Numeri ed endorsement, Orlando alza la testa. Primarie Pd diventano una guerra di numeri

Entra nel vivo la battaglia delle primarie Pd. È cominciata in sordina ma di colpo subisce un’accelerazione molto forte. Si trasforma in guerra di numeri e in guerra di endorsement. Dopo che i cosiddetti lettiani sono confluiti sulla candidatura di Andrea Orlando a segretario del partito, arriva durante la trasmissione ‘In mezz’ora’ la dichiarazione di sostegno dello stesso Enrico Letta. Il ministro della Giustizia, rafforzato da questo supporto di peso che si basa su una stima diffusa e su una rete di rapporti che ha anche una sua dimensione accademica e internazionale, si sente rafforzato e alza il livello della battaglia. Tanto che a un certo punto della giornata parte l’ordine dai fedelissimi dell’ex premier: “Non rispondete a Sarracino”. Marco Sarracino (napoletano, trentenne), portavoce nazionale della mozione di Andrea Orlando, è andato giù duro rivolgendosi ai vertici del Pd: “Sarà mai possibile avere i dati ufficiali forniti dal partito? In base ai dati in nostro possesso la percentuale dei partecipanti al voto congressuale finora registrata sarebbe sicuramente inferiore al 50%”.

Il congresso del Pd, finora soporifero, si accende sul dato della partecipazione e Orlando, nonostante secondo i primi dati sia dietro Matteo Renzi anche con un certo distacco (secondo i dati forniti dalla mozione Renzi, l’ex premier ha raccolto 12.367 voti il 69.36%, Orlando 4.982 il 27.94%, ed Emiliano 480 il 2.69%), è partito all’inseguimento dell’ex segretario sottolineando la disaffezione degli iscritti dovuta a una cattiva gestione degli anni precedenti. Il Pd è un partito in cui il dato degli iscritti è sceso rispetto all’ultimo congresso, quindi rispetto al 2013. Allora gli iscritti erano quasi 540mila adesso sono 420mila. Non solo. L’Huffpost sabato ha sollevato il tema del calo dei votanti in questa prima fase congressuale riportando i numeri dei primi circoli: il trend dice che un po’ ovunque, in termini assoluti, il numero dei votanti è più basso della volta scorsa.

Intanto Renzi su Facebook annuncia: “Dopo che hanno votato circa 600 circoli la partecipazione è al 61%, rispetto al 55% della partecipazione 2013. Dunque bene, molto bene”. Matteo Richetti, Andrea Marcucci e tanti altri lo seguono a ruota e fonti dem sottolineano i dati della Liguria, proprio perché Orlando è di La Spezia. “Dopo i primi giorni di congressi nei circoli Pd in Liguria, Renzi in testa con il 66,70%, segue Orlando con il 32,34%, ed infine Emiliano con lo 0,96%”. E poi ancora, dicono, “Renzi risulta in testa in tutte e 4 le province, a Genova con il 68,07%, a Savona con L’ 82, 22%, ad Imperia con 63,21%, ed anche a La Spezia con il 57,90%”.

I due sfidanti si lamentano per dei numeri a loro dire ballerini. Secondo Sarracino non si arriverebbe al 50%, mentre secondo Dario Ginefra, deputato dem e sostenitore di Emiliano, “si sottovalutano due fattori importanti: molti iscritti non si sa neanche come siano fatti perché nella migliore delle ipotesi non partecipano alla vita del partito e la gran parte del corpo elettorale del Pd sa bene che il vero appuntamento è quello del 30 aprile”. Secondo Francesco Boccia, anche lui della mozione Emiliano, quella di Renzi “è una strategia che tende a far deprimere le reti e i militanti degli altri due candidati. Ma noi non ci deprimiamo, anzi ci carichiamo”.

Finora insomma non si parla d’altro se non di numeri. Numeri che hanno un significato politico e che attestano lo stato di salute del partito ed è per questo che le tre fazioni hanno cominciato a combattersi intorno all’affluenza nei circoli dove si sta votando per scegliere il segretario. A fine giornata per i renziani il Pd è un partito reattivo i cui militanti vanno a votare per la partita congressuale, per Orlando ed Emiliano è un partito in smobilitazione o comunque attraversato da una disaffezione frutto dalla gestione-non gestione di questi ultimi anni, che ha allontanato gli iscritti dalla battaglia per scegliere il segretario.

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Assemblea Pd. Matteo Renzi: minoranza spaccata, scissione arginata, via al congresso. Per Emiliano primarie il 14 maggio

Un primo momento clou della giornata arriva quando su Raitre Pierluigi Bersani dice di voler attendere la “replica di Renzi” prima di decidere sulla scissione. In quel momento Matteo Renzi condivide con i suoi la certezza che non avrebbe replicato. “La linea non cambia, quel che avevo da dire l’ho detto in apertura”. Dimissioni da segretario e congresso subito. Ma tutta l’assemblea del Pd ruota intorno a Michele Emiliano, il governatore pugliese che ieri si è fatto fotografare con gli altri due candidati alla segreteria, gli scissionisti Roberto Speranza ed Enrico Rossi, e oggi invece: “Che fa? Si scinde? Va o resta?”, si chiedono tutti al Parco dei Principi, hotel a due passi dallo zoo di Villa Borghese a Roma. Per Emiliano le primarie potrebbero slittare di una settimana: dal termine ultimo del 7 maggio al 14 maggio. Non di più, ma abbastanza per tenerlo dentro, confidano i renziani.

Renzi gongola per il risultato raggiunto. Per lo meno, il fronte scissionista si è spaccato. Anche se a sera Emiliano firma una nuova nota minacciosa con Rossi e Speranza. Al quartier generale renziano la considerano un altro segnale di sbandamento. Quella di oggi doveva essere l’assemblea della scissione. E’ stata invece l’assemblea che l’ha rimandata, ridimensionata o definitivamente archiviata. L’ultima parola la dirà la direzione di dopodomani. E’ il termine ultimo per gli scissionisti: dentro o fuori, giacché la direzione, convocata al Nazareno alle 15, dovrà comporre la commissione congressuale che deciderà le regole con la partecipazione di tutte le aree del Pd. Dentro o fuori.

Eppure al mattino i presagi erano terribili. “Attenzione, sono arrivati per rompere oggi stesso…”. Dario Franceschini, gran mediatore anti-scissione in questi giorni, arriva con questo avvertimento per il segretario. Davanti all’Hotel Parco dei Principi di Roma si affollano gli oltre 700 delegati, mai così tanti, ressa agli ingressi tra piddini e giornalisti, cameramen e fotografi, Enrico Lucci delle ‘Iene’ vestito da Stalin, divisa sovietica e baffetti: un vero Carnevale della politica.

L’aspettativa era da fine del ‘mondo Pd’. Il partito si presenta all’appuntamento del 19 febbraio così acciaccato che quando il presidente Orfini in apertura di seduta conferma le “dimissioni del segretario” e invita a raccogliere “117 firme se qualcuno vuole candidarsi a segretario”, tutti scoppiano a ridere. Quasi a volersi liberare dei fantasmi. Il premier Paolo Gentiloni è muto accanto a Renzi, apre bocca solo per cantare l’inno nazionale. Sulle scale tra la sala dell’assemblea e la sala stampa, il vicesegretario Lorenzo Guerini chiede lumi a Rossi: “Parlate?”. “No, siamo qui per ascoltare…”, è la risposta. Nessuno ci capisce più niente. Però la scaletta è organizzata in maniera tale da scongiurare la rottura.

“La scissione conosce ragioni che il cuore non conosce”. All’inizio sembra che Renzi scarti baci Perugina e ne legga le massime. Un minuto di applausi per lui in aperture. “Fermiamoci!”, chiede, fermo sul suo punto irrinunciabile: il congresso da svolgersi prima che entri nel vivo la campagna per le amministrative di giugno. E’ furioso con la minoranza, con Bersani, presente in sala: “Peggio della parola ‘scissione’ c’è la parola ‘ricatto’, non è accettabile che si blocchi il partito sulla base di un ricatto della minoranza”. Gli ultrà renziani scoppiano in applausi. Franceschini resta a mani incrociate, sguardo teso.

