Direzione Pd, la minoranza non ci sta: “Se è così si avvicina la scissione”. Pressing su Orlando per candidarsi contro Renzi

Alle 19,30, si materializza lo spettro della scissione. Roberto Speranza, seduto vicino a Davide Zoggia, sussurra: “Vedi, il re è nudo. Non hanno fatto votare il sostegno al governo fino al 2018, perché il congresso in tempi brevi gli serve per poi tirare giù il governo e andare al voto”. Il che, negli effetti, porta a una linea riassunta in una parola, che fa tremare le vene ai polsi, per chi è cresciuto col mito della disciplina di partito: scissione: “Se l’obiettivo – dichiara Speranza – è un congresso- lampo per poi andare a un voto-lampo, non c’è più il Pd, diventa il partito dell’avventura. Questo per noi crea un problema enorme. Non si capisce come si può andare al voto senza una legge elettorale che può garantire un minimo di governabilità”.

Il riferimento è all’ordine del giorno presentato dalla minoranza, non messo ai voti. E a quello su congresso subito, stravotato. Pare una questione procedurale, ma è sostanza politica. La proposta era: una conferenza programmatica, come aveva chiesto il ministro Orlando, poi un congresso a ottobre, dunque voto. Uno degli estensori del documento dice: “Si era aperta una trattativa e alcuni renziani erano anche d’accordo, ma Renzi e soprattutto Orfini l’hanno chiusa, e hanno optato sulla forzatura votando solo il loro ordine del giorno, così Renzi si tiene le mani libere sul governo”.

È il momento più teso del pomeriggio. Dalla sala qualcuno urla: “Votiamo per parti separate”. La forzatura suona anche come uno schiaffo al protagonista dell’unica, vera, mediazione alla luce del sole, come si sarebbe detto una volta. Appunto Andrea Orlando. Il quale, non a caso, alla fine non ha partecipato al voto. Nel suo intervento il guardasigilli aveva suggerito un percorso diverso, bacchettando al tempo stesso la minoranza per la “campagna di delegittimazione” quotidiana del segretario e Renzi perché “i caminetti sono iniziati perché manca una proposta politica forte”. E fare le primarie per legittimare il leader senza discutere in una conferenza programmatica di una piattaforma politica è come “fare le tagliatelle con una macchina da scrivere”.

“Andrea candidati”, “a questo punto è una via obbligata”. Il pressing sul guardasigilli parte dai suoi, che anche sul territorio danno segnali di insofferenza, come in Veneto dove i “turchi” e “sinistra” si sono riuniti. Per ora, Orlando ha declinato l’offerta, anche perché non è chiaro il dove candidarsi. Perché la scissione è un’ipotesi molto concreta. Anzi cresce. Perché dietro il dibattito, criptico, sul congresso c’è tutto il tema del voto, in tutte le sue sfumature. Che vanno dalla “responsabilità verso il paese” alla formazione delle liste. Detto in termini prosaici, la sinistra non condivide l’accelerazione sul governo, che in altri tempi si sarebbe chiamata la linea della “crisi e dell’avventura” e al tempo stesso non si fida di Renzi: “Lui – dicono – vuole una rilegittimazione, per avere le mani libere sul voto e farsi le liste come vuole lui e nelle liste fare l’epurazione”. In questo quadro, se di qui a domenica non ci saranno novità, meglio non partecipare al congresso. Michele Emiliano, e non solo lui, sabato aveva già avuto l’idea di non partecipare alla direzione, prevedendo come sarebbe andata. “Non diamogli alibi” gli hanno detto gli altri.

Con l’ordine del giorno si ripresenta il convitato di pietra, il governo e il voto anticipato. Argomento sul quale provano a “stanare” Renzi sia Bersani sia Roberto Speranza, dopo che l’ex premier non aveva chiarito la mission del governo né il percorso sulla legge elettorale: “La prima cosa che dobbiamo dire – scandisce Bersani – è quando si vota. Non possiamo lasciare un punto interrogativo sulle sorti del nostro governo. Io propongo che noi non solo diciamo, ma garantiamo all’Europa, ai mercati agli italiani, la conclusione normale e ordinata della legislatura”.

L’intervento dell’ex segretario ha un grande valore simbolico. E prepara la grande rottura perché – questo è il ragionamento – “se esce lui, non si può dire che se ne vanno quattro gatti, ma non c’è più il Pd”. Negli ultimi giorni ci sono stati contatti anche con Pisapia. Solo la disponibilità di Orlando, di qui a domenica, potrebbe cambiare lo schema. E il terreno su cui in parecchi cercano di convincerlo è il governo: “Se Renzi forza sul governo come evidente, si rende protagonista della crisi istituzionale e tu ti devi intestare la linea della responsabilità”.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Il peso delle discordie Pd sulle consultazioni di Mattarella. Nella macchina delle correnti, pressing su Renzi, Franceschini in movimento

Al Quirinale confidano che entro domenica le consultazioni possano diradare le nebbie nel campo renziano, a partire dallo stesso premier. E che non sarà necessario un secondo giro. Sarebbe auspicabile, perché in tal modo l’Italia avrebbe un governo nel pieno delle sue funzioni che la rappresenti al Consiglio europeo del 15 dicembre.

