La Russia fa paura, la Svezia ripristina il servizio militare. Saranno chiamati alle armi i nati dopo il 1999

La corsa al riarmo contagia perfino la Svezia. O meglio, l’incremento delle spese militari annunciato da Donald Trump e l’intenzione di reagire della Russia costringono la Svezia a correre ai ripari, ripristinando il servizio militare a 7 anni dalla sua abolizione.

La Svezia ha annunciato oggi che il servizio militare, soppresso nel 2010, sarà ripristinato nel 2017 per rispondere all’evoluzione della situazione di sicurezza legata al riarmo della vicina Russia. “Il governo vuole un metodo di reclutamento più stabile e intende aumentare la nostra capacità militare perché la situazione della sicurezza è cambiata”, ha spiegato il ministro della Difesa Peter Hultqvist. Un progetto di legge apposito sarà adottato oggi in Consiglio dei ministri.

Il servizio militare obbligatorio sarà ripristinato dalla prossima estate per tutti gli svedesi nati dopo il 1999. La leva durerà 11 mesi. Circa 13.000 svedesi dovrebbe essere mobilitati a partire dal primo luglio 2017, ma solo 4.000 saranno selezionati, in base alla loro motivazione e capacità, e chiamati alle armi ogni anno dopo il primo gennaio 2018.

Il testo di legge sarà certamente approvato anche dal Parlamento, essendo oggetto di un accordo tra il governo di sinistra e l’opposizione di centrodestra. “La nuova situazione della sicurezza è una realtà che si esprime soprattutto sotto forma di una dimostrazione di forza russa che a lungo è stata sottostimata”, ha spiegato un esperto del settore, Wilhelm Agrell.

Nel 2010, la svezia, che non ha vissuto conflitti armati nel suo territorio per più di due secoli, aveva rimosso la coscrizione, introdotta per la prima volta nel 1901 ma ritenuta inadeguata alle esigenze di un esercito moderno. La Svezia non fa parte della nato ma ha sottoscritto il partenariato per la pace, programma lanciato nel 1994 per sviluppare la cooperazione militare tra Alleanza Atlantica e paesi non membri.
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Louvre, uomo tenta di aggredire guardia con un coltello. Il militare apre il fuoco. Chiuso il museo e transennata la zona

Un militare di guardia al piccolo arco di trionfo del Carrousel, a due passi dal Louvre, nei giardini delle Tuileries, ha sparato contro un uomo che avrebbe tentato di aggredirlo, e secondo alcune fonti avrebbe avuto con sé una valigia. Il ministero dell’Interno francese ha diramato un avviso chiedendo di agevolare l’accesso nell’area alle forze di sicurezza.

In seguito a quello che il ministero degli Interni definisce “un grave evento di pubblica sicurezza”, il quartiere del Louvre è stato completamente transennato, il museo resta chiuso, così come il vicino Palais Royal. L’aggressione sarebbe avvenuta nei pressi del Carrousel du Louvre, nel corridoio delle boutique, attorno alle 10.

Da quel che si conosce l’aggressore del militare davanti al museo del Louvre è stato ferito a una gamba, in modo piuttosto grave. L’uomo – secondo la ricostruzione di Luc Poignant, portavoce del sindacato SGP di polizia, intervistato da BFM-TV – ha provato ad entrare nel corridoio delle boutique del Carrousel du Louvre con una valigia. Fermato dalla sicurezza ha insistito per entrare, un militare si è avvicinato e l’uomo ha tentato di aggredirlo con un coltello.
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Sandrine Bakayoko, dall’Africa morta nel bagno di un’ex base militare. Forse aveva abortito. Nel campo scontro con gli ivoriani che vogliono lo sciopero della fame

L’ex base militare Silvestri di Conetta di Cona prima di diventare il centro di accoglienza più affollato del Veneto era una struttura abbandonata da anni. Attorno ci sono solo campi, terra rivoltata dalle macchine agricole per l’inverno in attesa di venire seminata in primavera. Sembra fare quasi più freddo in questo posto raggiungibile solo seguendo una strada stretta, una lingua di asfalto dove a fatica riescono a transitare due auto contemporaneamente.

Da più di 24 ore varcare quel cancello dove ancora compare un cartello con la scritta “zona militare-limite di sicurezza”, è diventato pericoloso, difficile, complicato se non si indossa una divisa da poliziotto o da carabiniere e se non si è uno degli operatori della Coop Edeco che si occupa della gestione dell’accoglienza dei 1360, forse anche di più, profughi ospitati all’interno. Mali, Bangladesh, Costa D’Avorio, Marocco, Zambia, Tunisia, Senegal, i migranti che ci vivono, chi da 2 mesi chi da oltre un anno, provengono tutti dall’Africa e quasi tutti sono arrivati via mare con i barconi della speranza che dalla Libia puntano verso la Sicilia. Il loro sogno da “Eldorado” però, una volta arrivati a Conetta sembra essersi bruscamente interrotto.

A Conetta lunedì 2 gennaio è morta una donna, Sandrine Bakayoko: aveva 25 anni, era della Costa D’Avorio, della parte francofona dell’Africa. Le cause del suo decesso, come ha accertato l’autopsia disposta dalla Procura di Venezia, non sono da ricercare in un ritardo dei soccorsi o in motivi di negligenza nell’assistenza. Ha avuto un’embolia ed è morta durante il trasporto in ambulanza verso l’ospedale di Piove di Sacco, il paese più vicino con un ospedale e che si trova in provincia di Padova seppur a pochi chilometri da Cona che è ancora sotto la provincia di Venezia. Sandrine Bakayoko in Italia e poi a Conetta c’era arrivata con il marito il 30 agosto scorso. Era una delle 25 donne che sono ospitate nella ex base militare. Alcune di loro sono incinta, pare in otto. Sandrine pare fosse anche lei in dolce attesa ma avrebbe abortito almeno due mesi fa. Prima di martedì non aveva richiesto delle cure particolari o non aveva avuto modo di lamentarsi per il suo stato di salute.

Simone Borile è il direttore della Cooperativa Edeco che opera all’interno della ex base. “È stato il marito a trovarla: lei era andata in bagno e non tornava. Era quasi ora di pranzo e lui è andato a cercarla. Le donne, nel campo di accoglienza, hanno alloggi e servizi separati dai maschi. I bagni, in particolare, hanno una chiusura a chiave. Quindi il marito, quando ha trovato la porta chiusa ha capito che sua moglie era dentro e ha chiesto l’intervento del nostro personale per aprire facendo la macabra scoperta. È intervenuto subito il medico del campo, continua Borile – che ha cominciato a praticare manovre di rianimazione cardiopolmonare. Contemporaneamente abbiamo chiamato il 118 e l’ambulanza è giunta dopo un quarto d’ora”.

I profughi sono seguiti da quaranta operatori di giorno, venti di notte, 5 medici a turno, infermieri, operatori sociosanitari. Ogni giorni vengono cotti 465 chili di riso. Ma martedì, per tutti, niente cibo. La morte di Sandrine ha innescato una rivolta soprattutto da parte di quella parte di migranti francofona, non solo gli ivoriani, connazionali della 25enne deceduta. Le prime “vittime” sono stati gli stessi operatori della cooperativa costretti a restare chiusi per motivi di sicurezza fino alle 3 del mattino nel loro container adibito ad ufficio. Circa duecento dei 1360 migranti ospiti hanno approfittato della morte di Sandrine per innescare una rivolta e protestare contro tutto e contro tutti: dalla presunta mancanza di medicine, alla scarsa pulizia dei bagni, fino al freddo nei tendoni dove dormono e a presunte mancate consegne dei pocket money fino alla lunghezza dell’arrivo dei permessi di soggiorno per lasciare il campo.

Una situazione esplosiva che la polizia, con il questore di Venezia Angelo Sanna in prima linea assieme al dirigente della Digos Daniele Calenda cercano di disinnescare spiegando che impedire l’ingresso al campo e obbligando degli operatori a uscire è un reato penalmente perseguibile e che costerebbe il rilascio del permesso di soggiorno. I “rivoltosi” così, consentono l’apertura dei cancelli ma non concedono ai furgoni arrivati per portare il pranzo di consegnare il cibo in mensa. “Scioperiamo, non mangiamo, vogliamo le medicine, vogliamo i nostri documenti, vogliamo che questo campo venga pulito e che ci lascino andare a lavorare”. Passano le ore. Sono le due del pomeriggio quando scoppia un rissa tra migranti: a darsele di santa ragione, pugni, calci, schiaffi sono due fazioni: da una parte quelli che vogliono mangiare e dall’altra gli ivoriani che non intendono interrompere la loro protesta. Non si lotta più, però, per Sandrine ma per altro.

