Numeri ed endorsement, Orlando alza la testa. Primarie Pd diventano una guerra di numeri

Entra nel vivo la battaglia delle primarie Pd. È cominciata in sordina ma di colpo subisce un’accelerazione molto forte. Si trasforma in guerra di numeri e in guerra di endorsement. Dopo che i cosiddetti lettiani sono confluiti sulla candidatura di Andrea Orlando a segretario del partito, arriva durante la trasmissione ‘In mezz’ora’ la dichiarazione di sostegno dello stesso Enrico Letta. Il ministro della Giustizia, rafforzato da questo supporto di peso che si basa su una stima diffusa e su una rete di rapporti che ha anche una sua dimensione accademica e internazionale, si sente rafforzato e alza il livello della battaglia. Tanto che a un certo punto della giornata parte l’ordine dai fedelissimi dell’ex premier: “Non rispondete a Sarracino”. Marco Sarracino (napoletano, trentenne), portavoce nazionale della mozione di Andrea Orlando, è andato giù duro rivolgendosi ai vertici del Pd: “Sarà mai possibile avere i dati ufficiali forniti dal partito? In base ai dati in nostro possesso la percentuale dei partecipanti al voto congressuale finora registrata sarebbe sicuramente inferiore al 50%”.

Il congresso del Pd, finora soporifero, si accende sul dato della partecipazione e Orlando, nonostante secondo i primi dati sia dietro Matteo Renzi anche con un certo distacco (secondo i dati forniti dalla mozione Renzi, l’ex premier ha raccolto 12.367 voti il 69.36%, Orlando 4.982 il 27.94%, ed Emiliano 480 il 2.69%), è partito all’inseguimento dell’ex segretario sottolineando la disaffezione degli iscritti dovuta a una cattiva gestione degli anni precedenti. Il Pd è un partito in cui il dato degli iscritti è sceso rispetto all’ultimo congresso, quindi rispetto al 2013. Allora gli iscritti erano quasi 540mila adesso sono 420mila. Non solo. L’Huffpost sabato ha sollevato il tema del calo dei votanti in questa prima fase congressuale riportando i numeri dei primi circoli: il trend dice che un po’ ovunque, in termini assoluti, il numero dei votanti è più basso della volta scorsa.

Intanto Renzi su Facebook annuncia: “Dopo che hanno votato circa 600 circoli la partecipazione è al 61%, rispetto al 55% della partecipazione 2013. Dunque bene, molto bene”. Matteo Richetti, Andrea Marcucci e tanti altri lo seguono a ruota e fonti dem sottolineano i dati della Liguria, proprio perché Orlando è di La Spezia. “Dopo i primi giorni di congressi nei circoli Pd in Liguria, Renzi in testa con il 66,70%, segue Orlando con il 32,34%, ed infine Emiliano con lo 0,96%”. E poi ancora, dicono, “Renzi risulta in testa in tutte e 4 le province, a Genova con il 68,07%, a Savona con L’ 82, 22%, ad Imperia con 63,21%, ed anche a La Spezia con il 57,90%”.

I due sfidanti si lamentano per dei numeri a loro dire ballerini. Secondo Sarracino non si arriverebbe al 50%, mentre secondo Dario Ginefra, deputato dem e sostenitore di Emiliano, “si sottovalutano due fattori importanti: molti iscritti non si sa neanche come siano fatti perché nella migliore delle ipotesi non partecipano alla vita del partito e la gran parte del corpo elettorale del Pd sa bene che il vero appuntamento è quello del 30 aprile”. Secondo Francesco Boccia, anche lui della mozione Emiliano, quella di Renzi “è una strategia che tende a far deprimere le reti e i militanti degli altri due candidati. Ma noi non ci deprimiamo, anzi ci carichiamo”.

Finora insomma non si parla d’altro se non di numeri. Numeri che hanno un significato politico e che attestano lo stato di salute del partito ed è per questo che le tre fazioni hanno cominciato a combattersi intorno all’affluenza nei circoli dove si sta votando per scegliere il segretario. A fine giornata per i renziani il Pd è un partito reattivo i cui militanti vanno a votare per la partita congressuale, per Orlando ed Emiliano è un partito in smobilitazione o comunque attraversato da una disaffezione frutto dalla gestione-non gestione di questi ultimi anni, che ha allontanato gli iscritti dalla battaglia per scegliere il segretario.

