Governo Gentiloni, disco verde da Confindustria. Boccia: “Positiva la riconferma di molti ministri”

Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia giudica positivamente la riconferma di molti dei ministri nel nuovo governo di Paolo Gentiloni, in particolare quelli che sono stati seguiti con “attenzione”. Lo ha detto lo stesso Boccia, parlando con i giornalisti, a margine dell’assemblea dell’associazione industriale di Genova, auspicando che “i partiti non dibattano solo di legge elettorale”, ma si entri nel merito delle grandi questioni e che il governo “continui nella spinta riformatrice del Paese”.

Ai giornalisti che a margine del convegno di Confindustria a Genova gli chiedessero la sua impressione sul governo Gentiloni, Boccia ha risposto che “le impressioni saranno nei fatti” e nell’operato. “Abbiamo un piano industria 4.0 che va implementato”, ha osservato Boccia sottolineando che la legge di bilancio è “una parentesi importantissima ma il Paese ha bisogno di tante altre riforme”.

Da qui l’auspicio ai partiti che non si dibatta solo di legge elettorale ma “si entri nel merito delle grandi questioni del Paese e cioè Europa, Italia, questione economica e questione industriale”.

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Governo Gentiloni, i ministri di Verdini spariscono al Colle

Quando quella vecchia volpe di Fabrizio Cicchitto arriva allo stadio Olimpico per la Roma, parecchi deputati lo avvicinano in tribuna d’onore: “Tu che conosci Verdini, come la leggi questa cosa che non è entrato al governo”. Risposta: “O ha peccato di ingordigia, chiedendo troppo. O è il segnale che il governo cade quando vuole Renzi”. O entrambi.

Ecco la scena, di quando le richieste di Denis sono nero su bianco. E non vengono accolte. Nella lunga ora di Paolo Gentiloni al Quirinale spariscono i ministri di Denis Verdini dalla lista. Un ministro dall’aria mite come Zanetti? O due nomi legati a un ingombrante passato in forza come Marcello Pera e Saverio Romano, circolati per tutta la giornata? Colloquio lungo, interrotto da un po’ di contatti con l’esterno. Telefonate, valutazioni. In parecchi ricordano il precedente della formazione del governo Renzi, quando nello studio del capo dello Stato fu depennato dalla lista e sostituito da Andrea Orlando. O quando, ai tempi della formazione del governo Monti, nello studio di Napolitano passarono due ore, perché c’era il nodo delle deleghe di passera e la complessa mediazione con Berlusconi da un lato e Bersani dall’altro.

Stavolta il grosso delle telefonate è con i vertici del gruppo del Senato. Gentiloni e Zanda hanno un’antica consuetudine, sin dai tempi della giunta Rutelli che si occupò di Giubileo: “Verdini – è il senso del ragionamento condiviso – non lo reggiamo. Pezzi di gruppo si rifiutano di votare la fiducia. Ma i numeri li abbiamo senza Denis?”. Gentiloni offre a Verdini posti di ministri e sottosegretari, ma spiega che, con i ministri, salta l’equilibrio complessivo. Denis a quel punto fa uscire, come strumento di pressione, la dichiarazione che “Ala non voterà la fiducia”. All’uscita dal colloqui al Colle però i ministri di Denis non ci sono.

I numeri al Senato ballano. L’ultima fiducia sulla legge di Bilancio è passata con 173 sì la scorsa settimana, con l’apporto delle truppe di Ala (18 senatori). Sulla carta i verdiniani sono aggiuntivi, non sostitutivi, ma nella navigazione quotidiana – quando tra influenze, missioni, assenze mancano parecchi parlamentari – sono molto importanti. Prosegue il flusso di comunicazione tra Zanda e il neo premier: “Reggiamo anche senza Verdini, tra senatori sparsi di buona volontà e l’aiuto di qualcuno di Forza Italia”. Proprio ieri Silvio Berlusconi ha diramato le sue regole di ingaggio per i parlamentari che vanno in tv e anche per i suoi giornali: “Non usate toni duri, opposizione responsabile” verso l’ex ministro delle Comunicazioni del governo Prodi stimato dai vertici di Mediaset. Ma questo è un altro capitolo.