Arrivano le prime luce della sera. Dalla base escono in sella alle loro bici a decine. Molti indossano lo stesso giaccone nero con un cappuccio e la scritta di un’azienda: forse è un regalo, uno stock di fine serie finito in beneficenza. Molti in mano hanno un cellulare, altri alle orecchie hanno delle cuffie dalle quali ascoltano musica a tutto volume. Non sembrano provati e denutriti. Alcuni indossano delle ciabatte infradito. Malgrado si sfiorino i zero gradi qualcuno gira in maniche corte e sorride, incurante del freddo.

“Sono qui da sei mesi, sono arrivato a luglio – racconta un malese in un inglese stentato – So fare il cameriere, sono venuto in Italia per fare questo. Ma voglio andarmene presto da qui, a Roma o a Milano dove ci sono tanti ristoranti e tante possibilità. Mi piace l’Italia, amo l’Italia ma fatemi andar via da qui”. Vicino a lui un altro migrante dello Zambia. “Ho una spalla lussata e non mi danno le medicine giuste e non mi fanno fare le radiografie – racconta – Me la sono rotta in Africa ma il gesso si è rotto e non si è saldata bene. Mi servono cure specifiche”. Come stai? chiediamo ad un altro di loro con il cappuccio del giaccone che lo copre fino agli occhi. “Sono qui da febbraio e non ho ancora visto i miei documenti per andarmene – dice – basta, non ne posso più di restare qui a fare niente. Fatemi lavorare, sono venuto in Italia per lavorare”. Poi arriva Yacouby, Gabriele il suo nome in italiano, ci mostra alcune foto dell’interno del campo. “Guardate come viviamo, come dormiamo, ammassati, con i bagni sporchi, con i rifiuti. Non ci assistono non ci puliscono. Vogliamo andarcene via. Siamo troppi qui”.

Ormai fa buio. Sono le sei del pomeriggio. Arrivano i furgoni per le pulizie e per portare il cibo. Il vice Prefetto di Venezia Vito Cusumano esce dal campo dopo un sopralluogo assieme al direttore della Edeco Simone Borile. Pare ci sia l’accordo per la consegna del cibo. Ma è un accordo di sabbia che vola via quando i furgoni entrano e vengono accerchiati dal gruppo di “ribelli” che hanno deciso che l’unica strada è lo sciopero della fame. Un paio di furgoni se ne vanno. Uno viene inseguito e fermato da alcuni migranti. Hanno fame. Chiedono e ottengono almeno tre sacchi di panini. E si sfamano con quelli. La notte, però, è ancora lunga. E anche se il Prefetto ha annunciato che da domani se ne andranno in 100, la situazione sembra ancora lontana dall’essere risolta.
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Russia, aereo militare precipita nel Mar Nero. Tra i 92 a bordo il coro dell’Armata Rossa

Ora non ci sono piu’ dubbi: e’ precipitato nel mar Nero l’aereo militare russo trimotore Tu-154 con 91 persone a bordo scomparso all’alba subito dopo il decollo dalla citta’ turistica di Sochi e in viaggio verso una base russa in Siria. E’ stato lo stesso ministero della Difesa russo a comunicare il ritrovamento, da parte dei soccorritori, di frammenti del velivolo nelle acque del mare. Il ministero, attraverso il portavoce Igor Konashenkov, aveva riferito in precedenza che a bordo dell’aereo c’erano soldati, componenti della celebre banda militare Alexandrov e nove giornalisti. Tutti erano in viaggio verso la Siria per tenere un concerto in occasione del nuovo anno per le truppe russe dislocate nel paese mediorientale. Sull’aereo avevano preso posto 83 passeggeri e otto componenti dell’equipaggio. I media russi hanno riferito che l’aereo e’ scomparso mentre viaggiava sopra il mar Nero, venti minuti dopo il decollo dall’aeroporto Adler di Sochi, alle 5,20 ora locale (le 2,20 GMT). Il ministro della Difesa Sergei Shoigu ha coordinato personalmente le ricerche, e il presidente Vladimir Putin ha ricevuto un resoconto ufficiale dell’accaduto.
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