampa nella notte dello scrutinio. Era il 2014 e l’ex sindaco di Firenze era appena arrivato a Palazzo Chigi. Nelle altre tornate – amministrative, sempre molto meno generose con il Pd – ha rimandato le conferenze stampa al giorno dopo. In alcuni casi, le ha saltate a piè pari, come per le comunali 2015 quando partì per l’Afghanistan, visita a sorpresa dai “ragazzi” del contingente italiano.

Il discorso della vittoria tenterebbe di limitare i trionfalismi, della serie ‘ora serve unità’. Ma Renzi in cuor suo comincerebbe a sentirsi davvero legittimato da un voto popolare con il quale finora non si è mai confrontato. Non è un caso se il termine di paragone usato dal premier nel comizio di chiusura di campagna a Firenze sia stato il suo discorso per le primarie per la premiership del centrosinistra 4 anni fa, quelle perse contro Pier Luigi Bersani. “Quello fu il comizio della sconfitta, questo è invece è il comizio della vittoria”, ha detto in piazza della Signoria. Gli sarà difficile contenere orgoglio e trionfo.

È per questo che, con un occhio alla consulta che prima o poi dirà la sua sull’Italicum, i suoi abbozzano una possibile strategia. Che guarda al voto anticipato nel 2017. Per ora è idea che sta tra i desiderata. “Dovrà tener conto degli alleati – dice un renziano doc – di Alfano, di tutti quelli che chiedono la modifica della legge elettorale”. E anche della minoranza Dem che ha scelto di votare sì con la promessa di rivedere l’Italicum. Dunque, percorso complicato quello che porta al voto nel 2017 in caso di vittoria del sì. Il punto è che Renzi potrebbe averne bisogno per legittimarsi definitivamente anche a livello europeo. Visto che a partire dalla celebrazione dei 60anni del Trattato di Roma a marzo, subito dopo quello che spera sia un ok della commissione europea sulla legge di stabilità, Renzi vorrebbe assestare il colpo finale contro l’austerity. “Se vinciamo, gli diciamo che non vogliamo più essere il loro bancomat, il loro portafoglio!”, dice sempre a piazza della Signoria aizzando la folla contro l’Europa che sui profughi non si muove.

Piano B Gli elettori scelgono il no, si schierano con l’accozzaglia. Renzi non si capacita. Niente conferenza stampa nella notte più buia della sconfitta. Il giorno dopo sale al Colle per un confronto con Sergio Mattarella. Priorità: mettere il paese al sicuro dalle speculazioni dei mercati, che a quel punto si saranno già scatenati alla ricerca di un nuovo ordine. Dunque, niente dimissioni prima che il Senato – quel Senato che è ancora lì, uscito intatto dalla lavatrice del voto popolare – abbia approvato in via definitiva la legge di bilancio appena licenziata dalla Camera. Dimissioni congelate e via alla ricerca dello show down per azzerare tutto e arrivare al voto anticipato.

Ma qui iniziano gli interrogativi seri. Renzi resta segretario del Pd. Ma un minuto dopo la sconfitta è lì a studiare le mosse della sua maggioranza nel partito. Primo punto: “Se perdiamo anche solo con il 45 per cento, quella percentuale è tutta di Matteo”, dicono i suoi. “E’ come se portassimo a casa ancora una volta il risultato delle europee del 2014, con la differenza che stavolta il merito è tutto di Renzi che in questa campagna è stato più o meno solo contro tutti…”. Se così fosse, il premier-segretario lo farebbe pesare al momento delle scelte nel partito, nella direzione che convocherà dopo il voto, nel congresso che a questo punto parte subito. Ma questo non elude la domanda: cosa faranno i non-renziani e non-renzianissimi?

Vale a dire: Orfini, Orlando, Franceschini e poi Delrio, Richetti. Renzi resta il loro leader più spendibile a livello comunicativo, ma è azzoppato. Quanto Pd Renzi continuerà ad avere alle spalle, sopratutto nei gruppi parlamentari? Mattarella gli potrebbe chiedere di tornare davanti alle Camere per una nuova fiducia, magari scontata, stando agli innumerevoli inviti a restare che arrivano da tutti i ministri nonché dall’estero, da Obama al Financial Times e il New York Times. Ma Renzi si porrà la domanda: mi conviene?