Tornando a Verdini: è un fardello pesante. Per i senatori della sinistra, ma anche in chiave di congresso. Renzi, alla scorsa direzione ha citato Pisapia e Pisapia insieme a Cuperlo e Merola sta lavorando su uno schema di sinistra docile non alternativa, ma stabile nell’orbita del renzismo. È difficile assecondare questo processo con le truppe di Verdini al governo. E chissà se è un caso che l’ingordo ha prospettato non un governo, ma una abbuffata, neanche fosse al governo con Berlusconi. Proponendo Zanetti, che per fare il ministro si è alleato con Verdini. Ma anche una casella di peso, di prima fascia (Istruzione, Agricoltura o Sanità) mettendo sul tavolo i nomi di Pera e Saverio Romano. Suggerisce un parlamentare di Ala: “Vediamo come apre Libero domani”. Libero è il quotidiano di Antonio Angelucci, parlamentare di Forza Italia e re delle cliniche in varie regioni, citato anche nel famoso fuorionda di Nemo da Vincenzo D’Anna, in relazione alla nomina dei commissari campani e dell’emendamento per De Luca. Quando iniziò la campagna referendaria, per schierare il giornale sul SI, cambiò addirittura il direttore.

Insomma, l’ingordigia. Il passaggio successivo è il rifiuto dei posti da viceministro e sottosegretari. Rabbioso, Denis chiama Renzi davanti ai parlamentari che riunisce a via Poli, uno sfogatorio: “Siamo rimasti fuori, non era questo il progetto”. Senza piatto ricco, le briciole non servono. Il risultato è in una battuta che circola a via Poli, sede di Ala: “Faremo opposizione al governo, come Renzi…”.
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La resistenza di Matteo Renzi in direzione Pd: “Governo di tutti o voto”. E medita l’alleanza con Pisapia

“Se le altre forze politiche vogliono andare a votare subito dopo la sentenza della Consulta sulla legge elettorale, lo dicano chiaramente. Il Pd non ha paura della democrazia. Se invece vogliono un nuovo governo che affronti la legge elettorale e gli appuntamenti internazionali del 2017, il Pd si assume questa responsabilità, ma non può essere il solo. Abbiamo pagato già un prezzo per la responsabilità nazionale”. Canto del cigno o rilancio? Si vedrà. Matteo Renzi lascia la sua proposta sul tavolo della direzione del Pd e sale al Quirinale per dimettersi da premier. Un primo capitolo di questa crisi si chiude. Si apre quello incerto della nascita di un nuovo esecutivo e della certa resa dei conti nel Pd. “Il passaggio interno al partito sarà duro, ma prima viene la crisi di governo”, annuncia il segretario, col sorriso come lama tagliente nella sala gremita al Nazareno.

Il suo è l’inizio della resistenza dentro il partito che in questi giorni gli si è mosso contro. E’ la reazione alle mosse della sua (ex) maggioranza, da Franceschini a Orlando fino a Delrio, che ieri lo hanno costretto a rivedere la relazione per la direzione. Avrebbe voluto fare il Renzi e dire “al voto, al voto subito”, magari già a febbraio subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum, che i renziani considerano auto-applicativa, cioè valida anche senza un intervento del Parlamento. Invece ha dovuto rivedere tutto, toni e merito. Ne è uscita una semi-morbida alternativa: voto o unità nazionale. Ma almeno si riserva il diritto di tracciare un percorso minato: il tempo dirà chi salterà per aria, anche perché i tempi di questa crisi appaiono lunghi a tutti gli attori in campo.

Ed eccola la prima mina. Se nascesse un nuovo governo, avverte Renzi, “sarebbe il quarto non votato dal popolo, dopo il colpo di stato del 2011, figlio di un parlamento illegittimo e del trasformismo di Alfano e Verdini”. Al Parlamento e al Pd la scelta. Al M5s i capi di accusa. Se Renzi potesse scegliere da solo, si metterebbe dalla parte dei capi di accusa.

