Lavoro, finisce la mobilità, da quest’anno tutele ridotte. Incognita sul futuro di centinaia di migliaia di lavoratori

Il primo gennaio è finita la mobilità, e con essa la certezza per il futuro di 185mila impiegati nel settore manifatturiero che ne usufruivano. Ai quali vanno ad aggiungere gli 86mila in cassa integrazione e le migliaia dell’indotto. Dal primo gennaio sono diventati, come li definisce Repubblica, “come fantasmi, trasparenti, sommersi, dimenticati nell’era del capitalismo immateriale”.

Scrive infatti il quotidiano di largo Fochetti:

Dal primo gennaio non esiste più l’indennità di mobilità, l’ammortizzatore sociale che in caso di licenziamenti collettivi accompagnava nel modo meno traumatico possibile il passaggio alla disoccupazione vera e propria o, nelle storie più fortunate, era il ponte verso un nuovo posto di lavoro. Sarà sostituito, man mano che andranno ad esaurirsi i periodi di mobilità in essere, dal combinato disposto di altri ammortizzatori sociali (la Naspi in primis) che rappresentano una copertura ridotta.

Sono così con il fiato sospeso, solo per citare i casi più corposi, gli operai dell’Ilva, della Lucchini di Piombino, dell’Alcoa di Portovesme, ma anche dell’Hp, dell’Italtel, della Linka-Compel, della Nokia, della Whirpool-Indesit, dell’Electrolux. L’elenco potrebbe riempire decine di pagine. La Naspi, che dal primo gennaio subentra all’indennità di disoccupazione, “prevede la riduzione complessiva della copertura economica già a partire dal quarto mese”.

I numeri degli addetti (e relative famiglie) colpiti dal cambio di legislazione è impressionante. Scrive ancora Repubblica:

In ballo, per il solo settore metalmeccanico, il futuro di oltre 65mila operai oggi in mobilità (che diventano 185mila nelle stime sull’intera manifattura). Più gli 86mila in cassa integrazione e le migliaia di lavoratori dell’indotto, delle fabbriche troppo piccole per rientrare sotto la protezione degli ammortizzatori. I sommersi, appunto, delle crisi della siderurgia, degli elettrodomestici, dei computer, dell’elettronica, delle telecomunicazioni.

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“Ho praticato migliaia di aborti, ma non sono sereno: è come andare in guerra”. La confessione di un medico di Valdagno

Il Dott. Massimo Segato, sessantaduenne vice primario di Ginecologia all’ospedale di Valdagno, Alto Vicentino, ha raccontato al Corriere della Sera la sua storia di medico non obiettore e delle difficoltà che questa scelta, che egli definisce “di senso civico”, gli ha portato. Pur avendo alle spalle migliaia di gravidanze interrotte, l’intervista comincia proprio da un suo “errore”.

“Avevo aspirato qualcosa che non era l’embrione, avevo sbagliato. Una mattina ritrovai quella donna, aveva appena partorito. Mi fermò e mi disse: si ricorda di me dottore? Lo vede questo? Questo è il suo errore”.

Sono passai trent’anni da quell’episodio, che ha messo a dura prova la coscienza del medico. Segato racconta la sua come una missione, una scelta controcorrente soprattutto all’epoca, prima del 1978 e della legge sull’aborto.

“Le suore dell’ospedale si facevano la croce quando mi vedevano, il cappellano diceva che al mio confronto Erode era un dilettante”.

I tempi però non sono cambiati. Ancora oggi a Valdagno i medici obbiettori sono 6 su 8, Segato non giudica l’operato altrui, ma parla di una diffusa ipocrisia tra gli anti-abortisti.

“Per non parlare dei politici. Ricordo un caso dell’82: il primario mi chiama, mi dice Massimo questo è un caso delicato. Si trattava di un importante uomo politico sposato dichiaratamente contrario all’aborto che aveva portato l’amante. Il primario mi chiese di mettere la ragazza in un camerino a parte perché nessuno doveva sapere”.

Una scelta difficile, che ha segnato la vita di questo medico. Oggi Massimo Segato non opera quasi più, ma non si professa obiettore per non tradire la decisione che ha preso anni fa. Ma questa “missione” ormai è divenuta troppo dolorosa.

“La verità è che più vado avanti con gli anni e più sto male e intervengo così solo per emergenze. Se succede però non sono sereno. Come non lo sono le mamme che in tanti anni sono passate dal mio reparto. Non ne ho mai vista una felice del suo aborto”.


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Terremoto, migliaia di sfollati: “Non deportateci”. Protezione Civile: “Impossibile assisterli in loco”

Da un megafono arriva una voce: “Costantini, De Francesi, Di Felice, salite sul pullman”. Ai volontari della Protezione civile tocca l’ingrato compito di chiamare uno per uno gli abitanti di Norcia, registrare i loro documenti e invitarli a salire sui mezzi che li porteranno in luoghi più sicuri. Una trafila lunga, triste e, come avviene in questi casi, anche burocratica. A nessuno viene detta quale sarà la data del ritorno in Paese, perché una data non c’è così come al momento non c’è una cifra precisa di quanti sono gli sfollati dell’Umbria, delle Marche e del Lazio, regioni durante colpite dallo sciame sismico.

Più che un invito a salire sui pullman, in realtà – ha detto anche il Capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio – è “l’unica soluzione possibile e la più sicura”. Quando nel paese più colpito dalle ultime scosse di terremoto sta scendendo la sera, oltre cinquecento persone hanno lasciato Norcia per andare negli alberghi sul lago Trasimeno. Il primo cittadino Nicola Alemanno ha parlato di tremila sfollati, ma molti per adesso preferiscono dormire in macchina, altri sono andati nelle seconde case o nei camper e solo una trentina potranno dormire nelle tre tende blu allestite dalla Protezione civile. Sono solo alcuni numeri di questa nuova catastrofe: “Per fortuna non piangiamo i morti ma non deportateci”. È la preghiera di chi a Norcia ci vuole tornare per continuare il proprio lavoro e vivere ancora in comunità. Ancora una volta molta la rabbia contro il sindaco e contro le istituzioni: “Dovevate pensare alle casette di legno, dovevate metterci al sicuro”. I bambini piangono e a sera non ne possono più. Sono stanchi anche di giocare a pallone nel campo sportivo: “Dove andiamo e perché? Io voglio andare a casa”. E non in albergo.

Sta di fatto che negli alberghi lungo i 150 km della costa marchigiana sono arrivati anche i 2200 sfollati dalle Marche, che si sommano ai 1300 già negli hotel. Il numero è destinato a crescere. Ci resteranno fino ad aprile, come minimo, come ha rilevato la Confcommercio sulla base della richiesta di disponibilità fatta dalla Protezione civile agli operatori. Sarà, come ha detto il sindaco di Civitanova Corvetta, “una migrazione epocale, magari temporanea, ce lo auguriamo, ma epocale”. Sono oltre cento i Comuni colpiti nelle Marche e gli sfollati verso il mare saranno migliaia, forse non tutti i 25 mila previsti dalla Regione, ma per ora ci sono le 5 mila richieste fatte agli albergatori. Quattrocento sono gli sfollati provenienti dall’Abruzzo. Dall’Umbria, invece, tale è stato l’impatto che ancora un censimento definitivo non c’è.

In fondo non ci sono soluzioni alternative: “L’assistenza deve continuare in direzione di portare le persone sulla costa – ha detto ancora Curcio – al momento non ci sono possibilità di assistenza in loco”. Quindi muoversi e trovare riparo dove è possibile, come già accaduto per gli sfollati di Accumoli o Arquata dopo il 24 agosto. Adesso però il problema si ingigantisce enormemente. Come spiegano dalla Protezione civile non è più possibile parlare dolo dei Comuni che hanno subito danni, bisogna evacuare l’intera zona, forse solo per un po’, per fare i dovuti controlli. Il rischio altrimenti è che si ripeta ciò che è successo a Norcia, un paese che aveva già avuto piccoli danni e che ora è in gran parte distrutto con il pericolo concreto che qualcuno questa mattina poteva essere sepolto dalle macerie.
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