Vuole restare al governo. Ma dopo la sconfitta ha un problema. Lui, il leader che si professa nuovo e non attaccato alla poltrona, dovrà trovare un’ottima giustificazione per un eventuale reincarico. Con Mattarella e i sostenitori in Parlamento dovrà raccontare una storia che non lo riduca al rango dei ‘rottamati’. Possibilmente una storia credibile. Potrà essere la storia della stabilità, della necessità di garantire un ordine. Ma a Renzi potrebbe non bastare. Avrà bisogno di un pulpito per recuperare la verginità politica perduta. Un pulpito esterno alle responsabilità di governo. Ma riuscirà a convincere il Pd a dare l’ok alla nascita di un governo di transizione (Grasso, Boldrini?) sul quale poi però scatenerà i suoi fulmini, in competizione già da campagna elettorale con Grillo?

Scenario complicato. Ed è ancora più complicato immaginare un governo Padoan, Calenda o Franceschini – i nomi più gettonati nelle chiacchiere di Transatlantico – a meno che in cuor suo Renzi non abbia deciso di cuocerli alla ‘Letta maniera’ una volta che arrivano a Palazzo Chigi.

Ecco perché, ogni scenario di sconfitta passa per un Renzi bis. A meno che Renzi non decida davvero di mollare la politica subito. Ma questa opzione non sembra essere all’orizzonte. O almeno non c’è alcun segno visibile che la annunci. A meno che il no non arrivi come un’inondazione. A quel punto gli scenari tratteggiati col bilancino sarebbero travolti.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Referendum e voto estero: domenica battaglia a Castelnuovo di Porto, dove si scrutinano le schede decisive

Circa 48mila metri quadri, ben militarizzati. Lo chiamano il ‘Pentagono’ del voto all’estero. Addirittura. Perché il Centro Polivalente della Protezione Civile a Castelnuovo di Porto, paese di poco più di 8mila anime tra la Flaminia e la Tiberina in provincia di Roma, è un vero e proprio fortino con un carattere quasi sacro. Chi lo espugna vince.

Lì vengono portate le schede di chi ha votato dall’estero per il referendum costituzionale di domenica: sono il prodotto di circa 1400 seggi. E lì vengono scrutinate. Lì piomberanno almeno 200 volontari del comitato del No perché temono brogli. E arriveranno anche rappresentanti del Sì, per rispondere a eventuali accuse e controllare a loro volta. Stando a tutti i sondaggi e ai calcoli di entrambi i comitati, il voto all’estero è il vero ago della bilancia di questo combattutissimo referendum costituzionale.

Ecco perché il voto di domenica potrà facilmente passare alla storia come ‘la battaglia di Castelnuovo di Porto’. Benché il centro polivalente dello scrutinio sia situato a circa 15 chilometri dal centro abitato, in una zona isolata, scelta apposta per garantire un corretto svolgimento delle operazioni di voto già nel 2006, quando il voto all’estero consegnò a Romano Prodi la fragilissima maggioranza al Senato. Durò solo due anni. Tempi andati ma anche quest’anno il voto all’estero sarà decisivo.

Intorno alle 15 di domenica si potrà già sapere il dato dell’affluenza dall’estero. E sarà molto alto: previsione condivisa sia dal comitato del sì che da quello del no. Pur con polemica. Quelli del Sì stimano 1 milione e 200-300mila voti in arrivo dall’estero. Renzi li considera la sua cassaforte per la vittoria. Visto che tutti i sondaggi che ha in mano danno il sì in svantaggio sul no a livello nazionale. E visto che, secondo i calcoli che fanno al suo quartier generale, nemmeno il sì di Romano Prodi riesce a ‘salvare’ questo voto.

Quelli del No condividono la previsione sul numero dei votanti dall’estero. “E’ possibile – ci dice Alberto Campailla del Comitato del No – C’è uno zoccolo duro di 700-800mila votanti, come si è visto in altri appuntamenti elettorali. Ma in più stavolta c’è stata maggiore pubblicità sul voto. Molta di più rispetto al referendum di aprile sulle trivelle”.

Stavolta autorevoli esponenti del Sì hanno dedicato molte tappe elettorali all’estero. A cominciare dal ministro Maria Elena Boschi e il suo tour in America Latina. Per finire alla cena di Matteo Renzi da Obama, da leggersi anche in chiave di propaganda tra gli italiani che vivono in America oltre che attraverso la lente delle forti relazioni diplomatiche tra Roma e Washington nell’era Barack. E poi c’è un altro dato.

