E Renzi e Mattarella vanno in rotta di collisione: il Colle frena sul voto, il premier non gradisce

La vera novità arriva a due giorni dal voto referendario che ha bocciato la riforma costituzionale Boschi, alla vigilia della direzione nazionale del Pd e della ufficializzazione delle dimissioni di Matteo Renzi dal governo. Ed è questa: Sergio Mattarella e Matteo Renzi entrano in rotta di collisione. Diretta: prima vera crepa tra il rottamatore e il presidente. La tensione è palpabile tra Palazzo Chigi e Quirinale, a sera.

Al termine cioè di una giornata di contatti tra il Colle e i propri interlocutori diretti nei gruppi parlamentari del Pd, a cominciare dal ministro Dario Franceschini. Obiettivo: frenare l’ansia di Renzi di tornare al voto al più presto possibile, tirarlo via dal treno ad alta velocità che ha preso subito dopo la sconfitta e farlo salire su un convoglio intercity che gestisca tutto in maniera ordinata. O almeno farci salire il grosso dei gruppi parlamentari e della direzione Pd. E’ per questo che a metà pomeriggio il capo dello Stato fa sapere a chiare lettere che lui è contrario alle elezioni immediate, pensa che vada formato un governo solido e che sia necessario mettere mano alla legge elettorale. Per garantire la formazione di un esecutivo dopo le elezioni. E per evitare salti nel buio. Da Palazzo Chigi, Renzi la prende come un pugno sui denti.

Ma andiamo con ordine. Già ieri sera, quando negli studi di ‘Porta a Porta’ il ministro dell’Interno Angelino Alfano scommette sulle elezioni a febbraio, al Colle i conti cominciano a sballarsi. Al fianco di Alfano, il capogruppo Dem alla Camera Ettore Rosato pure accompagnava il ritornello del voto subito. E qui qualcosa ha cominciato a non tornare anche in casa Franceschini, visto che Rosato è esponente di Areadem, uomo vicino al ministro dei Beni Culturali ma in tv ha fatto il renziano doc. Come se la sconfitta di domenica non ci fosse stata. Qualcuno nel Pd racconta che è stato il ministro stesso a fargli una sfuriata al telefono per riportarlo sulla ‘retta via’. Fatto sta che oggi la linea del Pd è cambiata. Non più voto subito, come dicevano i falchi renziani ieri. Bensì: governo istituzionale sostenuto da tutti, non solo dal Pd e comunque non dalla maggioranza dell’attuale governo dimissionario. Cosa è successo?

Quella del “governo istituzionale sostenuto da tutti” è la carta che Renzi si giocherà in direzione domani. E’ il suo contrattacco alla mossa di accerchiamento apparecchiata da Franceschini, il ministro Orlando, ma anche Delrio: tutti con l’appoggio di Mattarella. Accerchiamento per frenarlo dalla smania di elezioni. Pare che qualcuno volesse addirittura raccogliere le firme per mostrare al segretario, nero su bianco, che non avrebbe avuto la maggioranza in direzione se avesse forzato. Ma forse non è stato necessario. Con gran parte dei leader di maggioranza schierati con la minoranza bersaniana che ha votato no (“Sconsiglio di sfidare il paese…”, dice Pier Luigi Bersani), Renzi ha capito che era il caso di cambiare tattica. E’ la prima volta che è costretto a farlo da quando è segretario del Pd. Anche questa è una novità che fa il paio con la tensione con Mattarella.

E’ a questo punto che nasce la contromossa. Alle consultazioni dei partiti con il capo dello Stato per la formazione di un nuovo governo, che presumibilmente inizieranno giovedì, “il Pd proporrà la formazione di un esecutivo istituzionale sostenuto da tutti”. Questo dirà Renzi in direzione. Non parlerà di voto immediato. “Poi, se la maggioranza delle forze politiche si assesteranno sulla linea del voto, il Pd non ha paura delle elezioni”, dice oggi anche Rosato. Ma la vera scommessa del premier è un’altra. E’ che questo governo non nascerà. Non ci sono all’orizzonte forze di opposizione che si prestino al gioco. E per ora sembrerebbe che Renzi non abbia torto.

Nota la contrarietà del M5s e Lega a dare sostegno ai “governicchi”, il primo indiziato sarebbe Silvio Berlusconi. Ma, da quanto trapela dal pranzo dell’ex Cavaliere con i suoi oggi ad Arcore, la disponibilità di Forza Italia a sostenere un governo istituzionale non c’è. C’è quella a sedersi al tavolo della nuova legge elettorale. Insomma l’ex premier vuole vedere le carte. E Renzi vede la partita ancora aperta. La sua nuova e pericolosa partita col Pd e con il Colle.

“Mica possiamo assumercela solo e sempre noi la responsabilità. Se la devono assumere anche gli altri”, dice in Transatlantico la fedelissima renziana Alessia Morani. E’ il nuovo verbo del premier, fedele alla linea che ha voluto dettare la sera della sconfitta: “Oneri e onori dei vincitori: spetta a loro trovare una nuova legge elettorale…”. Proprio questa drammatizzazione non è piaciuta al Colle. Questo modo tutto renziano di saltare alle conclusioni, tra annunci di dimissioni e voglia di voto immediato. Basta: hanno cominciato a dirgli anche dal Pd, da Franceschini a Orlando. Ora questa accelerazione va gestita: frenando con prudenza, dicono dal Quirinale.

L’udienza della Corte Costituzionale sui ricorsi sull’Italicum fissata al 24 gennaio è già un poderoso freno: è un’udienza, non una sentenza. Potrebbe non sciogliere il nodo su cosa non va della legge elettorale a livello costituzionale. E questo inevitabilmente allunga i tempi del voto, a meno che il Parlamento non decida prima. Improbabile.

Ma oltre a scommettere che il governo istituzionale non nascerà, della serie ‘non esistono altri governi al di fuori di me’, Renzi fa anche un altro tipo di ragionamento. “Loro non capiscono cos’è il consenso”, dice uno dei suoi commentando le indiscrezioni del Colle. “Il paese vuole andare a votare”. E in questo schema, è la convinzione, Renzi si posiziona dalla parte ‘giusta’, con Grillo, Salvini e tutti coloro che chiedono elezioni al più presto. Mentre chi frena sul voto si mette “dalla parte dei parlamentari che vogliono aspettare di maturare la pensione a ottobre prima dello scioglimento delle Camere”, è l’altro pezzo di ragionamento. E ancora: “Hanno paura che Renzi li escluda dalle liste del prossimo parlamento”.

Attacchi che scommettono sull’impopolarità dei freni sul voto. Ma che svelano comunque un certo nervosismo, alla vigilia di una direzione Dem che si annuncia tesissima. Per la prima volta, Renzi non dà le carte. Almeno non tutte. E nel giro di 48 ore dal referendum che lo ha travolto, è costretto a inseguire e scommettere per sopravvivere come segretario del Pd.
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Referendum e maltempo. Renzi mette i piedi nel fango a Torino: annullata la tappa da segretario Pd, ci si presenta da premier

Non vengo per via del maltempo. Anzi no: vengo per via del maltempo. Piemonte e Liguria sono flagellati dai temporali e le esondazioni dei fiumi. Matteo Renzi rimodula la campagna elettorale per il referendum. Via i panni del segretario del Pd, quelli che ormai è solito indossare in quest’ultimo scorcio di volata elettorale verso il 4 dicembre. Renzi si ricala nella parte di premier: annulla l’iniziativa elettorale di stasera a Torino, la sposta a domenica ma a Torino ci andrà comunque. Domattina alle 8 sarà con il governatore Sergio Chiamparino alla sede della Protezione civile per verificare di persona la situazione di emergenza causata dalle pesanti piogge di queste ore.

Lontani i tempi in cui il premier non si presentava nei luoghi dei disastri, naturali o meno. “I politici non fanno passerelle”, disse a proposito dell’alluvione a Genova due anni fa. Non si presentò se non mesi dopo. Ha smesso a luglio scorso con il tragico incidente ferroviario in Puglia: si presentò subito sui luoghi del disastro. Per non parlare del terremoto di agosto e di quello autunnale nelle regioni del centro Italia: tempo di organizzare la trasferta e Renzi è lì dagli sfollati ancora sotto shock per le scosse.

Il terremoto non è molto presente nel dibattito pubblico di questi ultimi giorni. Non in quello del premier. Né in quello dei media, concentrati su altre emergenze. Oggi c’è quella del maltempo al nord. E dove c’è emergenza, ormai Renzi risponde. Da premier. E allora: rinviata a domenica l’iniziativa elettorale di stasera al Lingotto. E’ lui stesso ad annunciarlo su twitter:

Ma il premier domani sarà comunque a Torino. “Giornata di apprensione per le notizie che arrivano dal Piemonte. Domani sarò personalmente a Torino nella sede della Protezione Civile Regionale col presidente Chiamparino”, annuncia in un post su Facebook che gli serve per parlare della visita di oggi allo stabilimento Fiat di Cassino, a caccia del voto operaio con di fianco Sergio Marchionne.

