Papa Francesco e Xi Jinping, prove di convergenze parallele fra i due “eserciti popolari” più numerosi del pianeta

Alla fine il Vaticano, per i cinesi, potrebbe costare meno, e contare di più, del Milan e dell’Inter, di Matt Damon e “The Great Wall”, il kolossal cinematografico sulla Grande Muraglia.Nella gigantesca e dispendiosa operazione “simpatia” che il governo di Pechino ha messo in campo world-wide, dal football ai blockbuster, per colmare il proprio deficit di soft power, la Chiesa e il Papa rivestono un ruolo strategico e più economico, rispetto agli altri asset. Nella “lunga marcia” che ha per meta i luoghi centrali e i protagonisti apicali dell’immaginario, Roma e il romano Pontefice si collocano ai vertici della hit: target imprescindibile per chi ambisce a sviluppare un modello di egemonia culturale alternativo al Washington consensus. Unico brand che la “fabbrica del mondo” nei distretti tuttofare dal Guangdong a Shanghai non saprebbe produrre in proprio.

È questo il movente di fondo, il tapis roulant geopolitico che spinge lentamente quanto inesorabilmente a un’intesa tra il Celeste Impero e il successore di Pietro, deponendo il “fardello della storia” – espressione del Cardinale Parolin in un colloquio con il Wall Street Journal – e superando l’anacronistico diaframma che inficia il profilo di entrambi, rendendolo di fatto incompiuto.

Già, incompiuto. Poiché un cattolicesimo senza Cina, nel XXI secolo, rimarrà pure sinonimo di “universalità” – dal greco kat’olón -, ma non potrà definirsi “globalizzato”. Così come la Cina, con la sua poderosa spinta globalizzante, non può dirsi e costituire un simbolo “universale”, se sbarra le frontiere al cattolicesimo.

“Convergenze parallele” – le chiameremmo in Italia -, che hanno portato il segretario di Stato Vaticano e il presidente cinese Xi Jinping a difendere in simultanea, nel World Economic Forum di Davos, il dogma della globalizzazione, mentre Donald Trump, da Washington, lo demoliva nel discorso d’insediamento: congiuntura di eventi che annuncia e prepara un clamoroso rovescio di alleanze.

Questione di numeri: un miliardo e trecento milioni di cinesi versus un miliardo e trecento milioni di cattolici. Stessa profetica cifra. Due “eserciti popolari” fedeli e indottrinati. Agli ordini di un solo capo, circondato da una corte di mandarini, da un lato, e di porpore, dall’altro. Equazione che spiega in sintesi meglio di qualunque analisi perché Pechino non può fare a meno del Papa eppure ne ha paura. Si somigliano, si ammirano, si temono. Globalismo sinico e universalismo romano, quindi. Due dimensioni troppo complementari per non attrarsi a vicenda, sul piano della reciproca convenienza, e al tempo stesso non respingersi, nella cronica diffidenza di un negoziato interminabile. Ma non impossibile.

Demograficamente in equilibrio e diplomaticamente in stallo, la trattativa tra il Vaticano e Pechino procede alla stregua delle “ombre cinesi”, confondendo gli osservatori e nascondendo gli attori. Falsando la prospettiva e ingigantendo i problemi. Non sappiamo di conseguenza quanto durerà l’attuale impasse sulla procedura di nomina dei vescovi, che non va tuttavia considerata un rebus irrisolvibile, sottovalutando l’evoluzione del quadro politico. Anzi, se il meccanismo si è inceppato, questo si deve forse a un effetto stretch-back, cioè al tentativo di forzare i tempi e accelerare il rush finale, a rischio di scivolare sul filo d’arrivo: tentazione ricorrente in prossimità dei traguardi storici. “C’è bisogno di pazienza e perseveranza. E ci vorrà un lungo cammino, poiché abbiamo dietro di noi una storia molto, molto difficile”, ha chiosato Parolin con allusione all’ultimo stop.

L’incidente di percorso è noto: mentre a Roma si vagheggiava di accendere i fuochi d’artificio – altra specialità orientale – e bruciare le tappe, chiudendo la Porta Santa del Giubileo e aprendo i battenti della Città Proibita, Pechino bagnava le polveri e spegneva l’entusiasmo. Imponendo ed esibendo sull’altare, tra novembre e dicembre 2016, durante i riti di ordinazione di due nuovi presuli, la presenza del vescovo Paolo Lei Shiyin, eletto e consacrato senza l’input papale. Ergo scomunicato. Un sasso nell’ingranaggio binario e bonario, che aveva indotto Cina e Santa Sede a ritrovarsi ormai con tacito accordo sui medesimi nominativi. Mossa provocatoria, quindi. Ma non contraddittoria e neppure velleitaria. Messa lì volutamente a sottolineare un messaggio chiaro.

L’anomalia cinese, che nega il diritto del Pontefice – riconosciutogli pressoché in tutti gli Stati – di scegliere i vescovi in via esclusiva, si spiega infatti con il riflesso istintivo, a pelle, di un vulnus atavico. Una ferita che la Repubblica Popolare, ad onta dei suoi successi planetari, non riesce a cicatrizzare: quella dei “trattati ineguali”, cioè l’amputazione di sovranità che la Cina dovette subire nell’Ottocento, in un frangente di arretratezza tecnologica e debolezza istituzionale, cedendo alle potenze occidentali, e alle missioni cristiane, una serie di giurisdizioni speciali e zone franche, allora percepite come avamposti di colonizzazione culturale. Tutte le rivoluzioni cinesi del Novecento, al netto della loro bruta discontinuità tra collettivismo e capitalismo, e di un tributo altissimo di vite umane, dal “grande balzo in avanti” di Mao Zedong al tragico salto indietro di Piazza Tienanmen, si devono leggere in chiave unitaria come una sequenza ininterrotta di terapie d’urto, di elettroshock ideologici e politici per sollevare il gigante caduto e prevenire nuovi affronti all’indipendenza della nazione.

“Ci sono due chiese”, ha sintetizzato Parolin. Quella “ufficiale”, che ha “il problema della comunione con la Santa Sede”. E quella “cosiddetta sotterranea”, che ha invece “il problema del riconoscimento” da parte delle autorità. Stando così le cose, la soluzione potrà discendere solo da una “sanatoria” urbanistica, dove Roma legittima in blocco l’edificio gerarchico abusivo elevato in sessant’anni da Pechino e quest’ultima entra in società con il Pontefice, per così dire, lasciandogli l’imprimatur dottrinale, nonché disciplinare, ma continuando a esercitare l’imprinting sulla linea politica dei candidati all’episcopato.

Tra ombre cinesi e improvvisi annuvolamenti, gli ambasciatori di Francesco, il “Pontifex”, e i genieri del leader comunista, Xi Jinping, lavorano al progetto di un ponte a due corsie, parallele ma separate: riservate rispettivamente al Papa e al partito. A sopportare il peso del “trattato ineguale”, in tal caso, sarebbe principalmente la Santa Sede, invertendo le posizioni e i rapporti di forza di cent’anni or sono. Pareggiando i conti con la storia e regolarizzando, almeno in parte, un paesaggio ecclesiale imperniato su organismi altrove inesistenti, che fungono da longa manus del regime: l’Associazione Patriottica e il Consiglio dei Vescovi, emanazioni entrambe dell’Assemblea dei Rappresentanti Cattolici, ossia gli “stati generali” della chiesa in Cina, riuniti ogni cinque anni sotto l’egida dell’Amministrazione degli Affari Religiosi. Un convegno sui generis, all’incrocio tra dottrina e indottrinamento, giunto alla nona edizione e tenuto dal 27 al 29 dicembre in un hotel di Pechino, all’insegna dell’appeasement e senza il veto preventivo del Vaticano, a differenza del 2011.

Non è la prima volta che Francesco si mostra propenso a cedere spazi, pur di “avviare processi”, secondo il criterio cardine di tutta la sua geopolitica, teorizzato in Evangelii Gaudium, Magna Carta del pontificato: “il tempo è superiore allo spazio”. Un principio applicato a Cuba, l’inverno scorso, nell’incontro con il patriarca russo Kirill, sottoscrivendo una “Yalta” dell’ecumenismo e impegnandosi a non fare proseliti nelle altrui zone d’influenza: e nemmeno a promuovervi l’evangelizzazione. O in autunno a Lund, con i protestanti scandinavi, arrivando quasi a canonizzare Lutero e a celebrare come festa cattolica il mezzo millennio della Riforma.

Bergoglio del resto non ammira solo il passato ma il presente della Cina con le sue straordinarie performance economiche, in termini di “democrazia sostanziale”, rilevante ai suoi occhi non meno di quella formale. Il paradiso delle libertà marchiate Occidente può attendere, insomma, e affermarsi gradualmente con proprie caratteristiche made in China, se nel frattempo una leadership fa uscire dall’inferno dell’estrema povertà centinaia di milioni di uomini, adempiendo un ulteriore precetto della Evangelii Gaudium: “la realtà è più importante dell’idea”. Di rimando, anche Xi Jinping, al pari del padre della patria Sun Yat-sen, avverte il fascino modernizzatore, e moralizzatore, del cristianesimo: altrimenti non si comprende la recente, sorprendente dichiarazione del portavoce del Ministero degli Esteri, secondo cui la Chiesa cattolica deve svolgere il compito di evangelizzare la Cina: auspicio inconcepibile nel lessico politicamente corretto dell’Unione Europea.

