“Sono sempre più esausto, ogni giorno i dolori peggiorano, dipendo integralmente dagli altri. Ma sono tenacemente innamorato della vita. E sulla terra, finché sarà possibile, ho intenzione di restare”. È la testimonianza di Mario Melazzini, direttore generale dell’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco, che in un’intervista a Repubblica racconta i suoi dieci anni da malato di Sla e spiega perché a suo avviso il testamento biologico non è una scelta di libertà per i malati.
“Ho una forma di Sla molto lenta. E non ho voglia di arrendermi. Un pò come Stephen Hawking. Ci siamo scritti. Condivido il suo pensiero. In ogni giorno di vita c’è qualcosa da scoprire. Anche su una sedia a rotelle”, afferma. “Per me essere nutrito con una pompa nella notte non è un atto medico, ma, appunto, la vita. Come per gli altri mangiare e bere. Per questo sono convinto che non si possano interrompere”. “Io non giudico nessuno, ma forse prima di parlare di testamento biologico bisognerebbe assicurare a tutti un vero accesso alle cure, sostegni alla famiglia, la medicina palliativa. La voglia di mollare nasce dall’abbandono del paziente”.
Melazzini racconta di essere stati pronto al suicidio assistito: “Ma poi ho avuto paura. Del resto quando il 17 gennaio del 2003 un mio collega mi ha guardato negli occhi e mi ha detto ‘Melazzini lei ha la Sla’, mi sono sentito come tutti i malati gravi: un naufrago disperato. Da medico sono diventato un paziente e ho visto l’impotenza della medicina”. “Ho capito che c’erano cose che non avrei potuto più fare, ma altrettante ne avrei potute scoprire… Ho ricominciato a guardare avanti. Per esempio a lottare per i diritti dei malati di Sla”.
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