Ma la visita a Torino non si conclude con la tappa alla Protezione civile. Anzi, questo è il fuori-programma dettato dal maltempo. A metà mattinata Renzi parteciperà all’inaugurazione dell’Anno accademico degli Istituti di formazione dell’Esercito (evento già previsto quando in agenda c’era solo il Lingotto di stasera). Proprio come ha fatto giorni fa a Roma, garantendo una irrituale presenza di premier all’inaugurazione dell’anno accademico della scuola della Guardia di finanza: di solito ci va solo il ministro dell’Economia.

Domani poi il giro al nord si conclude con Milano: ore 14, firma del Patto per la Lombardia con il governatore leghista Roberto Maroni. Tappa che per Renzi è un mega-spot in casa del No.

Il premier-segretario si è ormai buttato a capofitto in una campagna referendaria maniacale nella cura dei dettagli. Via le iniziative che possono risultare inopportune, anche se elettorali. Anzi proprio perché elettorali, come quella prevista stasera a Torino. Confermate invece quelle che servono a valorizzare la funzione di ‘premier che fa’ a dispetto di chi pensa solo a “lamentarsi, dire che va tutto male, criticare soltanto”, come scrive Renzi su Facebook.

I panni di segretario del Pd e quelli di presidente del Consiglio, indossati o dismessi a seconda dell’occasione, garantiscono un giochetto che continua a guardare fisso al 4 dicembre. Puntato nella stessa direzione di tutti gli altri riflettori mediatici anche internazionali. Anche quello dell’Economist, per dire, che oggi si schiera con il no e benedice un governo tecnico in caso di sconfitta di Renzi. Il premier lo valuta come un aiuto: si dimostra che le elite finanziarie non stanno con il sì, spiegano i suoi. Manca poco più di una settimana al giorno della verità.
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Matteo Renzi, visita alla Casa Bianca: premier “in the sky” grazie a Obama

“Guardatelo: è giovane, è bello, gli piace molto twittare”. Potrebbe bastare questa frase di Barack Obama per mandare Matteo Renzi letteralmente ‘in the sky’, in visibilio, tra nuvole sognanti di adorazione per gli Stati Uniti, “our best friend”, dice il premier italiano dalla South Lawn della Casa Bianca. E invece Obama va oltre. Il suo è più di un endorsement, va oltre la scelta pure altamente simbolica di dedicare all’Italia l’ultimo bilaterale della sua presidenza. Obama sbandiera il suo “tifo per Renzi” al referendum di dicembre, gli consiglia pubblicamente di “restare in politica a prescindere dal risultato”, si schiera con lui su flessibilità e migranti. Lo usa per la sua battaglia contro l’austerity di Berlino. Si schiera con lui contro un’Europa che proprio in queste ore alza il sopracciglio sulla legge di stabilità italiana e resta immobile sulla crisi dei profughi, lasciando Italia da sola. Per Renzi è il massimo, the best: nel cuore la speranza che l’assist di Obama gli porti bene, meglio che a David Cameron, costretto a dimettersi dopo la sconfitta su Brexit.

Tappeti rossi e quasi un’intera giornata insieme, due ore interminabili di conferenza stampa e una cena a base di agnolotti in tutta convivialità alla Casa Bianca: Barack e Michelle, Matteo e Agnese e le eccellenze italiane da Roberto Benigni e la moglie Nicoletta Braschi alla campionessa paralimpica Bebe Vio. “Sono particolarmente grato per la partnership con il mio buon amico Matteo Renzi”, esordisce Obama già prima del bilaterale. Il premier italiano “ha lanciato una visione di progresso che non affonda le sue radici nelle paure della gente ma nelle loro speranze. Sa che come nazioni e come individui abbiamo il potere di raggiungere grande cambiamento, in Italia sta sfidando lo status quo con coraggiose riforme”. “La nostra missione è “di seguir virtute e canoscenza”: Renzi risponde citando Dante, Benigni ne è contento, il premier pensa già a come sfruttare il prezioso assist a stelle e strisce dopodomani a Bruxelles, al Consiglio europeo.