Tutto muove perciò nella direzione, e accelerazione, del connubio tra i due globalismi. L’uno e l’altro sonoramente anticapitalisti, a parole, ma serenamente capitalisti, nelle opere: altra peculiarità che li accomuna. Come abbiamo già scritto su queste pagine, la normalizzazione dei rapporti con l’Impero di Mezzo sancirebbe il punto di arrivo, forse l’approdo esaustivo del pontificato, colmando il vuoto nella geografia della Chiesa e completando la biografia di Francesco, papa d’Occidente con un DNA d’Oriente, dove da giovane avrebbe voluto recarsi e trascorrere la vita, impedito per ragioni di salute dai superiori. Un traguardo emotivo e anagrafico che in questo 2017 diventa imperativo e geopolitico: la Cina configura infatti la posta in gioco e la risposta obbligata di Francesco a Trump, nel riposizionamento generale delle alleanze. Di qui l’augurio per l’inizio dell’anno lunare, che comincia il 28 gennaio, rivolto ai popoli d’Oriente dalla finestra dell’Angelus.

Se lo scontro fra globalizzazione e de-globalizzazione assurge a spartiacque dell’attuale passaggio storico, le ragioni che sollecitano la Cina e il Vaticano ad allearsi, superando le storiche divisioni, non sono meno suadenti, e vincolanti, di quelle che sul fronte opposto ispirano il riavvicinamento tra Russia e Stati Uniti. L’universalismo cattolico, che già con il magistero di Ratzinger ha indicato nella globalizzazione uno strumento “provvidenziale”, atto a realizzare l’unità del genere umano, può fornire al motore di Pechino l’additivo delle motivazioni spirituali, utili a non andare giù di giri, mentre ovunque si alzano muri. “Mandarini” e “porpore”, a ben guardare, rivelano singolari affinità non solo cromatiche. Un gusto agrodolce in cui prevalgono le asprezze, quando si coglie il frutto anzitempo. Ma che al momento giusto, quando viene la “pienezza dei tempi”, possiede i requisiti per esaltarsi. E confermare la bontà dell’innesto.

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Banche, l’agenzia Dbrs taglia il rating dell’Italia. Ora per gli istituti sarà più costoso chiedere soldi alla Bce

I nuovi guai per le banche italiane arrivano da Toronto e passano da una lettera, la A, che si è trasformata in una tripla B, conferita dall’agenzia canadese Dbrs al rating del debito pubblico italiano. Un declassamento che avrà un effetto immediato molto oneroso per gli istituti di credito dell’Italia: chiedere prestiti alla Banca centrale europea diventerà, infatti, più dispendioso.

L’Italia perde l’ultima A, pesano il No al referendum e l’addio di Renzi
Il rating del debito italiano è stato tagliato da A a BBB con trend stabile. Un giudizio, quello dell’agenzia canadese, che è dovuto a “una combinazione di fattori inclusa l’incertezza rispetto alla abilità politica di sostenere gli sforzi per riforme strutturali e la continua debolezza del sistema bancario, in un periodo di fragilità della crescita”. Cosa ha pesato nel giudizio? La vittoria del No al referendum costituzionale e la caduta del governo Renzi. “Dbrs – si legge in una nota – ritiene che, in seguito al referendum bocciato sulle modifiche costituzionali che avrebbe potuto fornire una maggiore stabilità di governo e la successiva dimissioni del primo ministro Renzi, il nuovo governo ad interim può avere meno spazio per passare ulteriori misure, limitando così il rialzo delle prospettive economiche”. Con il declassamento di Dbrs, l’Italia perde l’ultimo giudizio in area A espresso delle principali agenzie di rating mondiali.

Anche le debolezze del sistema bancario dietro la retrocessione in serie B
Nel giudizio di Dbrs pesa anche “la persistente debolezza del sistema bancario in un periodo di crescita fragile”. L’agenzia di rating accende un faro sul livello dei crediti deteriorati che rimane “molto elevato” tale da “compromettere la capacità del settore bancario di agire come intermediario finanziario per sostenere l’economia”. Pesano, inoltre, il rischio di elezioni anticipate e una crescita della produttività “fragile”.

Perché la A persa metterà le banche italiane in difficoltà
La Banca centrale europea concede prestiti di liquidità alle banche che ne fanno richiesta (e tra queste figurano anche quelle italiane) chiedendo tuttavia delle garanzie. Gli istituti italiani forniscono come garanzia, tra gli altri strumenti, anche i Bot e i Btp, cioè i titoli di Stato. C’è una trattenuta sul prestito e il valore di questa trattenuta, il cosiddetto haircut, dipende dal rating del Paese che emette i titoli di Stato. Basta una sola A tra le quattro agenzie di rating che l’Eurotower prende in considerazione (Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch e Dbrs) per applicare il minor taglio possibile sul prestito. Le altre tre agenzie avevano già declassato l’Italia in serie B: ora che anche l’agenzia di rating canadese ha trasformato la A in B, per le banche italiane il costo per chiedere soldi alla Bce in prestito aumenterà appunto in termini di garanzie.

Quanto costa alle banche perdere la A
Prendendo come riferimento uno studio di Rabobank, i prestiti che le banche italiane hanno chiesto alla Bce ammontano a un totale di 142 miliardi di euro. Per mantenere inalterato questo valore, le garanzie dovrebbero aumentare di circa 10 miliardi di euro. Dando in garanzia un Bot, ad esempio, in caso di scenario con rating A, la Bce trattiene solo lo 0,5 per cento, mentre in uno scenario con rating B la quota sale al 6%. Ancora più oneroso il Btp: si passa da una trattenuta del 6% a una del 13 per cento.

Il Tesoro: Nessun impatto rilevante sul debito
Fonti del Tesoro sottolineano che la decisione di Dbrs “non avrà impatti rilevanti sulla spesa per interessi sul debito pubblico”. “Potrebbero esserci degli effetti sui titoli più a breve, ma si potrà dire soltanto nei prossimi mesi”, aggiungono le stesse fonti.

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Istat: disoccupazione giovanile record a novembre (39,4%), sale anche quella generale. Più lavoro solo per gli over 50

A novembre il tasso di disoccupazione giovanile sale al 39,4%, in aumento di 1,8 punti percentuali rispetto al mese precedente, toccando così il livello più alto a partire da ottobre 2015. Lo rileva l’Istat nell’analisi della fascia di età tra 15 e 24 anni. Il tasso di occupazione giovanile diminuisce di 0,1 punti percentuali, mentre quello di inattività – che include anche le persone impegnate negli studi – cala di 0,6 punti.

In termini generali, nel mese di novembre il tasso di disoccupazione torna a salire nonostante una crescita dell’occupazione (+0,1% rispetto a ottobre). La disoccupazione – spiega l’Istat – si attesta all’11,9% in aumento di 0,2 punti su base mensile e di 0,5 punti rispetto a novembre 2015, al livello più alto dopo giugno 2015. I disoccupati salgono a quota 3.089.000, in aumento di 57.000 su ottobre e di 165.000 su novembre 2015. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni a novembre calano di 93.000 unità su ottobre e di 469.000 su novembre 2015. Il tasso di inattività è ai minimi storici (34,8%).

Ciò malgrado il valore positivo dell’occupazione, con gli occupati che a novembre sono aumentati di 19.000 unità rispetto a ottobre (+0,1%) e di 201.000 unità su novembre 2015 (+0,9%). L’aumento – rileva l’Istituto nazionale di statistica – riguarda soprattutto le donne e le persone ultracinquantenni. Aumentano, in questo mese, gli indipendenti e i dipendenti permanenti, calano i lavoratori a termine. Il tasso di occupazione è pari al 57,3%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a ottobre. La crescita su base annua si concentra esclusivamente tra gli over 50 (+453.000).

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Il nuovo spot dell’Adidas in una casa di riposo insegna che la libertà è quello che abbiamo di più prezioso

Bastano un paio di scarpe per sentirsi veramente liberi. Partendo da questa semplice verità, il regista moldavo Eugen Merher ha creato un nuovo spot per la Adidas ambientandolo in una casa di riposo e facendo commuovere il mondo intero.

Il protagonista del video è un ex atleta, ormai costretto a soggiornare in una casa di riposo e a non poter mai uscire dalla struttura che lo ospita. Ritrovate per caso un paio di scarpe vecchie – di marca Adidas, ovviamente -, nasce di nuovo in lui la voglia di correre, di uscire da quella che percepisce come una prigione, di sentirsi finalmente libero.

L’uomo tenta allora più volte di fuggire, correndo, via di lì, ma il personale infermieristico dell’ospizio riesce a bloccarlo ogni volta prima di aver guadagnato la porta di uscita. Questo intristisce molto l’anziano, che si chiude nel mutismo e nella depressione, specie quando quella che sembra essere la direttrice della struttura gli toglie le sue adorate scarpe.

I suoi amici – anziani rinchiusi come lui – riescono però a “rubare” le Adidas dall’armadietto della donna, dando il coraggio all’ex atleta di provare un’ultima volta la sua fuga. Riuscendo a bloccare l’intervento degli infermieri, gli amici dell’uomo decretano il suo successo, in un finale che fa scendere più di qualche lacrima a chi guarda il video.

In realtà, il trionfo della libertà e della vita grazie a un paio di scarpe da ginnastica sembra non aver interessato molto l’Adidas, che non ha commissionato il girato, realizzato in autonomia dal giovanissimo Eugen, allievo della Filmacademy Baden-Wuerttemberg. “Abbiamo provato a spedire all’azienda il video, ma loro non hanno reagito” ha spiegato il regista in erba all’Huffington Post.

Evidentemente il brand tedesco non ha compreso l’importanza del cosiddetto storytelling dei valori, ormai in voga nel mondo del marketing e secondo cui raccontare i valori dell’azienda è ormai diventato il modo più efficace per fidelizzare i clienti. Non a caso, nelle ultime ore la Samsung ha portato avanti una operazione molto simile per il pubblico indiano, realizzando un spot con protagonisti dei non vedenti.

La viralità dello spot, tuttavia, potrebbe far cambiare idea alla Adidas.

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Grillo lancia ‘Comunarie’ a sorpresa. Tra i più votati c’è Forello di AddioPizzo, contro cui Nuti ha presentato un esposto

Ha approfittato della pausa natalizia per organizzare ‘Comunarie’ veloci. Una consultazione che potesse provocare il minor numero di polemiche e attirarsi addosso una bassa quantità di riflettori. Beppe Grillo ha indetto a sorpresa, sul suo blog, la votazione per scegliere i candidati del Movimento 5 Stelle alle amministrative di Palermo. Cioè nella città che più di ogni altra, al netto di Roma, è stata in questi mesi nell’occhio del ciclone mediatico e giudiziario per quanto riguarda i 5Stelle. La batosta relativa al caso delle presunte firme false, presentate alle amministrative del 2012, si è fatta sentire. Alla votazione hanno partecipato solo 524 iscritti.

I cinque che hanno ricevuto più voti e che accedono al secondo turno per la scelta del candidato sindaco sono Giulia Argiroffi, Giancarlo Caparrotta, Franca Tiziana Di Pasquale, Salvatore Forello e Igor Gelarda. Questi ultimi due, rispettivamente fondatore dell’associazione AddioPizzo e leader del sindacato Consap, già alla vigilia erano considerati i favoriti, suscitando le polemiche di chi li considera degli outsider dal momento che invece molti attivisti, che fanno capo ai deputati nazionali, sono stati esclusi poiché coinvolti nella vicenda delle firme false. Nei MeetUp di Palermo è in corso una guerra tra bande, come dimostra l’esposto spedito alla procura e all’ordine degli avvocati dai parlamentari Riccardo Nuti, Giulia Di Vita e Claudia Mannino per denunciare un presunto complotto ai loro danni. Complotto organizzato proprio dal fondatore di AddioPizzo.

Per tutte queste ragione e a causa di un clima rovente quelle che si sono concluse sono state delle primarie quasi sottotraccia. La lista dei candidati era visibile solo agli iscritti M5S residenti a Palermo, le comunicazioni di inizio voto – scriveva questa mattina La Repubblica Palermo – sono tardate ad arrivare e gli attivisti pensavano che le ‘Comunarie’ iniziassero la prossima settimana. Insomma, un voto a sorpresa tra Natale e Capodanno.

Alcuni dati la dicono lunga sul clima che si respira nel capoluogo siciliano. Su 122 candidati che si erano presentati ad agosto, prima dello scandalo relativo alle presunte firme false raccolte in occasione delle amministrative del 2012, in 43 hanno rinunciato alla corsa, alcuni per ragioni giudiziarie altri – secondo alcuni – per favorire Forello. Solo 79 sono stati gli aspiranti a un posto in lista. Per ragioni giudiziarie è rimasto fuori lo zoccolo duro del Movimento palermitano, coloro cioè che sono più vicini ai deputati nazionali. Si tratta di Samanta Busalacchi e Riccardo Ricciardi, che hanno ricevuto uno stop poiché coinvolti nell’inchiesta sulle firme false.

Da parte degli esclusi, nelle scorse settimane, sono arrivati attacchi feroci a Forello, tanto che lunedì sera la deputata Chiara Di Benedetto, vicina al gruppo che fa capo a Riccardo Nuti e dunque a Samanta Busalacchi e Riccardo Ricciardi, ha ipotizzato che a pilotare le rinunce alle ‘Comunarie’ fosse proprie lui. “Non mi stupirei affatto – ha scritto – se dietro a molti, non tutti, ritiri di candidatura, giustificati con i più nobili degli intenti e dei saldi principi etici e morali, si nasconda il più infimo progetto di boicottare scientemente le ‘comunarie’ online per poter, poco dopo, presentare una lista bella e pronta, probabilmente da mesi”. Una lista che, secondo l’accusa della deputata, “al proprio interno annovera tutti questi ‘duri e puri’ dell’ultimo minuto e, magari, con qualche professionista dell’antimafia come candidato a sindaco”. Ecco appunto le parole al vetriolo, condivise anche da Nuti e che raccontano un clima infuocato nella città che ad aprile, secondo gli auspici pentastellati di qualche mese fa, doveva lanciare la volata per conquistare a ottobre la presidenza della Regione. E invece il giorno dopo la festa nazionale che si è tenuta proprio a Palermo è scoppiato il caos giudiziario, secondo qualcuno pilotato proprio da quella fronda che avrebbe voluto far fuori Samanta Busalacchi e quindi i deputati nazionali.

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Morbillo, complicanze cerebrali più frequenti del previsto. In Italia la copertura vaccinale è ferma all’85 per cento

Le complicanze del morbillo – in primis le encefaliti, soprattutto nei bambini – sono meno rare di quanto si pensi. Motivo per cui il progressivo calo nelle coperture vaccinali, oltre a rappresentare un rischio per l’intera popolazione, espone la salute degli infetti a complicanze che non sono la regola, ma possono concretizzarsi con una probabilità maggiore rispetto a quella finora considerata. È questo il dato che emerge da una ricerca presentata nel corso dell’IDWeek 2016, l’appuntamento annuale che vede riunirsi gli esperti delle società americane di malattie infettive, pediatria ed epidemiologia.

PANENCEFALITE SUBACUTA SCLEROSANTE: DI COSA SI TRATTA? – I nuovi dati sono stati esposti dai ricercatori della dell’Università della California, in collaborazione con i colleghi dell’agenzia di sanità pubblica di Los Angeles. Gli scienziati hanno dimostrato che la panencefalite subacuta sclerosante – forma cronica di encefalite provocata dalla persistenza del virus del morbillo nel tessuto cerebrale – può emergere in un bambino su 1.387 contagiati entro i cinque anni. Ma il tasso è risultato più che raddoppiato (uno su 600) nei bambini colpiti dal virus nel primo anno di vita. Il dato è stato ricavato ricostruendo la storia clinica dei bambini colpiti dall’encefalite in California tra il 1998 e il 2016. Un’eventualità più frequente rispetto alle stime finora in vigore: un bimbo su 1.700, secondo un precedente studio tedesco. Da qui il suggerimento degli scienziati a «effettuare almeno due dosi di vaccino prima di portare un bambino in un Paese in cui il morbillo è endemico». La malattia è caratterizzata da febbre, tosse, occhi rossi, mal di gola e rash cutaneo.

I PIU’ A RISCHIO SONO I BAMBINI CON MENO DI UN ANNO –
In Italia tra il 2013 e il 2015 le coperture vaccinali sono scese dal 90,5 all’85,3 per cento. Una flessione che aveva determinato anche un richiamo ufficiale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo alcune stime della Società Italiana di Pediatria, con il crollo delle vaccinazioni sarebbero oltre seicentomila i bambini italiani (2-9 anni) esposti al morbillo. Ma anche adolescenti e giovani adulti possono essere esposti. Il morbillo è infatti estremamente contagioso e può causare gravi conseguenze anche nelle persone immunocompromesse. La vaccinazione è considerata indispensabile su larga scala perché garantisce l’immunità «di gregge», ovvero la protezione anche di una parte significativa della popolazione che non ha potuto effettuare la vaccinazione. Particolarmente vulnerabili sono i bambini con meno di un anno, che a causa della loro età non possono ricevere la vaccinazione trivalente (morbillo, parotite e rosolia). Il virus del morbillo può diffondersi a tutto il corpo e raggiungere pure il cervello, dove anche dopo anni dall’infezione è in grado di provocare l’encefalite. La panencefalite subacuta sclerosante, per cui non esiste una cura, risulta fatale in quasi la totalità dei casi.

VACCINAZIONE: QUANDO EFFETTUARLA? – L’unica forma di prevenzione consiste nella vaccinazione, per cui la prima dose è prevista tra il dodicesimo e il quindicesimo mese di vita. Prima, infatti, si considera che i bambini conservino una dose di anticorpi materni: motivo per cui anticipare il vaccino potrebbe ridurne l’efficacia. Oltre alla panencefalite subacuta sclerosante, un’altra complicanza insidiosa del morbillo è data dalla polmonite.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul sito della Fondazione Veronesi

Per approfondire vai su www.fondazioneveronesi.it


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Un preside inglese vieta di alzare la mano in classe: penalizza i più timidi o stimola la partecipazione?

Alzare la mano potrebbe non essere il metodo migliore per coinvolgere gli studenti: per questo, come scrive il Corriere della Sera, Barry Found, il preside della Samworth Church Academy School di Mansfield, ha vietato la prassi lunga decenni.

«Non ci sembra un modo soddisfacente per aiutare e incoraggiare tutti i ragazzi all’apprendimento», ha scritto in una lettera inviata ai genitore degli oltre mille studenti della scuola. Le mani si potranno alzare, ha spiegato, solo per imporre il silenzio. «Rispondere per alzata di mano – ha detto – è una pratica antiquata che non aiuta l’apprendimento degli studenti: le mani che si alzano sono sempre le stesse, studieremo altri metodi per dare l’opportunità a tutti gli studenti di contribuire alla lezione».

Ma cosa ne pensano gli studenti? In Italia, la notizia è stata accolta con reazioni ambivalenti. Eleonora Cavalieri, all’ultimo anno dei liceo Pasteur di Roma, sembra apprezzare:

«Beh, un po’ è vero, io sono una di quelle che ha sempre la mano alzata, fin dalla terza media, ma è un modo per essere più attivi in classe e magari per lanciare un dibattito coinvolgendo gli altri meno interessati». Però, sottolinea, «è vero anche che chi è più timido fa più fatica e allora, ad esempio, alla mia compagna di banco timidissima che risponde sempre sottovoce dico: dillo, parla, alza la mano!».

Raffaele Mantegazza, pedagogo che insegna all’università Bicocca di Milano, spiega che in realtà alzare la mano è educativo anche solo per l’atto in sé:

«Alzare la mano è un atto di responsabilizzazione, un modo per imparare a rispettare le regole, aspettare il proprio turno e poi parlare: già da piccoli ci si abitua ad esprimere un concetto davanti agli altri; poi nella vita ci saranno mille occasioni in cui si dovrà farlo».

Imporre una scelta del genere, però, può rivelarsi controproducente:

«Non si può ragionare in astratto, bisogna vedere che tipo di studenti si hanno davanti, devono essere gli insegnanti a capire come far intervenire tutti, questo abolizionismo mi lascia perplesso». Anche perché spesso chi non alza la mano magari non ha la risposta, non è interessato o semplicemente «non ha nulla da dire».

Discorso diverso si applica alle classi dei bambini più piccoli, invece, proprio per una questione educativa. Spiega Zina Cipriano, maestra alla scuola elementare Rosolino Pilo di Palermo che all’educazione dei più piccoli ha dedicato un intero blog, Youreducation.it. Alzare la mano, spiega la maestra:

«Serve per insegnare a non parlarsi uno sull’altro. Insegna il rispetto delle regole e i bambini ne hanno un gran bisogno abituati come sono a non averne». Però è vero che “ce ne sono alcuni davvero timidi che vanno spronati, altri più coraggiosi si buttano sempre: qui è importante il ruolo dell’insegnante, non si può vietare a priori. Lei nella sua classe utilizza anche il brain storming(…) «Rispetto a una volta, i bambini oggi parlano di più, hanno un gran bisogno di raccontarsi: credo che nelle loro case nessuno li ascolti».

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Legge di Bilancio ottiene la bollinatura della Ragioneria e va al Quirinale. Testo più asciutto, con 104 articoli

La legge di Bilancio, dopo la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato, è stata inviata al Quirinale. Il testo, che
l’ANSA è in grado di anticipare, è più asciutto passando, rispetto alle prime bozze circolate, da 122 a 104 articoli in tutto.

Cambia la clausola di salvaguardia. Il Governo prevede di incassare 1,6 miliardi dalla voluntary disclosure. Nel caso in cui non si centrasse l’obiettivo, si prevede che minori incassi vengano coperti con “riduzioni degli stanziamenti iscritti negli stati di previsione della spesa”, previo ok del Consiglio dei ministri entro il 31 agosto 2017. Non si fa più riferimento ad aumenti di accise. Se dalla compensazione derivassero “pregiudizi” al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica andranno prese iniziative legislative ad hoc entro il 30 settembre.

Fondo investimenti. Arriva un fondo unico per garantire il “finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese” con dotazione di 1,9 miliardi nel 2017 (3,15 nel 2018, 3,5 nel 2019 e 3 miliardi l’anno dal 2020 al 2032″. I settori di spesa, in cui andrà ripartito il fondo, vanno dalla viabilità al dissesto idrogeologico all’edilizia pubblica, scuole comprese, alla prevenzione del rischio sismico.

Più soldi per gli statali. Per il pubblico impiego sono complessivamente stanziati 1,92 miliardi di euro per il 2017 e 2,63 miliardi a decorrere dal 2018. Parte va al finanziamento del rinnovo del contratto, alle assunzioni in deroga al turnover e al riordino delle forze di polizia (incluso bonus 80 euro). Un’altra fetta è invece destinata all’aumento dell’organico della scuola. Le somme sono riviste al rialzo rispetto alle prime bozze, dove il plafond per la scuola non era menzionato.

Confermato il pacchetto pensioni. Si va dall’introduzione dell’Ape, l’anticipo pensionistico, all’Ape social per le categorie disagiate, all’aumento della quattordicesima per le pensioni minime, all’innalzamento della no tax area per i pensionati. Presenti anche le misure per i precoci e per i lavori usuranti, il cumulo dei diversi periodi contributivi, l’ottava salvaguardia per gli esodati.

Bonus Arriva il bonus mamme (800 euro ‘esentasse’) e il bonus di 1000 euro per pagare le rette dell’asilo.

Giù il Canone Rai. Nuovo calo del canone Rai che dai 100 euro del 2016 passerà a 90 euro nel 2017.

Asta su Superenalotto. L’articolo 73 della manovra prevede infatti la ‘gara’ sul Superenalotto e ne fissa le modalità. La durata della concessione sarà rinnovabile e la base d’asta è fissata a 100 milioni.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Pensioni, Giuliano Poletti annuncia: “la quattordicesima sarà maggiorata del 30% per gli assegni più bassi”

La quattordicesima sarà aumentata ai pensionati con gli assegni più bassi. Parola del ministro del Welfare, Giuliano Poletti, che in un’intervista al Corriere della Sera prova a quantificare gli intervisti concordati con i sindacati sulle pensioni.

“Per le persone che la prendono già, cioè quelle che hanno un importo di pensione fino a 1,5 volte il minimo (750 euro circa) l’incremento sarà intorno al 30%. Per chi ha una pensione tra 1,5 e 2 volte il minimo (750-1.000 euro circa) la quattordicesima sarà introdotta per la prima volta in una misura pari a quella finora erogata alla vecchia platea (da 336 a 504 euro in base ai contributi versati). Questo per evitare sperequazioni a favore delle pensioni più alte”.

Ne deriva che la vecchia quattordicesima arrivi a un massimo di 650 euro.

“Le cifre esatte saranno definite nella legge di Bilancio, ma l’ordine di grandezza è quello che le ho detto”.

Sul fronte lavoro, modifiche in arrivo per la decontribuzione sulle assunzioni. È “possibile” ad esempio, spiega Poletti, che riguardi solo gli under 35.

“Credo che lo sgravio 2017 verrà concesso secondo criteri selettivi volti a favorire l’occupazione giovanile e al Sud”.

Dinanzi al dato di oltre 107 mila italiani emigrati all’estero, un terzo dei quali di giovane età, si apre anche il tema dei salari.

“Il tema dei salari c’è. Bisogna aumentare il reddito dei lavoratori e il governo è impegnato a studiare un taglio strutturale del cuneo fiscale a partire dal 2018. Detto questo, credo che vada distinto chi liberamente sceglie di partire da chi è costretto a farlo perché non trova lavoro. E comunque, a fronte di centomila italiani che vanno all’estero ce ne sono milioni che restano da noi a studiare e lavorare. Non vorrei passasse l’idea che quelli che se ne vanno sono più bravi di quelli che restano”.

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Pensioni, Giuliano Poletti annuncia: “la quattordicesima sarà maggiorata del 30% per gli assegni più bassi”

La quattordicesima sarà aumentata ai pensionati con gli assegni più bassi. Parola del ministro del Welfare, Giuliano Poletti, che in un’intervista al Corriere della Sera prova a quantificare gli intervisti concordati con i sindacati sulle pensioni.

“Per le persone che la prendono già, cioè quelle che hanno un importo di pensione fino a 1,5 volte il minimo (750 euro circa) l’incremento sarà intorno al 30%. Per chi ha una pensione tra 1,5 e 2 volte il minimo (750-1.000 euro circa) la quattordicesima sarà introdotta per la prima volta in una misura pari a quella finora erogata alla vecchia platea (da 336 a 504 euro in base ai contributi versati). Questo per evitare sperequazioni a favore delle pensioni più alte”.

Ne deriva che la vecchia quattordicesima arrivi a un massimo di 650 euro.

“Le cifre esatte saranno definite nella legge di Bilancio, ma l’ordine di grandezza è quello che le ho detto”.

Sul fronte lavoro, modifiche in arrivo per la decontribuzione sulle assunzioni. È “possibile” ad esempio, spiega Poletti, che riguardi solo gli under 35.

“Credo che lo sgravio 2017 verrà concesso secondo criteri selettivi volti a favorire l’occupazione giovanile e al Sud”.

Dinanzi al dato di oltre 107 mila italiani emigrati all’estero, un terzo dei quali di giovane età, si apre anche il tema dei salari.

“Il tema dei salari c’è. Bisogna aumentare il reddito dei lavoratori e il governo è impegnato a studiare un taglio strutturale del cuneo fiscale a partire dal 2018. Detto questo, credo che vada distinto chi liberamente sceglie di partire da chi è costretto a farlo perché non trova lavoro. E comunque, a fronte di centomila italiani che vanno all’estero ce ne sono milioni che restano da noi a studiare e lavorare. Non vorrei passasse l’idea che quelli che se ne vanno sono più bravi di quelli che restano”.

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