L’Italicum ha introdotto la possibilità di votare anche per gli italiani che risiedono all’estero temporaneamente da almeno tre mesi, per motivi di studio, lavoro o cure mediche ecc. Una disposizione che per la prima volta è stata applicata al referendum No triv di aprile. “Solo che allora il termine entro il quale ci si poteva iscrivere per votare non è stato prorogato – ci dice ancora Campailla – L’Italicum lo stabilisce in 10 giorni dal giorno di pubblicazione del decreto che indica la data del voto in gazzetta ufficiale. Per il referendum costituzionale questo termine è stato prorogato di almeno un mese: scadeva l’8 ottobre, hanno tenuto i termini aperti fino al 2 novembre”.

Ecco il perché di quel milione e passa di voti in arrivo dall’estero. Un fortino che per Renzi racchiude “sorprese positive”, così dicono i suoi. “Noi invece pensiamo di fare bene tra gli italiani di recente immigrazione, tra i giovani che se ne sono andati per effetto della recente crisi economica”, dice Campailla. Partita evidentemente persa tra quelli di immigrazione più antica. Anche qui le aspettative del sì e del no stranamente coincidono. Si vedrà domenica.

Soprattutto si vedrà come andrà sul campo di battaglia, nell’hangar di Castelnuovo di Porto. “La nostra attenzione sul voto all’estero nasce dalle numerose segnalazioni ricevute – prosegue Campailla – il nostro compito è di garantire a tutti i cittadini e in particolare a quelli che non vivono in Italia che la loro scelta venga rispettata”. Verifica delle persone decedute, non aventi diritto al voto perché minorenni, schede sospette perché apparentemente compilate dalla stessa mano: i campanelli di allarme sono molteplici.

“Questi sospetti di brogli… se qualcuno ha qualcosa da dire, faccia denuncia – replica il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini – il voto degli italiani all’estero è stato una conquista condivisa da tutto il Parlamento. Hanno votato negli altri referendum, nelle altre elezioni Politiche e non capisco questo atteggiamento preventivo nei confronti del voto degli italiani all’estero”.

Istituito con la legge Tremaglia del 2001, governo Berlusconi, ora però il voto all’estero viene preso di mira anche da Forza Italia. “E’ l’intero processo che è assolutamente viziato”, diceva Renato Brunetta una settimana fa, dopo aver incontrato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni insieme ad altri esponenti del comitato del No. Matteo Salvini chiede addirittura “un controllo dell’Onu”. Il parlamentari del M5s in commissione Affari Costituzionali di Camera e Senato scrivono a Gentiloni e Alfano: “Il Viminale e la Farnesina non hanno fatto nulla per garantire la regolarità del voto degli italiani all’estero che è seriamente a rischio brogli”.

Renzi, che continua a girare come una trottola tra ‘#Matteorisponde’ su Facebook, le interviste su ogni media possibile e le iniziative nelle città (domattina a Palermo, con contestazione studentesca annessa), glissa: “A me sembra strano che avvicinandosi ad una grande festa della democrazia noi anziché guardare a ciò parliamo delle bufale, di cosa Renzi farà da grande. Concentriamoci sul merito. Cari italiani, stanno cercando di fregarvi, parliamo della scheda”.

Appollaiato intorno alla sua Rocca, su una collina tufacea, Castelnuovo di Porto è lì che aspetta la prossima invasione elettorale.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Referendum, l’amarezza della Ditta per un Sì “poco entusiasta”. I dubbi della Ghisleri

Un SI che non ti aspetti, bugiardo. Chiara Geloni, pasionaria della Ditta, prima di parlare, fa un lungo sospiro: “Prodi dice che vota SI in continuità con la sua storia. Peccato che con questa dichiarazione ha raggiunto gran parte dei 101. Auguri, gli vogliamo bene lo stesso”.