Parlano la stessa lingua. Obama tenta l’italiano all’inizio, “buongiorno”. Renzi sfoggia il suo inglese imperfetto. Ma è solo una questione di idiomi. Il presidente uscente si spende per l’amico italiano come mai prima. “Le riforme lanciate da Renzi, soprattutto in campo economico, sono quelle giuste”, “Il sì al referendum aiuta l’Italia”. Renzi ironizza, pensando a Cameron e incrociando le dita: “Il 2016 finora non è stato un anno eccezionale per organizzare i referendum ma penso che quello italiano sia un messaggio molto semplice contro la burocrazia: se a dicembre vinceremo, le cose in Italia saranno più semplici e l’Italia sarà un paese più forte in Europa”.

Per Obama, Renzi è l’antidoto ai populismi in Europa, Renzi va soccorso nella battaglia contro l’austerity e nella crisi dei migranti, Renzi è un prezioso alleato contro l’Isis in Iraq, nell’offensiva di Mosul dove gli italiani sono impegnati a tutela della locale diga, e per la stabilizzazione della Libia. Simply the best. Anche se non è ancora perfezionata l’alleanza in funzione anti-Russia, unico argomento sul quale Renzi non si sbilancia in conferenza stampa, stretto com’è tra il fortissimo e storico asse con Washington e i legami che pure ci sono con Mosca (Roma è contraria alle nuove sanzioni verso la Russia, così come per le vecchie). Invece Obama cita eccome la Russia che “viola i principi di democrazia, libertà, integrità territoriale”, attacca Trump e i repubblicani che “hanno sempre criticato il nostro dialogo con Mosca e ora sostengono un candidato che continua a lodare Putin in un modo che non ha precedenti nella politica americana”.

Domani Vladimir Putin sarà a Berlino, ospite di Angela Merkel. Ed è proprio la Cancelliera che Obama chiama in causa quando si schiera con Renzi sul no all’austerity. “Diverse volte ho parlato con Merkel e Hollande sui modi per risolvere le crisi del 2008”, premette Obama senza timore di scomodare gli ‘avversari’ europei. “In questi anni negli Stati Uniti abbiamo fatto sgravi fiscali, salvato industrie, creato occupazione, reso le banche più trasparenti e abbiamo attratto investimenti. Non mi aspetto che quello che abbiamo fatto negli Usa venga trasferito in Europa. Ma so per certo che c’è una crescita molto lenta in Europa e che i giovani non entrano nel mercato del lavoro. Ora c’è anche maggiore fiducia nelle finanze pubbliche ed è il momento giusto per concentrarsi sulla crescita e fare investimenti. Draghi ha fatto molto per mantenere una traiettoria positiva in Europa ma da sola la politica monetaria della Bce non basta. Renzi ha fatto molto in termini di progressi reali, c’è più fiducia da parte dei mercati. E credo ci sia una connessione fra la stagnazione e gli impulsi populisti che sanno crescendo in Europa”.

Usando Renzi, Obama si toglie i sassolini dalle scarpe nei confronti di un’Europa che di fatto gli ha bloccato la firma del Ttip, il trattato commerciale con gli Stati Uniti. O che almeno non è stata capace di arginare la contrarietà di Francois Hollande. Renzi invece è stato sempre a favore ed è lì alla Casa Bianca per dirgli che non ha mai cambiato idea su questo. Ne parlano nel bilaterale nello Studio Ovale, dove parlano di Iraq e Libia. Ma a favore dell’amico italiano, ancora una volta Obama va oltre: sull’immigrazione.

“L’Europa deve essere in grado di risolvere questo problema e non lasciare uno Stato a risolvere il problema da solo. Noi siamo una federazione, è vero, ma mai lasceremmo uno Stato a risolvere il problema da solo e buona fortuna”. Dall’altro lato, Renzi ricorda il ‘migration compact’ italiano, finora mai applicato dall’Ue fino a scatenare lo strappo di Bratislava. “La questione Africa è stata abbandonata dall’Ue negli ultimi decenni – dice – Dobbiamo lavorare come la Commissione aveva immaginato pur senza la necessaria velocità. Ma prima di chiedere aiuto agli Usa bisogna che l’Ue faccia la sua parte. Non possiamo pensare di farci carico da soli dei problemi in Libia e Africa e giovedì al Consiglio europeo porremo la questione”.

Prima di ripartire, domani a Washington Renzi riuscirà a incontrare a pranzo lo staff della candidata Democratica alla Casa Bianca Hillary Clinton per preparare il terreno delle alleanze future dopo Obama. Giovedì sarà a Bruxelles, curioso di vedere la reazione degli altri partner europei rispetto a questo asse italo-americano: così intenso da risultare inedito.
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