L’ultimo ‘martire’ occidentale delle Ypg, le brigate di liberazione del popolo curdo, è stato Paolo Todd, nome in codice Kawa Amed, morto il 15 gennaio scorso a Small Siweida, villaggio nei pressi di Raqqa. Veniva da Los Angeles e chissà cosa lo ha spinto ad andare in Siria e unirsi all’avanzata delle Sdf (Syrian Democratic Forces, l’esercito a guida curda, con arabi, siriaci e turkmeni creato dagli Stati Uniti) per liberare la capitale del cosiddetto Stato Islamico.
Todd era uno dei centinaia di volontari stranieri che hanno percorso lo stesso tragitto dei giovani accorsi in Siria da tutto il mondo per onorare il jihad lanciato dal ‘Califfo’ Abu Bakr al-Baghdadi. Stesso percorso, ma motivazioni opposte: “C’è chi parte perché è un ex militare e si sente realizzato nel combattere contro l’Isis, chi lo fa per supportare politicamente la rivoluzione curda del Rojava (il Nord-est della Siria di cui i curdi hanno reclamato l’autonomia, Ndr) e chi perché è originario di quei luoghi e di quelle comunità. Sono i motivi principali, ma è difficile rinchiudere questi ‘foreign fighters’ in categorie rigide” spiega Benedetta Argentieri, giornalista e documentarista free lance che insieme ai colleghi Claudio Jampaglia e Bruno Chiaravalloti hanno realizzato il film documentario Our War, presentato fuori concorso a Venezia e attualmente in programmazione nelle sale italiane.
Our War racconta l’esperienza di un italiano di Senigallia con origini marocchine, Karim Franceschi, di un ex marine che ha combattuto in Iraq e Afghanistan, Joshua Bell, e di una guardia del corpo mezzo svedese e mezzo curdo, Rafael Kardari, che per vie diverse hanno combattuto in Siria con le Ypg curde. “Ho conosciuto Bell in uno dei miei viaggi nel Rojava, era il novembre 2014” racconta Argentieri . “Era insieme ai primissimi stranieri arrivati, che stavano ancora cercando di capire come relazionarsi con i curdi e con una situazione che non si aspettavano. Joshua non capiva perché i capi delle Ypg non gli facessero fare nulla o lo tenessero in magazzino a pulire le armi. Non capiva come funzionava quell’esercito. Poi piano piano se ne è innamorato e ha imparato anche a parlare curdo”.
Non ci sono stime ufficiali su quanti siano i volontari stranieri, ma si parla di alcune centinaia. Vengono dagli Stati Uniti, dall’Argentina, dall’Europa e ci sono anche molti australiani e qualcuno dalla Cina. La pagina Facebook The Lions of Rojava era lo strumento per contattare chi già era là e arruolarsi. Il flusso è cominciato nell’autunno 2014 e all’inizio i curdi non sapevano bene come comportarsi con questi occidentali che arrivavano dal nulla, a volte solo per farsi un selfie davanti a un carro armato e andarsene, a volte millantando esperienze militari mai avute: “Le Ypg provvedevano ad addestrarli, ma spesso li tenevano lontani dal fronte perché avevano timore che non fossero capaci di combattere in quello scenario.
La guerra contro l’Isis è fatta di avanzate e attese, di movimenti studiati in gruppo. Anche di rispetto del nemico ucciso. E a volte questo non veniva ben compreso” spiega Argentieri. Con il passare dei mesi i media occidentali iniziano a occuparsi delle storie dei loro connazionali in Siria, che diventano così una buona arma di propaganda per la causa curda. Il problema è che spesso il tempo e il denaro spesi per addestrarli non viene ripagato dall’impegno sul campo. Quindi le Ypg si organizzano e fanno firmare ai volontari un vero e proprio contratto: in cambio di armi e addestramento, loro si impegnano a restare in Rojava per almeno sei mesi.
In Europa sono arrivate le storie dei bikers olandesi e tedeschi, fotografati a Kobane fucile in spalla e giubbotto di pelle con i teschi, o quella della ventisettenne Kimberley Taylor, la prima donna inglese a essersi unita alle Ypj, le brigate curde femminili. Meno frequentemente si è parlato di coloro che sono morti a migliaia di chilometri da casa. Adesso c’è un sito, ypg-international.org, che ne raccoglie le storie. Se ne contano 18, ma non è aggiornato all’ultimo mese: “Ne sono morti dodici solo negli ultimi sei mesi, anche perché l’esercito turco è entrato in Siria e spesso attacca i curdi” spiega Argentieri. Diciotto giovani soldati volontari che hanno deciso di rischiare la vita per un ideale o per un senso di appartenenza. Come era successo nella guerra di Spagna degli anni ’30, come succede sempre quando c’è una causa per cui combattere.
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