Le nebbie sono quelle che avvolgono il campo del Pd. Perché le pressioni su Matteo Renzi, affinché resti a palazzo Chigi, sono forti tra i suoi. E perché la macchina infernale delle correnti si è messa in moto. E c’è un motivo se Dario Franceschini ha risposto a parecchie telefonate con una battuta sarcastica: “Non posso parlare, sono ad Arcore a chiudere l’accordo con Silvio…”. La battuta rivela un certo fastidio per la ridda di voci sui sospetti del premier in relazione alla sue presunte trame per approdare a palazzo Chigi.

Voci che rivelano ansie, paure, sospetti nel giglio magico. “Non puoi lasciare”, “se molli a palazzo Chigi non torni più”, “se indichi un altro, poi non lo controlli”: frasi come queste Renzi le ha ascoltate decine di volte in questi giorni, da parte dei uomini più fidati. Alcune volte sono sembrate consigli strategici lucidi, altre spie dell’incertezza da perdita del potere, altre ancora preoccupazioni per i destini personali, a tutti i livelli, anche di staff e collaboratori costretti a lasciare le stanze vellutate del governo per tornare (forse) in quelle austere e poco sfarzose del Nazareno.

Nell’ultimo colloquio al Colle è sembrato che il premier pensi, però, che rimanere equivarrebbe a perdere la faccia e a dare l’impressione di essere attaccato alla poltrona, dopo l’annuncio urbi et orbi del “me ne vado, perché diverso dagli altri”. Il me ne vado però non è accompagnato da una indicazione su quel “percorso ordinato” che ha in mente il capo dello Stato e condiviso, nel primo giorno delle consultazioni, dai presidenti delle due Camere, Boldrini e Grasso, e dal presidente emerito Giorgio Napolitano: consentire la nascita di un nuovo governo che duri tutto il tempo necessario ad approvare una nuova legge elettorale, mettere in sicurezza i conti e le banche, non far sfigurare l’Italia al G7 che si svolgerà a maggio in Sicilia.

Un “percorso ordinato” che il capo dello Stato vuole avviare con consultazioni ordinate. Per questo si confida molto, tra le alte cariche, che questo fine settimana aiuti a ritrovare serenità. E porti sabato la delegazione del Pd a collaborare al percorso. E non a iniziare un gioco teso a far fallire questa o quella possibilità di arrivare a un governo, per accusare le altre forze politiche di irresponsabilità e tornare alla casella iniziale, cioè che si vada avanti con questa maggioranza – che non è mai stata sfiduciata – e con Renzi. Un (ex) ministro del Pd che ha consuetudine con ambienti del Quirinale spiega: “Il punto è che Renzi, di qui a sabato, è davanti a una scelta. Il Quirinale ha fatto capire che serve un governo per mettere mano alla legge elettorale. E gli ha fatto capire la sostanza della questione: se vuoi una soluzione faccelo sapere. Può rimanere lui, può indicare un altro. Di fatto stiamo parlando di un governo fino a primavera. Se vuoi lo sfascio te ne assumi la responsabilità. E confida che questi due giorni facciano maturare una consapevolezza”.

L’importante, al Colle, sono consultazioni ordinate per un governo ordinato. Nel disordine del Pd, per tutto il giorno, dal campo renziano è filtrato il nome di Paolo Gentiloni, la best option del giglio magico dopo Renzi perché “è uno dei nostri”. E la sua presenza assicurerebbe un minimo di continuità a palazzo Chigi. Della continuità farebbe parte anche la permanenza di Luca Lotti, nel ruolo di sottosegretario. Postazione strategica, perché nel 2017 ci sono in agenda nomine che rappresentano il cemento di qualunque governo. Già si parla, per i primi mesi del prossimo anno, di un cambio dei vertici Rai e del direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via. E poi in primavera si passa ad Enel, Eni, Poste, Finmeccanica, Terna e tanti altri consigli di amministrazione. Le vecchie volpi del Palazzo però scommettono che, in questo quadro, “se indichi uno del Pd, in questo quadro di scontro interno, la quadra non la trovi, anzi aumenti la balcanizzazione del Pd”. Mentre Grasso e Padoan garantirebbero un clima più sereno, consentendo lo svolgimento del congresso del Pd nelle forme e nei modi opportuni, non sulla pelle del governo e del paese.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost