“Campo progressista”, Giuliano Pisapia ha l’obiettivo di allargare il fronte del centrosinistra, con una spinta dal basso

Allargare. La parola d’ordine della convention nazionale di “Campo progressista” dice molto del progetto di Giuliano Pisapia. Sabato al Teatro Brancaccio “La prima cosa bella” il lancio ambizioso e impegnativo, in una fase così faticosa per la politica e per i partiti di centrosinistra. Motivo in più per dare il palco della convention principalmente ad esponenti della società civile che si alterneranno nella mattinata romana. Poi, certamente, ci saranno anche quei pezzi del ceto politico che hanno già dichiarato il loro interesse per il progetto, dal nuovo Movimento Democratico e Progressista alle esperienze civiche delle amministratori locali che si sono riconosciute nella rivoluzione arancione sperimentata con successo dalla giunta milanese.

L’idea è quella di far emergere “quella spinta dal basso” che secondo Pisapia servirà a ridare l’ossigeno a una politica che ha perso legami e connessioni con la vita quotidiana e i problemi dei cittadini. Naturalmente ci saranno anche i personaggi noti della vita politica e istituzionale: da Laura Boldrini a Pierluigi Bersani, da Gad Lerner fino ai diversi esponenti di fede prodiana che vedono nel Campo progressista un’opportunità di rinascita di un nuovo Ulivo. Ma a parte il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti che darà il suo saluto, le presenze note faranno un passo di lato con il preciso intento di non schiacciare “l’operazione Pisapia” nell’ennesimo movimento nato in laboratorio o calato dall’alto.

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campo progressita

Per ora le adesione arrivate da tutta Italia sono tantissime e per ora tutte le tappe toccate hanno fatto il pieno di attivisti e curiosi. Roma sarà però l’occasione per lanciare ufficialmente le “Officine delle idee”, vero cuore pulsante del Campo progressista, i luoghi dove nascerà il programma per governare l’Italia nel 2018. Non satellite di qualcos’altro dunque, dato che “il federatore” non vuole chiudere a nessuno. “Pisapia vuole parlare a tutto il popolo del Pd prima ancora che al partito”, dicono coloro che lo stanno affiancando in questa pre-partenza. Obiettivo ambizioso in tempi di scissioni e se ci sarà una legge elettorale proporzionale, si lavorerà comunque a un listone unico a sinistra, anche per riportare al voto molti elettori delusi.

Ma il desiderio mai nascosto è quello di un maggioritario in cui il nuovo centrosinistra troverebbe il suo terreno preferito e in quel caso in una coalizione ampia e plurale, la carta della leadership di Giuliano Pisapia sarebbe quella più spendibile. La concorrenza mediatica questo fine settimana sarà forte, solo il Lingotto di Matteo Renzi può bastare per rendersi conto. Sarà anche questa una sfida: a Roma chi vuole ricostruire il centrosinistra, a Torino una corrente maggioritaria del Pd.
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Campo Progressista, l’operazione Pisapia sbarca a Bologna

L’operazione Pisapia sbarca a Bologna. La “Coalizione Progressista”, l’idea di ricostruire una sinistra pronta ad allearsi con il Partito Democratico, lanciata nei giorni scorsi da Milano, prontamente contestata da Nichi Vendola e Stefano Fassina, prende forma nella città che diede i natali all’Ulivo vent’anni fa. A fare da Anfitrione, il sindaco di Bologna Virginio Merola. A dare il placet del Pd alle intenzioni di unità è l’uomo di Renzi Sandro Gozi, ex sottosegretario di Stato, oggi parlamentare, mentre in platea siedono un altro renziano di ferro, Ernesto Carbone, Monica Cirinnà e alcuni esponenti di Sinistra Italiana e della Cgil. Insomma, la nave di Pisapia, salpata i primi di dicembre e salutata con favore dal Pd continua la sua traversata accogliendo a bordo i primi cittadini d’Italia, come Massimo Zedda, sindaco di Cagliari, e Antonio Decaro che invia una nota da Bari, amministratori di regione come Luca Zingaretti e Fabrizio Barca, ex ministro per la coesione territoriale.

“Non saremo la stampella di nessuno, ma una casa comune che sia punto di riferimento per la sinistra”” esordisce Pisapia, sgombrando subito il campo. “Serve una discontinuità fondamentale rispetto al passato. Non vogliamo fondare un partito, ma ricreare una rete di realtà locali, amministratori, studenti, che parta dalla cultura, dalle realtà locali del territorio, ma che sappia che poi si deve decidere del futuro del Paese. E il Pd deve decidere se vuole guardare a destra o sinistra. Non è autosufficiente”. Niente correnti né ricandidature, dunque, ma la volontà di ricucire la tela strappata con il territorio ripartendo dalle esperienze locali positive, “perché quando ci siamo presentati con un centro sinistra unito e largo abbiamo sempre vinto, a Bologna,così come a Cagliari e Milano – aggiunge Gianni Cuperlo – Laddove eravamo spaccati abbiamo perso”. E continua: “Rispetto al modello Renzi serve un’alternativa: abbiamo bisogno di un congresso, non per una resa dei conti ma per fare una discussione seria che metta al centro la natura di questo partito, chi siamo e chi vogliamo rappresentare. Ed è molto importante che questo congresso si svolga prima delle elezioni politiche. Bisogna allargare il campo, ricostruire un centrosinistra più largo è la condizione per tornare a vincere”.

Delle divisioni che hanno lacerato dall’interno il Pd parla anche Gozi, che spezza una lancia a favore dell’ex premier e non risparmia una stoccata alla minoranza: ”Matteo Renzi ha dato una scossa al governo italiano rispetto all’operato dei governi tecnici. Ma a causa dello scontro interno e permanente il partito si è chiuso in se stesso ed è rimasto isolato. Non si è mai vista un’opposizione interna così accanitamente in movimento per distruggere il proprio partito”. In sala si leva qualche brusio, poi conclude: “Se all’interno e all’esterno del Pd cominceremo davvero a lavorare come una squadra porremo le condizioni per una alleanza di governo e per un nuovo campo democratico e progressista”. Levati gli ormeggi, la nave della sinistra prosegue col benestare del Pd renziano. Pisapia, comunque, assicura: “Non aspiro a ruoli istituzionali”.

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La resistenza di Matteo Renzi in direzione Pd: “Governo di tutti o voto”. E medita l’alleanza con Pisapia

“Se le altre forze politiche vogliono andare a votare subito dopo la sentenza della Consulta sulla legge elettorale, lo dicano chiaramente. Il Pd non ha paura della democrazia. Se invece vogliono un nuovo governo che affronti la legge elettorale e gli appuntamenti internazionali del 2017, il Pd si assume questa responsabilità, ma non può essere il solo. Abbiamo pagato già un prezzo per la responsabilità nazionale”. Canto del cigno o rilancio? Si vedrà. Matteo Renzi lascia la sua proposta sul tavolo della direzione del Pd e sale al Quirinale per dimettersi da premier. Un primo capitolo di questa crisi si chiude. Si apre quello incerto della nascita di un nuovo esecutivo e della certa resa dei conti nel Pd. “Il passaggio interno al partito sarà duro, ma prima viene la crisi di governo”, annuncia il segretario, col sorriso come lama tagliente nella sala gremita al Nazareno.

Il suo è l’inizio della resistenza dentro il partito che in questi giorni gli si è mosso contro. E’ la reazione alle mosse della sua (ex) maggioranza, da Franceschini a Orlando fino a Delrio, che ieri lo hanno costretto a rivedere la relazione per la direzione. Avrebbe voluto fare il Renzi e dire “al voto, al voto subito”, magari già a febbraio subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum, che i renziani considerano auto-applicativa, cioè valida anche senza un intervento del Parlamento. Invece ha dovuto rivedere tutto, toni e merito. Ne è uscita una semi-morbida alternativa: voto o unità nazionale. Ma almeno si riserva il diritto di tracciare un percorso minato: il tempo dirà chi salterà per aria, anche perché i tempi di questa crisi appaiono lunghi a tutti gli attori in campo.

Ed eccola la prima mina. Se nascesse un nuovo governo, avverte Renzi, “sarebbe il quarto non votato dal popolo, dopo il colpo di stato del 2011, figlio di un parlamento illegittimo e del trasformismo di Alfano e Verdini”. Al Parlamento e al Pd la scelta. Al M5s i capi di accusa. Se Renzi potesse scegliere da solo, si metterebbe dalla parte dei capi di accusa.

La seconda mina è per la minoranza che ha votato no. “Pisapia solleva questioni non banali”, dice Renzi all’inizio del suo breve discorso. Pier Luigi Bersani è lì con i suoi. Massimo D’Alema non c’è. Per tutti loro il messaggio è questo: Renzi sta valutando intese con quella che definisce “la sinistra non ideologica”, quella dell’ex sindaco di Milano che si è schierato per il sì al referendum e ora offre a Renzi un’alleanza a patto che molli Alfano e Verdini. “Perché no?”, spiega un renzianissimo. “Se si va al voto, non ci interessa né di Alfano, né di Verdini”. E probabilmente nemmeno di Bersani e D’Alema. Perché si andrebbe al voto col proporzionale. E Renzi sta già mettendo sul piatto le sue chance. Sono scenari che non escludono niente. Nessuno vuole la scissione del Pd, ma un sistema non più maggioritario apre un ventaglio di ipotesi, nessuna esclusa.