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“Our War”, il documentario che racconta chi sono i giovani occidentali in guerra contro l’Isis

L’ultimo ‘martire’ occidentale delle Ypg, le brigate di liberazione del popolo curdo, è stato Paolo Todd, nome in codice Kawa Amed, morto il 15 gennaio scorso a Small Siweida, villaggio nei pressi di Raqqa. Veniva da Los Angeles e chissà cosa lo ha spinto ad andare in Siria e unirsi all’avanzata delle Sdf (Syrian Democratic Forces, l’esercito a guida curda, con arabi, siriaci e turkmeni creato dagli Stati Uniti) per liberare la capitale del cosiddetto Stato Islamico.

Todd era uno dei centinaia di volontari stranieri che hanno percorso lo stesso tragitto dei giovani accorsi in Siria da tutto il mondo per onorare il jihad lanciato dal ‘Califfo’ Abu Bakr al-Baghdadi. Stesso percorso, ma motivazioni opposte: “C’è chi parte perché è un ex militare e si sente realizzato nel combattere contro l’Isis, chi lo fa per supportare politicamente la rivoluzione curda del Rojava (il Nord-est della Siria di cui i curdi hanno reclamato l’autonomia, Ndr) e chi perché è originario di quei luoghi e di quelle comunità. Sono i motivi principali, ma è difficile rinchiudere questi ‘foreign fighters’ in categorie rigide” spiega Benedetta Argentieri, giornalista e documentarista free lance che insieme ai colleghi Claudio Jampaglia e Bruno Chiaravalloti hanno realizzato il film documentario Our War, presentato fuori concorso a Venezia e attualmente in programmazione nelle sale italiane.

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Our War racconta l’esperienza di un italiano di Senigallia con origini marocchine, Karim Franceschi, di un ex marine che ha combattuto in Iraq e Afghanistan, Joshua Bell, e di una guardia del corpo mezzo svedese e mezzo curdo, Rafael Kardari, che per vie diverse hanno combattuto in Siria con le Ypg curde. “Ho conosciuto Bell in uno dei miei viaggi nel Rojava, era il novembre 2014” racconta Argentieri . “Era insieme ai primissimi stranieri arrivati, che stavano ancora cercando di capire come relazionarsi con i curdi e con una situazione che non si aspettavano. Joshua non capiva perché i capi delle Ypg non gli facessero fare nulla o lo tenessero in magazzino a pulire le armi. Non capiva come funzionava quell’esercito. Poi piano piano se ne è innamorato e ha imparato anche a parlare curdo”.

Non ci sono stime ufficiali su quanti siano i volontari stranieri, ma si parla di alcune centinaia. Vengono dagli Stati Uniti, dall’Argentina, dall’Europa e ci sono anche molti australiani e qualcuno dalla Cina. La pagina Facebook The Lions of Rojava era lo strumento per contattare chi già era là e arruolarsi. Il flusso è cominciato nell’autunno 2014 e all’inizio i curdi non sapevano bene come comportarsi con questi occidentali che arrivavano dal nulla, a volte solo per farsi un selfie davanti a un carro armato e andarsene, a volte millantando esperienze militari mai avute: “Le Ypg provvedevano ad addestrarli, ma spesso li tenevano lontani dal fronte perché avevano timore che non fossero capaci di combattere in quello scenario.

La guerra contro l’Isis è fatta di avanzate e attese, di movimenti studiati in gruppo. Anche di rispetto del nemico ucciso. E a volte questo non veniva ben compreso” spiega Argentieri. Con il passare dei mesi i media occidentali iniziano a occuparsi delle storie dei loro connazionali in Siria, che diventano così una buona arma di propaganda per la causa curda. Il problema è che spesso il tempo e il denaro spesi per addestrarli non viene ripagato dall’impegno sul campo. Quindi le Ypg si organizzano e fanno firmare ai volontari un vero e proprio contratto: in cambio di armi e addestramento, loro si impegnano a restare in Rojava per almeno sei mesi.

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In Europa sono arrivate le storie dei bikers olandesi e tedeschi, fotografati a Kobane fucile in spalla e giubbotto di pelle con i teschi, o quella della ventisettenne Kimberley Taylor, la prima donna inglese a essersi unita alle Ypj, le brigate curde femminili. Meno frequentemente si è parlato di coloro che sono morti a migliaia di chilometri da casa. Adesso c’è un sito, ypg-international.org, che ne raccoglie le storie. Se ne contano 18, ma non è aggiornato all’ultimo mese: “Ne sono morti dodici solo negli ultimi sei mesi, anche perché l’esercito turco è entrato in Siria e spesso attacca i curdi” spiega Argentieri. Diciotto giovani soldati volontari che hanno deciso di rischiare la vita per un ideale o per un senso di appartenenza. Come era successo nella guerra di Spagna degli anni ’30, come succede sempre quando c’è una causa per cui combattere.



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Arresto di Marra, Beppe Grillo mette sotto tutela Virginia Raggi. Ortodossi M5S sul piede di guerra, leadership Di Maio traballa

Il Campidoglio e l’Hotel Forum distano pochi metri l’uno dall’altro. Oggi però lo spazio che separa la “casa” di Virginia Raggi e la residenza romana di Beppe Grillo sembra interminabile. Beppe è sempre più deluso da Virginia, sul futuro non può escludere nulla, neanche l’addio cioè il ritiro del simbolo M5S. Ufficialmente la protegge, ma la misura è colma. “Non possiamo permetterci di perdere Roma” dice ai suoi, ma la gestione del Campidoglio imbarazza il Movimento giorno dopo giorno. Il futuro di Virginia è legato a un filo sottile quanto la fiducia che il leader pentastellato ripone ancora in lei. “Le scuse non bastano”, dice Paola Taverna. Roberto Fico aggiunge: “Per me Marra non è un tecnico”, al contrario di quanto affermato dal sindaco. L’arresto di Raffaele Marra arriva dopo le dimissioni dell’indagata Paola Muraro, e tante altre grane giudiziarie, che molti temono non siano finite qui e possano raggiungere perfino la prima cittadina. In albergo il leader pentastellato apprende la notizia dell’arresto di Marra e prende il cellulare per chiamare subito la Raggi: “Te l’avevo detto, ora rimedia”. È furente. Virginia, dall’altro capo, nervosissima, scossa, praticamente in lacrime.

La sindaca vuole andare avanti, non ha alcuna intenzione di dimettersi. Grillo glielo consente, anche perché Roma è Roma, il Movimento non si può permettere di fallire così. Ma Virginia resta a patto che “non saranno commessi errori d’ora in avanti e che le decisioni importanti, come le nomine, avranno l’ok dei vertici”. Decidono la linea, viene scritto un comunicato, vidimato dal capo e così il sindaco va in scena davanti a una miriade di telecamere. Legge un foglio, chiede scusa ai romani, al Movimento e a Grillo che appunto “aveva sollevato perplessità”, ammette di aver sbagliato ad essersi fidata, tiene a dire però che Marra non era il suo braccio destro, ma “un dipendente qualunque”. Lo dice nonostante rimbombi ancora una sua vecchia frase: “Se va via lui, vado via anch’io”. L’imbarazzo per l’intera vicenda la porta a parlare per un minuto e mezzo e poi ad andare via senza rispondere alle domande.

La giornata è solo all’inizio. Le chat sono infuocate, sul blog di Beppe Grillo va in onda una sorta di web processo, fra tanti delusi e qualche strenuo difensore della sindaca. Nel pomeriggio i consiglieri litigano a Palazzo Senatorio mentre i parlamentari litigano all’Hotel Forum. È emergenza assoluta: i flash mob previsti a Siena e in Val di Susa per far dimenticare le vicende capitoline vengono annullati. “Impossibile nascondere i fatti e urlare onestà onestà in un momento così difficile per il Movimento”, ammette un deputato grillino che era pronto a prendere il pullman per la Toscana. Come forse mai successo prima, a parte pochi che preferiscono parlare a taccuini chiusi, la maggior parte dei parlamentari escono alla scoperto, nonostante la consegna del silenzio imposta dai vertici. È una reazione a catena: la spaccatura emersa sei mesi fa sul ‘caso Roma’, sulla gestione del Campidoglio e sulle nomine di Raffaele Marra e Salvatore Romeo, adesso viene fuori in tutta la sua interezza.

Roberta Lombardi entra nel quartier generale di Grillo e afferma: “Sono fiera di stare dalla parte giusta”. Era stata lei a parlare di Marra come un virus che ha infettato il Movimento. Su Facebook la pasionaria grillina affida il suo sfogo a una citazione di Martin Luther King, la cui morale è “no a vigliaccheria e vanagloria”. Il concetto viene condiviso da Carla Ruocco, Paola Taverna e Nicola Morra. Condivisione che nel linguaggio pentastellato vuol dire molto. Roberto Fico e Carlo Sibilia, dell’ex Direttorio, hanno già parlato. Fico ha definito la vicenda “molto grave” e chiede una riflessione, Sibilia dice che “così andiamo a sbattere”. Parole che avranno un certo peso nel lungo incontro con Grillo, al quale hanno partecipato Fico, Lombardi, Morra e Taverna, l’ala più critica ma soprattutto ortodossa del Movimento.

Sul banco degli imputati finisce Luigi Di Maio, anche lui presente al vertice e reo, secondo chi lo accusa, di aver difeso il sindaco e sottovalutato i problemi che Raggi ha creato in Campidoglio “fidandosi delle persone sbagliate”, tra queste anche l’assessore all’ex Ambiente Paola Muraro, raggiunta da un avviso di garanzia. Di Maio era venuto a conoscenza mesi fa dell’iscrizione nel registro degli indagati ma non disse niente al resto del Direttorio, da qui in poi una parte del Movimento gli si è rivoltata contro. Tanto che Danila Nesci chiede che vengano presi provvedimenti, mentre Giuseppe Brescia lo definisce “un piccolo stratega”. Anche Riccardo Nuti attacca “i volti che funzionano in tv”.

Oggi alla prova della leadership Di Maio tace, così come tace Alessandro Di Battista, assente alla riunione del Forum. Chi ha parlato viene rimproverato da Grillo: “Dobbiamo restare uniti, non possiamo farci vedere così”, avrebbe detto. Il filo diretto tra Campidoglio e Campidoglio è continuo. Tante le telefonate. Il leader dice a Raggi che adesso “vanno verificati tutti gli atti fatti da Marra” per vedere se vi sono irregolarità. La paura tra i grillini è che però la vicenda non sia finita qui, che presto possano venire fuori altre carte e altri avvisi di garanzia, forse per abuso d’ufficio. Per adesso la linea è distinguere la figura di Marra da quella del Movimento 5 Stelle. Fino a prova contraria. In quel caso anche scaricare il sindaco di Roma sarà possibile.

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“Ho praticato migliaia di aborti, ma non sono sereno: è come andare in guerra”. La confessione di un medico di Valdagno

Il Dott. Massimo Segato, sessantaduenne vice primario di Ginecologia all’ospedale di Valdagno, Alto Vicentino, ha raccontato al Corriere della Sera la sua storia di medico non obiettore e delle difficoltà che questa scelta, che egli definisce “di senso civico”, gli ha portato. Pur avendo alle spalle migliaia di gravidanze interrotte, l’intervista comincia proprio da un suo “errore”.

“Avevo aspirato qualcosa che non era l’embrione, avevo sbagliato. Una mattina ritrovai quella donna, aveva appena partorito. Mi fermò e mi disse: si ricorda di me dottore? Lo vede questo? Questo è il suo errore”.

Sono passai trent’anni da quell’episodio, che ha messo a dura prova la coscienza del medico. Segato racconta la sua come una missione, una scelta controcorrente soprattutto all’epoca, prima del 1978 e della legge sull’aborto.

“Le suore dell’ospedale si facevano la croce quando mi vedevano, il cappellano diceva che al mio confronto Erode era un dilettante”.

I tempi però non sono cambiati. Ancora oggi a Valdagno i medici obbiettori sono 6 su 8, Segato non giudica l’operato altrui, ma parla di una diffusa ipocrisia tra gli anti-abortisti.

“Per non parlare dei politici. Ricordo un caso dell’82: il primario mi chiama, mi dice Massimo questo è un caso delicato. Si trattava di un importante uomo politico sposato dichiaratamente contrario all’aborto che aveva portato l’amante. Il primario mi chiese di mettere la ragazza in un camerino a parte perché nessuno doveva sapere”.

Una scelta difficile, che ha segnato la vita di questo medico. Oggi Massimo Segato non opera quasi più, ma non si professa obiettore per non tradire la decisione che ha preso anni fa. Ma questa “missione” ormai è divenuta troppo dolorosa.

“La verità è che più vado avanti con gli anni e più sto male e intervengo così solo per emergenze. Se succede però non sono sereno. Come non lo sono le mamme che in tanti anni sono passate dal mio reparto. Non ne ho mai vista una felice del suo aborto”.


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