Giorni bugiardi è il titolo del pamphlet, scritto dai due portavoce storici di Bersani, Di Traglia e Geloni ai tempi del 2013. Quando al Capranica il nome di Prodi accolto da una standing ovation, per poi essere impallinato nel segreto dell’urna. Al netto delle parole – poche, fredde e sbrigative – di Pier Luigi Bersani (“quello di Prodi non mi pare un sì entusiasta”), la botta si sente, come in volume 2 dello stesso libro: “I giorni bugiardi – prosegue la Geloni – continuano e forse qualcuno non si ricorda chi sono bugiardi”. Pausa. “E i 101”.

E la botta si sente perché l’endorsement del Professore, simbolo dell’Ulivo che Bersani rivendica come una radice feconda, da non strappare e non rottamare, ebbene l’endorsement arriva inaspettato. Le persone più vicine a Prodi raccontano che “ha deciso solo oggi, per necessità di chiarezza nei confronti del paese, dopo una fase di dubbio, ma fino a ieri sera era rimasto davvero con l’idea di non parlare”. Idea di cui Bersani era al corrente, perché tra i due ci sono confronti periodici. Una neutralità (e un silenzio) che lo rassicurava: “Da quel che ci risultava – spiega un bersaniano di rango – c’era una grande pressione di palazzo Chigi per un suo SI, proprio per giocarlo contro di noi e sottrarci la bandiera ulivista”. Perché comunque è un SI, anche se scocciato, poco “entusiasta”, con critiche severe annesse, su stile di leadership e legge elettorale. E se conta il minuto prima (cioè adesso), ma anche dopo. Ormai nei conciliaboli della sinistra i parlamentari sono consapevoli che “se vince il SI, quello ci stira come dei gatti”.

Delusione, rabbia emotiva. Bersani commenta con due frasi, gli altri parlamentari preferiscono sottrarsi, mentre le agenzie vengono inondate da un fiume di dichiarazioni di renziani di ogni grado e di ogni credo, dagli ortodossi ai dialoganti. Ma, mentre il premier vive le parole del Professore come le campane a morto della sinistra, in parecchi si domandano: quanto sposta Prodi in termini di voti? Ai tempi del Quirinale, quando Renzi puntò su Mattarella, furono commissionati dei sondaggi per tastare il gradimento del futuro inquilino del Colle. In quelle rilevazioni – era il 2015 – Romano Prodi stava basso e non svettava neanche Veltroni. E oggi? L’infallibile Alessandra Ghisleri spiega all’HuffPost: “Bella domanda. Bisogna vedere se Prodi sposta a favore del SI o a favore del NO. Nel senso che fuori dal Pd non è amato nel centrodestra, perché è stato l’avversario per vent’anni. Per l’elettorato grillino è un pezzo di establishment. Poi, sai, non è che a ogni dichiarazione uno fa un sondaggio…”.

Però il valore politico c’è, anche se è difficile quantificare quanto vale elettoralmente, se cioè rappresenta una calamita a sinistra, magari nelle zone rosse o se viene vissuto come un altro pezzo di establishment che mette la faccia sul SI, lontano dai cittadini, come Junker, Schauble. Anzi, che ce la mette in Italia proprio dopo gli endorsemet tedeschi o comunque dell’Europa a trazione germanica all’insegna della stabilità e della continuità. La faccia e, dicono le vecchie volpi di Palazzo, anche un chip sulla vittoria di Renzi. Paradossalmente, nel poker del referendum, il SI è una puntata sul tavolo verde che accomuna i due grandi feriti da Renzi, Enrico Letta e Romano Prodi, cresciuti nella scuola democristiana per cui, per stare nel gioco, devi comunque stare nell’area di governo perché nel potere si naviga, non ci si oppone. Con ammiccamenti, distinguo, mezze frasi per marcare una posizione autonoma.

Ecco che, a leggere la dichiarazione di Prodi, se una frase suona come una critica a Renzi (“C’è chi ha voluto ignorare e persino negare quella storia, come se le cose cominciassero sempre da capo, con una leadership esclusiva, solitaria ed escludente”), l’altra porta ai baffi di Massimo D’Alema: “E c’è chi ha poi strumentalizzato il disegno che aveva contrastato”. Nel libro della Geloni e di Di Traglia, la carica dei 101 era composta dalle truppe di Renzi e di D’Alema, che poi sarebbero i “turchi” che successivamente lo hanno abbandonato: “Finché non ci diremo la verità fino in fondo – dice la Geloni – ci resteranno equivoci. Questa vicenda dei 101 continua a essere un macigno”. A ogni elezione che conta.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost