L’osservatorio DOXA svela il rapporto tra gli italiani e la casa.

Quasi la metà delle famiglie italiane è insoddisfatta della propria abitazione, principalmente a causa delle caratteristiche strutturali degli edifici in cui vive.

Il legame tra gli italiani e la casa ha radici ben salde ed è sempre più solido: per il 90%, infatti, la casa è in cima alla lista delle priorità.

 

E l’abitazione riveste una molteplicità di significati che vanno ben oltre l’idea di bene fisico dal valore economico; per questo si parla oggi di “valore esistenziale” della propria casa, percepita come un luogo affettivo e di espressione di chi la abita.
Tuttavia, quasi la metà degli italiani si dice non pienamente o solo parzialmente soddisfatto della propria casa, riconosciuta come un “contenitore” nel quale vivere che li rappresenta soltanto in parte.
Lo testimoniano i risultati di CasaDoxa, l’Osservatorio Nazionale sugli italiani e la casa, presentati a Milano da Doxa che ha chiamato a raccolta gli operatori del mercato immobiliare per condividere i risultati dell’Osservatorio e confrontarsi sull’evoluzione del comparto, capirne le criticità e coglierne le opportunità.

 

L’Osservatorio di Doxa, che ha ascoltato la voce di 7000 famiglie dislocate su tutto il territorio nazionale, si è focalizzato sui nuclei familiari che si sono dichiarati poco o parzialmente soddisfatti dell’abitazione in cui vivono, pari al 48% del totale degli intervistati, per approfondire trend e motivazioni alla base di questo sentiment.
Ne è emerso come il 64% dei locatari sia insoddisfatto dell’abitazione e come, seppur in misura minore, lo sia anche il 44% dei proprietari di casa.
E ancora, chi soffre di più il vivere in case “distanti” dai propri ideali abitativi sono proprio i millennials (52% degli intervistati) e le famiglie con reddito netto mensile inferiore ai 2.000 Euro (53%).
Ancor di più chi vive in appartamenti (53%), rispetto a chi abita in villette o case indipendenti (43%).

 

OCCHI PUNTATI SU MODERNITÀ ED EFFICIENZA — Le motivazioni di tale insoddisfazione sono da ricondurre ad alcuni elementi specifici.

Uno su tutti: le caratteristiche strutturali degli edifici (aspetto esteriore, dimensione dell’appartamento, distribuzione degli spazi interni e qualità dei materiali e delle finiture interne). Con numeri che parlano chiaro: le percentuali di insoddisfatti sono pari al 50% tra le famiglie che abitano case costruite prima del 1990, e calano significativamente al 18% tra quelle che vivono in edifici nuovi, costruiti dopo il 2015.

E ancora, tra le ragioni dell’insoddisfazione, c’è anche il nuovo modo di intendere la qualità della vita e del proprio abitare, caratterizzato dalla volontà di vedere riflessi i propri principi circa la sostenibilità anche nelle proprie scelte abitative.
Dall’Osservatorio emerge, infatti, come gli italiani vorrebbero vivere in case più efficienti a livello energetico, con conseguente beneficio sia a livello ambientale sia economico, con minori spese di gestione ordinarie e straordinarie. Una casa che sia efficiente, ma anche smart: dall’Osservatorio emerge anche il desiderio di abitare in case intelligenti, ovvero che siano predisposte alla tecnologia per programmare con semplicità alcune attività.

 

INSODDISFAZIONE QUALE MOTORE DEL CAMBIAMENTO – Questo senso di soddisfazione parziale genera un forte desiderio di cambiamento: circa il 25% degli insoddisfatti vorrebbe cambiare casa entro due anni. Una volontà che non nasce da una mobilità sociale o geografica, come detto, bensì dalle caratteristiche deficitarie dell’abitazione in cui si vive attualmente. Il 52% di chi vorrebbe traslocare dichiara che resterebbe con piacere nello stesso quartiere o comunque in zone limitrofe.
Tuttavia, cambiare è tutt’altro che facile: molti sono gli “scoraggiati”.
Circa il 30% di chi vuole trasferirsi abbandona la ricerca dopo i primi mesi di tentativi, per tornare sui propri passi e
procrastinare la realizzazione del loro desiderio di cambiamento.
Decidono, infatti, di adattarsi e provare a intervenire con piccole o grandi migliorie.

 

L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI COMFORT – Con il nuovo modo di vivere la casa, evolve anche il concetto di spazi confortevoli che, secondo gli intervistati, devono avere sei prerogative: luminosità degli ambienti, comfort termico/acustico, sicurezza, efficienza energetica, tecnologia semplificante, adattabilità.
La cucina, grande protagonista: dove calore ed energia sono elementi essenziali. È lo spazio
dove accogliere la famiglia, e al tempo stesso uno spazio funzionale da attrezzare con
elettrodomestici efficienti e di ultima generazione.
La zona living: lo spazio polifunzionale per eccellenza che riunisce famiglia e ospiti, dove
comodità e trasformabilità sono gli aspetti più rilevanti.
I bagni: devono essere evocativi e rilassanti e devono coniugare funzionalità e servizio.
Gli spazi esterni: godibili e versatili. Terrazzi, balconi e giardini sono elementi chiave di
comfort che diventano simbolicamente quasi una oasi di pace e, nel caso del giardino, driver
di scelta nello spostamento dalla città all’hinterland per le famiglie con bambini.
Le stanze di appoggio: spazi essenziali da personalizzare e nei quali concentrarsi sul
proprio lavoro e dedicarsi alle passioni.
Le stanze di servizio: spazi versatili come lavanderie, ripostigli e piccole dispense che
diventano spazi importanti per tenere in ordine. Parole chiave: discrezione e funzionalità.

 

«Riprendendo la similitudine di alcuni intervistati, la casa ideale viene oggi percepita come ‘un abito su misura” che si deve adattare a chi la vive e non viceversa. Le famiglie italiane non vogliono più vivere in “abiti” pensati per altre epoche, occasioni o esigenze. Dal nostro Osservatorio emerge, infatti, un profondo mismatch tra domanda e offerta nel mercato immobiliare, ovvero una generalizzata richiesta di case più moderne ed efficienti a fronte di una proposta immobiliare che comprende perlopiù case datate e standardizzate» Afferma Paola Caniglia, Home & Retail Director di Doxa.
«Siamo contenti che, anche quest’anno, dal nostro Osservatorio sia emerso un trend chiave che può guidare l’evoluzione del mercato immobiliare nei prossimi anni. CasaDoxa, il nostro HUB di condivisione e confronto, è nato proprio con questo obiettivo: dialogare con i player del settore affinché possano prendere consapevolezza e orientare le strategie di business verso soluzioni che rispondono alle esigenze delle famiglie, che raccogliamo ogni anno tramite il nostro Osservatorio privilegiato e gli input preziosi che arrivano dagli intervistati».

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Australia, 1880 preti accusati di pedofilia. Il rapporto shock della Royal Commission

Secondo l’inchiesta della Royal Commission, in Australia il 7% dei preti cattolici australiani è stato accusato di abusi nell’arco di sessant’anni (tra il 1950 e il 2010), ma senza che la Chiesa abbia realmente cercato di affrontare ed estirpare il fenomeno.

I casi di pedofilia accertati dalla Commissione dopo quattro anni di indagini e audizioni, sono stati circa 4.440 solo tra il 1980 e il 2010, ha riferito nel corso di un’udienza, l’avvocato che assiste la Commissione, Gail Furness, che ha guidato l’inchiesta. E circa 1.880 sacerdoti (il 7% dei preti australiani appunto) risultano coinvolti, ma i reati contro i minori sono stati ignorati o peggio, ad essere stati puniti sono stati gli abusati.

Come è avvenuto anche negli Stati Uniti i vertici della Chiesa cattolica insomma invece di denunciare alle autorità i sacerdoti hanno preferito trasferirli di scuola in scuola, di parrocchia in parrocchia “senza che nulla sul loro passato fosse rivelato. Il segreto e gli occultamenti hanno prevalso”. L’età media delle vittime è stata di 10 anni e mezzo per le bambine e poco più di 11 anni e mezzo per i bambini.

Dati agghiaccianti. I dati sono stati resi noti questa notte nella prima delle tre udienze finali dedicate alla Chiesa cattolica dalla Commissione Reale sulla risposta delle istituzioni agli abusi sessuali sui minori. La seconda inizierà intorno alla mezzanotte di oggi ora italiana. Si tratta dell’inchiesta più approfondita sulla pedofilia nella storia d’Australia, che ha indagato su tutte le confessioni religiose, enti di beneficenza, governi locali, scuole, organizzazioni comunitarie, gruppi di boy scout e club sportivi, e anche sugli appartenenti alla polizia.

Le agghiaccianti statistiche riguardanti il clero cattolico sono state presentate dalla Furness, che ha rivelato come la Santa Sede abbia rifiutato di consegnare documenti riguardanti sacerdoti australiani accusati di abusi. “La Commissione sperava di acquisire una conoscenza dell’azione intrapresa in ciascun caso”, ha detto Furness. “Ma la Santa sede ha risposto che non era possibile né appropriato fornire le informazioni richieste”.

Lo scopo delle udienze, ha dichiarato il legale della Commissione, è di rispondere alla domanda che rimane nella mente di tante vittime: come hanno potuto gli abusi essere commessi in tale scala? E perché sono stati coperti così a lungo? Le risposte delle diocesi cattoliche e degli ordini religiosi in tutto il paese sono state “tristemente simili”, ha detto.

Le vittime ignorate o peggio. “Le vittime sono state ignorate o peggio, punite. Le denunce non sono state investigate. Preti e religiosi sono stati trasferiti e le parrocchie o comunità dove sono stati trasferiti non sapevano nulla del loro passato. I documenti non sono stati conservati o sono stati distrutti. Hanno prevalso la segretezza e gli insabbiamenti”.

In alcune diocesi fino al 15% dei sacerdoti sono stati accusati di abusi fra il 1950 e il 2015. E fra gli ordini religiosi il peggiore è stato l’ordine di San Giovanni di Dio, dove si ritiene si sia macchiato di abusi uno sconcertante 40% degli appartenenti. Una proporzione arrivata al 32% tra i Fratelli Cristiani e 20% dei Fratelli Maristi, entrambi ordini che gestiscono scuole.
L’Ente formato dalla Chiesa cattolica per coordinare la risposta della Chiesa alla crisi, “Il Consiglio per la Verità, la Giustizia e la Guarigione”, ha ammesso che i dati “senza dubbio minano l’immagine e la credibilità del sacerdozio”. “I numeri sono scioccanti, sono tragici e indifendibili”, ha detto trattenendo le lacrime il Ceo del Consiglio stesso, Francis Sullivan, che ha parlato di “un massiccio fallimento” della Chiesa e di una corruzione del Vangelo. “Come cattolici, chiniamo il capo per la vergogna”, ha detto.

Il fascicolo su Pell al Procuratore di Victoria. L’inchiesta della Royal Commission getta un’ombra sul cardinale George Pell, che è uno degli esponenti più importanti della Curia di Papa Francesco, come prefetto della Segreteria per l’Economia. Pell infatti è stato fino al 2014 arcivescovo di Sydney e primate d’Australia e quindi il prelato più alto in grado del continente. Ed in particolare dal 1996 al 2001 è stato arcivescovo di Melbourne dove si è registrato il maggior numero di abusi , e dove il presule però rivendica di aver istituito la prima risposta in favore delle vittime (la cosiddetta “Melbourne response”). Uno schema di compensazione che è stata criticata per aver imposto un tetto molto basso ai risarcimenti alle vittime, una specie di transazione standardizzata, bloccando al tempo stesso ogni ricorso alla giustizia civile e penale. Nel febbraio dell’anno scorso, per tre giorni, il cardinale Pell era stato interrogato in video- conferenza con l’Australia in un albergo di Roma.

Ma poco tempo dopo Pell è stato anche denunciato per presunti abusi subiti da parte sua, da due suoi ex alunni della scuola primaria. Ieri – in concomitanza con la riunione della Royal Commission – la polizia di Victoria ha confermato (lo hanno riportato tra gli altri l’Australian e il Sidney Morning Post) di aver concluso l’istruttoria su di lui per questi due casi e inviato il fascicolo di indagine al Procuratore per le sue decisioni. È lo sviluppo più significativo delle accuse personali contro il Cardinale da quando tre detective della ”Sano Taskforce” (gruppo speciale di indagini sugli abusi su minori) sono volati a Roma per interrogarlo a metà di ottobre dello scorso anno. Pell, che ora rischia l’incriminazione formale nel suo Paese, ha sempre negato con forza ogni addebito.

Le dichiarazioni del suo successore Fisher. Con riferimento all’inerzia della Chiesa cattolica denunciata dalla Royal Commission, che concluderà i suoi lavori a fine anno, “quello che è stato rivelato è straziante”, ha commentato ieri l’attuale arcivescovo di Sydney ,Anthony Fisher, successore di Pell, in un messaggio pubblicato sul sito della diocesi.
“Mi sono sentito personalmente scosso e umiliato da queste informazioni, come lo sono stato da altre rivelazioni importanti della Commissione Reale fino ad oggi”. “Per mia vergogna e tristezza – aggiunge -, sembrerebbe che in tutta l’Australia ben 384 preti cattolici diocesani, 188 sacerdoti religiosi, 597 fratelli religiosi e 96 sorelle religiose hanno avuto accuse di abusi sessuali su minori fatte contro di loro sin dal 1950. Accuse sono state fatte anche contro 543 laici lavoratori della chiesa e altri 72 il cui status religioso è sconosciuto”.

Il caso australiano e il Vaticano. L’inchiesta della Royal Commission ha già provocato sconquasso in Vaticano, vista la posizione importantissima ricoperta da Pell chiamato proprio da Papa Francesco in un ruolo chiave: la riforma delle finanze vaticane.

Dopo l’audizione di Roma del febbraio dell’ scorso anno, uno dei membri della Commissione pontificia contro la pedofilia, guidata dal cardinale di Boston Sean O’ Malley, Peter Saunders , si è “autosospeso” in polemica con Pell. E le nuove direttive sulla responsabilità diretta dei vescovi per contrastare il fenomeno, prevedono che l’inerzia sia causa forzata di dimissioni.

Il Papa in persona il 31 luglio 2016 ,sul volo di ritorno dal viaggio in Polonia ha parlato invece delle accuse personali contro il Cardinale (quelle della polizia di Victoria) e ha affermato :”Dobbiamo aspettare la giustizia e non fare prima un giudizio mediatico, perché questo non aiuta. Il giudizio delle chiacchiere, e poi? Non si sa come risulterà. Stare attenti a quello che deciderà la giustizia”. E poi ha aggiunto: “ Una volta che la giustizia ha parlato, parlerò io”.

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Elezioni Usa, reso pubblico il rapporto dell’intelligence: “Putin ha ordinato di condizionare il voto, ma non ha influito”

Il presidente russo, Vladimir Putin, ha “ordinato” una campagna per influenzare le elezioni americane. E’ quanto si legge nel rapporto dell’intelligence americana, secondo il quale Putin e la Russia hanno cercato di discreditare Hillary Clinton. La Russia, cercando di influenzare le elezioni, puntava ad aiutare Donald Trump a vincere, ma le sue azioni non hanno influito sull’esito del voto

Nel testo i vertici degli 007 Usa sostengono anche che la Russia tenterà nuovamente di influenzare le elezioni, stavolta di alleati Usa. Riferimento alle prossime elezioni in Europa, a partire da quelle presidenziali a aprile/maggio in Francia e legislative in Germania a settembre.
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