“Io non accetto che qualcuno pensi di avere il copyright della parola sinistra – continua Renzi – anche se non canto ‘Bandiera rossa’, penso che il Pd abbia un futuro che non è quello che altri immaginano…”.

Ce l’ha anche con D’Alema, il vero motore della scissione, assente al Parco dei Principi: “La sinistra non è come dire capo-tavola è dove mi siedo io…”. E per Emiliano: “Si può dire io non sono d’accordo ma poi ci si misura al congresso…”. Una spolverata di contenuti, tra recupero di Keynes e ambiente, e poi il Lingotto, “ripartire da lì a marzo: grazie Walter per essere venuto qui”. Ancora con la minoranza: “Avete il diritto di sconfiggerci non di eliminarci”. Chiusura su Joseph Conrad di ‘Linea d’ombra’: “Accogliendo il bene e il male, le rose e le spine, si va avanti. Scusatemi se in questi due mesi abbiamo zigzagato un po’ troppo”. I pasdaran del renzismo si scatenano.

L’assemblea prosegue in accorati appelli all’unità. Si scomoda anche Veltroni che di solito non partecipa: “Era e sarà giusto così”, precisa. “Ma oggi è mio dovere dire quanto mi sembri sbagliato e ingiusto ciò che sta accadendo: mi appello a tutti coloro con cui abbiamo condiviso la strada affinché la loro strada non si separi dalla nostra…”. E via con la cronistoria delle scissioni: “Se il primo governo Prodi avesse proseguito, la storia italiana avrebbe avuto un altro corso…”. Applausi. “La sinistra quando si è divisa ha fatto male a se stessa e al paese…”.

A quel punto il grosso è fatto. Franceschini, ancora convinto sostenitore del premio di coalizione, avverte che il Pd non dialogherà automaticamente con tutti alle politiche, scissionista avvisato… Orlando chiede la conferenza programmatica. Cui si aggrappa anche Emiliano, “disperato”, come si definisce lui stesso in mattinata. Su di lui si consuma la grande attesa della giornata. Soprattutto dopo che Rossi e Speranza scelgono di non intervenire, affidando il loro messaggio a Epifani, che prende tempo sulla scissione.

Emiliano invece interviene. Ed è già uno strappo. Gli altri due si arrabbiano, ma il governatore dà sfogo al suo dolore: “Si soffre da matti…”. E via con una serie di giri che in sostanza chiedono a Renzi un appiglio per poter restare nel Pd e accettare la sfida congressuale: “Ci mancherebbe che qualcuno ti dica di non candidarti al congresso…”. Brusio in sala. “Le agenzie di ieri le abbiamo smentite…”. Ancora brusio. “La saggezza di chi fa politica non sta solo nel tenere il punto, ma qualche volta sta nel fare un piccolo passo indietro per farlo fare in avanti alla comunità. Io sto provando a farlo, ditemi voi quale per la comunità, senza mortificare nessuno”.

Emiliano chiede un po’ di tempo in più affinché anche gli altri candidati possano “presentarsi al partito…”. Potrebbe essergli concessa una settimana in più: primarie il 14 maggio. Ma intanto i renziani si sono scatenati in tweet, senza pietà e con l’euforia incredula di chi ancora oggi si sente di poter dire: l’abbiamo quasi sfangata.



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Francia, Hamon supera Valls alle primarie del partito socialista. Vince il candidato anti establishment

La sinistra francese ha finalmente il suo candidato. Con il risultato (ancora provvisorio) di 58,65% a 41,35%, il frondista Benoît Hamon conferma l’exploit del primo turno, battendo Manuel Valls al ballottaggio delle primarie.