La terza mina è di fatto la prima in ordine temporale. Di fatto Renzi parla alla direzione dopo aver già raccontato tutto nella sua enews, uscita da Palazzo Chigi calda calda per il web mezz’ora prima della riunione al Nazareno. E’ il suo schiaffo alla direzione che gli ha voltato le spalle. Renzi parla ai milioni di sì di domenica, voti che considera suoi. Non lesina chicche amare per la minoranza: “Qualcuno ha festeggiato la sconfitta, lo stile è come il coraggio di don Abbondio, ma non giudico e non biasimo, osservo e se possibile rilancio. Alzo anch’io il calice perché quando vieni indicato e designato dal Pd e hai la possibilità di governare, non hai il diritto di mettere il broncio. Chi fa politica col broncio e il vittimismo fa un danno a se stesso e non agli altri”.

Rimanda il dibattito in direzione a “dopo le consultazioni al Quirinale”, come spiega il presidente Matteo Orfini al senatore Walter Tocci che vorrebbe intervenire. La direzione è convocata in modo “permanente per consentire alla delegazione che va al Colle di riferire le novità”, spiega Renzi. Forse ci sarà una nuova riunione lunedì. La minoranza non gradisce. “Sono senza parole – dice il bersaniano Davide Zoggia – Il maggior partito del Paese non apre una discussione su quello che è successo. Capisco le esigenze istituzionali delle dimissioni del presidente del Consiglio, ma il partito deve discutere, analizzare”. Ma questo è solo l’inizio di uno scontro che non farà prigionieri.

Tra i renziani nella sala del Nazareno circola l’idea di presentare una legge elettorale in modo da anticipare e vanificare la sentenza della Consulta sull’Italicum. Magari un Mattarellum, la legge firmata dal presidente della Repubblica: chi potrebbe dire di no? Per ora esplicitamente ne parla il segretario dei Radicali Riccardo Magi: “Renzi ci ascolti e accolga la nostra proposta di una legge elettorale maggioritaria con collegi uninominali”. Magi è lo stesso che a luglio propose lo spacchettamento del voto referendario in più quesiti. “Probabilmente oggi Renzi rimpiange di non averci ascoltato allora”, dice. Il punto è che servirebbe un governo, Renzi ormai si è dimesso e a sera sembra tramontata anche l’ipotesi di un reincarico. A meno che non si riesca a sciogliere le Camere a fine gennaio, dicono dal quartier generale dell’ex premier.

Ma è lo stesso Renzi che ormai non esclude che possa nascere un governo di larghe intese. Per dire che le mine che ha piazzato in direzione sono tutt’altro che sicure per lui. Sa che al Senato, per dire, pezzi di Forza Italia, si sono proposti per sostenere un governo Franceschini. Anche se il ministro dei Beni Culturali uscente continua a opporsi all’idea di guidare un governo di scopo. Sa che nascerebbe contro il segretario del Pd, che sarebbe costretto ad appoggiare. Per poi bombardarlo da fuori, come con Enrico Letta. Mattarella è il primo a voler evitare uno scenario del genere. Troppo rischioso. Sul campo resta l’ipotesi di un esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, personalità che Renzi considera più fedele. Mentre sembra tramontata la carta Grasso e anche quella Padoan, dietro la quale Renzi teme un pericoloso attivismo dalemiano.

Ad ogni modo, pur rimanendo impostato sulla linea del voto a primavera nel discorso pubblico, Renzi si è mostrato più morbido con il presidente emerito Giorgio Napolitano al telefono poco prima della direzione. Sa che stavolta potrebbe perdere, i gruppi parlamentari premono per un governo che li garantisca almeno fino a ottobre, quando avranno maturato la pensione. L’unica carta che Renzi ha di certo a disposizione per tutto l’anno prossimo sono le candidature nelle liste delle prossime elezioni. Ad ogni modo non sarà lui a salire al Colle per le consultazioni. Per il Pd ci vanno il vicesegretario Guerini, il presidente Orfini e i due capigruppo Zanda e Rosato. Domani Renzi se ne va a Firenze “a festeggiare gli 86 anni della nonna e giocare alla playstation con mio figlio”. Lontano da Roma per farsi curare le ferite.
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