Al di là del risultato, il Partito Socialista può dirsi soddisfatto in termini affluenza. A metà pomeriggio avevano già votato 1,3 milioni di persone, il 22,8% in più rispetto a domenica scorsa.

Dopo Nicolas Sarkozy, l’elettorato d’oltralpe mette alla porta anche l’ex Primo Ministro, confermando quella voglia di cambiamento che si era già manifestata a novembre in occasione delle primarie della destra vinte da François Fillon. Ed è stata proprio la strategia del “tutto tranne Valls” la chiave di volta con cui Hamon è riuscito a rimontare nei sondaggi aggiudicandosi la candidatura alle prossime presidenziali. La sfida in questa seconda tornata elettorale ha visto contrapporsi le due “sinistre inconciliabili” che in questi ultimi anni hanno spaccato il partito a metà.

Dato inizialmente come favorito, nel corso della sua campagna elettorale Valls ha perso progressivamente punti, costretto a barcamenarsi tra un programma povero di novità e la difesa dell’operato del governo, il più impopolare nella storia della V Repubblica. Protezionista sul tema dei migranti, conservatore in campo delle politiche sociale e rigido sulla laicità di stato: le proposte dell’ex premier non hanno saputo convincere i simpatizzanti di sinistra, che hanno respinto la sua linea politica, giudicata troppo istituzionale.

Dal canto suo, l’ex ministro dell’istruzione ha saputo sfruttare al meglio la situazione, concentrando la sua campagna su alcune proposte innovatrici come il reddito universale di cittadinanza, argomento che in questi ultimi giorni ha occupato una buona parte del dibattito politico.

Oltre a contare sull’appoggio dell’amico Arnaud Montebourg (arrivato terzo al primo turno), Hamon ha ricevuto il sostegno di tutta l’ala frondista del partito, che con questa vittoria è riuscita a prendersi una rivincita sul governo di Hollande.

Nella settimana che ha separato i due turni, lo scontro tra i due candidati si è fatto più acceso, con il disperato attacco di Valls che si è scagliato contro il suo avversario tentando il tutto per tutto. Rimasto sulla difensiva, Hamon ha saputo gestire lo stress del rush finale, mostrandosi più sicuro e determinato.

Per il nuovo leader della sinistra, però, la strada per l’Eliseo è ancora lunga. Secondo gli ultimi sondaggi, il candidato del Partito Socialista si fermerebbe al quinto posto, lasciando a François Fillon e Marine Le Pen la sfida del ballottaggio.

Il primo compito del nuovo candidato sarà quello di riunire le gauche sotto un’unica bandiera, cercando di evitare una diaspora elettorale che andrebbe a favorire altri candidati, primo fra tutti Emmanuel Macron. La vittoria di Hamon potrebbe infatti giovare all’ex ministro dell’economia, che grazie alle sue proposte social-liberali avrebbe una forte influenza sui simpatizzanti di Valls. Secondo un’indiscrezione diffusa venerdì dal sito Europe 1, un gruppo di deputati vicino all’ex-premier sarebbe già pronto ad abbandonare il Partito Socialista per unirsi a Macron. A questo si aggiunge poi la figura di Jean-Luc Melenchon, ex-socialista candidato per la sinistra radicale, che andrebbe a rubare consensi proprio tra gli elettori di Hamon.

Il Partito socialista si ritrova così in balia dei suoi avversari, incapace di trattenere a sé quella base elettorale necessaria per ripartire. Per riacquistare credibilità, Hamon dovrà incarnare un’alternativa politica convincente, legata a quei valori della sinistra francese che in questi ultimi anni sembrano essersi persi.
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Matteo Renzi apre la fase due: Mattarellum e voto subito con primarie di coalizione. Asse con Delrio

La “fase zen”, come la definisce lui stesso, è durata solo un paio di settimane. Solo due domeniche fa Matteo Renzi era furioso per la sconfitta referendaria, deluso e confuso. Oggi davanti all’assemblea nazionale del Pd ripete: “Abbiamo straperso”. I delegati salutano con applausi e standing ovation i passati mille giorni di governo, che finiranno in un “libro documento”, dice lui. Analisi della sconfitta qui e là, “abbiamo perso al sud, tra i giovani e sul web”, praticamente tutto. Ma il segretario, pur con volto provato e all’inizio anche un po’ dimesso, è qui all’Ergife di Roma per rilanciare. Come se fosse stato appena eletto leader del Pd, come se alle spalle non avesse una storia di 3 anni al governo che lo hanno portato dal 40,8 per cento delle europee del 2014 al collasso politico.

Ad ogni modo, basta con lo zen e niente congresso anticipato del Pd. Bensì urne anticipate alla primavera, massimo giugno. Con la nuova parola d’ordine: Mattarellum. Un obiettivo per il quale il segretario conta su un rinnovato asse: con Graziano Delrio.

Mentre Renzi parla, un’oretta di relazione che cambia verso al renzismo dalla vocazione maggioritaria all’ottica di coalizione, Paolo Gentiloni siede al tavolo della presidenza. Il segretario non lo dice chiaramente, ma la sua è una chiamata al “voto subito”. Il neo-premier lo sa. E comunque ci pensa Delrio a dirlo: “Trovo omissiva la tua relazione, Matteo: il voto di domenica 4 dicembre ha detto che gli italiani vogliono andare a votare presto…”.

Un gioco delle parti. Significa che i renziani ortodossi, categoria nella quale ora il segretario stesso ascrive Delrio addirittura come ‘capo’ di questa componente, si muovono per riportare il paese alle urne al più presto possibile. E’ la nuova fase di Renzi: il giglio magico Boschi-Lotti è saldamente piazzato al governo Gentiloni. Ma il nuovo corso si chiama Delrio. “Il Pd ha bisogno di una terza via tra capitalismo e populismo – dice il ministro parlando all’assemblea – Noi l’abbiamo studiata ma non abbiamo dato una risposta sufficiente. Grazie Matteo per aver detto di voler ripartire da un ‘Noi’. Benissimo la conferenza programmatica proposta da Epifani, che parte dal basso per essere in sintonia con la pancia del Paese non per assecondarla…”.

Dalla vocazione maggioritaria alla coalizione di centrosinistra. Mattarellum vuol dire questo. E per Renzi è un inedito assoluto. Tuttavia, dopo il fallimento delle riforme costituzionali e dell’Italicum con il suo premio di lista addirittura, il segretario Pd non si rassegna al proporzionale: vanificherebbe la sua leadership. Ed è convinto di incrociare un mood prevalente tra gli elettori: andare al voto subito ma non con un ritorno al ‘Pentapartito’. Lo dice: “Eravamo a un passo dalla terza repubblica, siamo tornati alla prima e senza la qualità della classe dirigente della prima….”.

Con i suoi insiste: “Noi diciamo maggioritario. Chi vuole il proporzionale, lo dica, ma a viso aperto”. E’ una sfida al M5s e a Berlusconi, dal quale non si aspetta un sì convinto e subito. Mentre Salvini invece fa già sapere che a lui il Mattarellum piace: convincerebbe l’ex Cavaliere a fare l’alleanza con la Lega e a non giocare in proprio. Ma soprattutto quella di Renzi è una sfida anche nel partito. “Vogliamo giocarci l’ultima possibilità di maggioritario o scivoliamo nel proporzionale? Il Pd faccia chiarezza”.

Renzi resta guardingo mentre si susseguono gli interventi dal palco dell’Ergife. C’è Andrea Orlando che marca la distanza e critica un ritorno alle “soluzioni anni ’90”. C’è Dario Franceschini che dice sì al Mattarellum, ma in realtà immagina un orizzonte temporale più lungo per il governo Gentiloni. Cioè urne sì, ma non a primavera. C’è Gianni Cuperlo che preferirebbe “un congresso” prima di andare al voto. Francesco Boccia: “Dove l’abbiamo discusso il ritorno al Mattarellum? Si va al voto quando Mattarella lo riterrà”. Paradossalmente, l’unico sostegno senza subordinate al Mattarellum arriva dall’anti-renziano Roberto Speranza, poi attaccato con toni alquanto coloriti dal renziano Roberto Giachetti. Alla fine bersaniani e cuperliani non partecipano al voto, ma l’assemblea approva: 481 sì, 2 no e 10 astenuti.

Il grosso del Pd gli dice sì non per convinzione ma per mancanza di alternative. Secondo i sondaggi, infatti, Renzi è ancora l’unico leader del campo Dem. Ed è questo che gli dà la possibilità di immaginare già da ora la via del suo prossimo futuro: primarie nei gazebo per votare il premier del centrosinistra e tornare al voto al più presto.

Come convincerà il grosso dei gruppi parlamentari? Lui, dall’alto del suo ruolo di segretario ma non parlamentare e per questo senza stipendio, pensa di farlo battendo sul tasto vitalizi: maturano a settembre, non si vorrà mica alimentare il sospetto secondo cui i parlamentari Pd vogliono aspettare la pensione prima di sciogliere le Camere? “Banale ogni considerazione sul vitalizio dei parlamentari…”, sottolinea non a caso Renzi in assemblea: quasi un inciso, destinato a diventare un mantra se sarà il caso. Ad ogni modo con i gruppi ci sarà un primo momento di discussione il 28 gennaio, 4 giorni dopo l’udienza della Consulta sull’Italicum.

E poi, è l’altra sua argomentazione, con il caos sulla giunta Raggi, il M5s ora è ai minimi storici, debolissimo: meglio che il Pd approfitti e apra la corsa alle urne subito.

“Guardo con molto interesse a ciò che Giuliano Pisapia sta costruendo”, dice il segretario all’assemblea Dem. L’ex sindaco di Milano, schierato sul sì al referendum, è uno dei punti di riferimento della ‘costruenda’ coalizione che Renzi ha in mente. Pisapia come candidato alternativo a delle primarie che potrebbero anche includere un’altra personalità del Pd: esattamente come è successo quattro anni fa, quando fu Renzi a sfidare Bersani e perdere, nelle primarie cui parteciparono anche Vendola, Tabacci e Puppato.

La nuova fase è lanciata. I tre anni di governo sono già solo un ricordo sfocato. “Non ho visto la politicizzazione del referendum”, ripete Renzi. Per lui è questo il vero motivo della sconfitta: il referendum è andato perso perchè sigle diverse e opposte si sono coalizzate nell’anti-renzismo, pur senza avere una proposta politica comune. “Se voto politico è quel 59 per cento di no, non sottovalutino il voto politico del 41 per cento di sì con cui dovranno fare i conti…”, avverte. Sul perché si sia creata questa strana coalizione, solo accenni. Troppo “notabilato” al sud, sconfitta tra i “giovani disincantati”, nelle periferie: letture più che analisi.

Ma è quanto gli basta per lanciare l’appello all’unità del Pd: “Non siamo un club di correnti dove ciascuno si costruisce una strategia personale, non torneremo ai caminetti: siamo il Pd che, se si fa un selfie, si vede che ha preso una bella botta…”. Per ora il Pd non si scinde, intrappolato dalla leadership di Renzi.
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Francia, primarie centro destra: vince Francois Fillon contro Alain Juppé. Marine Le Pen ha il suo nuovo rivale

Marine Le Pen sembra avere un nuovo rivale, con il quale dovrà confrontarsi sullo stesso terreno di gioco per convincere i francesi prima delle elezioni presidenziali del prossimo anno.

François Fillon si è aggiudicato il ballottaggio delle primarie dei Républicans con il 68,3% delle preferenze, distaccando di 37 punti Alain Juppé, rimasto fermo al 31,6%. Un risultato provvisorio che verrà confermato solamente in tarda serata. In quest’ultima settimana il sindaco di Bordeaux non è riuscito a colmare lo scarto accumulato domenica scorsa al primo turno, quando il suo rivale ha riportato un risultato del tutto inaspettato, ottenendo il 44% delle preferenze.
L’ex premier di Sarkozy è stato protagonista di un’improvvisa escalation che nell’ultimo mese lo ha proiettato in cima alle preferenze. Le proposte moderate di Juppé non hanno convinto gli elettori di destra, che si sono orientati verso idee più radicali e gaulliste.

L’affluenza di oggi ha testimoniato l’importanza data dai francesi a queste primarie, le prime organizzate nella storia della destra e considerate da molti come uno dei principali test in vista delle prossime presidenziali, previste tra maggio e aprile del prossimo anno. Alle 17h00 avevano già votato 2,9 milioni di persone, una mobilitazione leggermente maggiore rispetto a quella del primo turno, che alla stessa ora aveva registrato 2,8 milioni di elettori.

La candidatura di Fillon all’Eliseo costringerà i suoi avversari a ridisegnare le strategie preparate in questi ultimi mesi. L’uscita di scena di Sarkozy e Juppé ha stravolto tutti i piani, costringendo analisti e osservatori a disegnare nuovi scenari politici.

Nonostante un programma centrato su misure fortemente liberali nel campo del lavoro e dell’industria (taglio di 500mila posti di funzionari pubblici, abolizione delle 35 ore e riduzione di 110 miliardi sulla spesa pubblica) , Fillon si posiziona in diretta concorrenza con il Front National di Marine Le Pen grazie ad una serie di proposte sociali di stampo conservatore e nazionalista. La presunta amicizia con il presidente russo Vladimir Putin, l’endorsement della Manif pour Tous, (movimento cattolico contrario ai matrimoni omosessuali), e le sue posizioni antiabortiste e ultracattoliche potrebbero attirare le simpatie dell’elettorato dell’estrema destra francese, livellando così lo svantaggio che i Républicains avrebbero nei confronti del partito lepenista.

Uno scenario, questo, totalmente smentito dai vertici del Front National, che non hanno perso tempo nel prendere le distanze dal candidato repubblicano, attaccandolo sulle sue proposte economiche. Secondo il vice presidente, Florian Philippot, i progetti presentati da Fillon conterrebbero alcune idee di una “violenza inaudita”, dal carattere “ultra liberale” e “euro-liberale”. Il numero due del Front National ha poi definito la figura del candidato repubblicano come una “Tatcher con 30 anni di ritardo”.

Questa competizione tra destra ed estrema destra potrebbe andare a vantaggio del Partito Socialista, lacerato da una crisi interna che ne sta mettendo a repentaglio la stabilità.

In un’intervista rilasciata questa mattina a Le Journal de Dimanche, il Primo Ministro Manuel Valls non ha escluso una sua candidatura alle prossime primarie della sinistra, previste per il 22 e 29 gennaio. “Prenderò la mia decisione con coscienza” ha detto Valls, riconoscendo che “nelle ultime settimane il contesto è cambiato”. Parole, queste, pronunciate nell’attesa che anche François Hollande sciolga le riserve su una sua eventuale discesa in campo. Secondo indiscrezioni trapelate in questi giorni, la dirigenza del partito vedrebbe di buon occhio una candidatura del Primo Ministro, dato nei sondaggi al 65% contro Hollande, fermo al 23%.

Il tasso di impopolarità del Presidente è ai minimi storici, con solo il 4% dei francesi che giudicano positivamente il suo operato. Un record in negativo che prima di oggi nessun presidente della V° Repubblica aveva mai raggiunto. Ma senza il suo rivale storico, Nicolas Sarkozy, Hollande potrebbe tentare un ultimo, disperato, tentativo.

Contro le sue posizioni conservatrici, giudicate spesso reazionarie, la sinistra dovrebbe tornare sui suoi passi, rivedendo alcune decisioni prese durante quest’ultimo mandato, prima fra tutte la tanto contestata riforma del lavoro.
Per riuscire nell’impresa, l’intero partito socialista dovrà far fronte all’avanzata delle destre francesi in modo compatto e unito, un atteggiamento che per il momento sembra essere lontano dalla realtà.
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