La seconda mina è per la minoranza che ha votato no. “Pisapia solleva questioni non banali”, dice Renzi all’inizio del suo breve discorso. Pier Luigi Bersani è lì con i suoi. Massimo D’Alema non c’è. Per tutti loro il messaggio è questo: Renzi sta valutando intese con quella che definisce “la sinistra non ideologica”, quella dell’ex sindaco di Milano che si è schierato per il sì al referendum e ora offre a Renzi un’alleanza a patto che molli Alfano e Verdini. “Perché no?”, spiega un renzianissimo. “Se si va al voto, non ci interessa né di Alfano, né di Verdini”. E probabilmente nemmeno di Bersani e D’Alema. Perché si andrebbe al voto col proporzionale. E Renzi sta già mettendo sul piatto le sue chance. Sono scenari che non escludono niente. Nessuno vuole la scissione del Pd, ma un sistema non più maggioritario apre un ventaglio di ipotesi, nessuna esclusa.

La terza mina è di fatto la prima in ordine temporale. Di fatto Renzi parla alla direzione dopo aver già raccontato tutto nella sua enews, uscita da Palazzo Chigi calda calda per il web mezz’ora prima della riunione al Nazareno. E’ il suo schiaffo alla direzione che gli ha voltato le spalle. Renzi parla ai milioni di sì di domenica, voti che considera suoi. Non lesina chicche amare per la minoranza: “Qualcuno ha festeggiato la sconfitta, lo stile è come il coraggio di don Abbondio, ma non giudico e non biasimo, osservo e se possibile rilancio. Alzo anch’io il calice perché quando vieni indicato e designato dal Pd e hai la possibilità di governare, non hai il diritto di mettere il broncio. Chi fa politica col broncio e il vittimismo fa un danno a se stesso e non agli altri”.

Rimanda il dibattito in direzione a “dopo le consultazioni al Quirinale”, come spiega il presidente Matteo Orfini al senatore Walter Tocci che vorrebbe intervenire. La direzione è convocata in modo “permanente per consentire alla delegazione che va al Colle di riferire le novità”, spiega Renzi. Forse ci sarà una nuova riunione lunedì. La minoranza non gradisce. “Sono senza parole – dice il bersaniano Davide Zoggia – Il maggior partito del Paese non apre una discussione su quello che è successo. Capisco le esigenze istituzionali delle dimissioni del presidente del Consiglio, ma il partito deve discutere, analizzare”. Ma questo è solo l’inizio di uno scontro che non farà prigionieri.

Tra i renziani nella sala del Nazareno circola l’idea di presentare una legge elettorale in modo da anticipare e vanificare la sentenza della Consulta sull’Italicum. Magari un Mattarellum, la legge firmata dal presidente della Repubblica: chi potrebbe dire di no? Per ora esplicitamente ne parla il segretario dei Radicali Riccardo Magi: “Renzi ci ascolti e accolga la nostra proposta di una legge elettorale maggioritaria con collegi uninominali”. Magi è lo stesso che a luglio propose lo spacchettamento del voto referendario in più quesiti. “Probabilmente oggi Renzi rimpiange di non averci ascoltato allora”, dice. Il punto è che servirebbe un governo, Renzi ormai si è dimesso e a sera sembra tramontata anche l’ipotesi di un reincarico. A meno che non si riesca a sciogliere le Camere a fine gennaio, dicono dal quartier generale dell’ex premier.

Ma è lo stesso Renzi che ormai non esclude che possa nascere un governo di larghe intese. Per dire che le mine che ha piazzato in direzione sono tutt’altro che sicure per lui. Sa che al Senato, per dire, pezzi di Forza Italia, si sono proposti per sostenere un governo Franceschini. Anche se il ministro dei Beni Culturali uscente continua a opporsi all’idea di guidare un governo di scopo. Sa che nascerebbe contro il segretario del Pd, che sarebbe costretto ad appoggiare. Per poi bombardarlo da fuori, come con Enrico Letta. Mattarella è il primo a voler evitare uno scenario del genere. Troppo rischioso. Sul campo resta l’ipotesi di un esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, personalità che Renzi considera più fedele. Mentre sembra tramontata la carta Grasso e anche quella Padoan, dietro la quale Renzi teme un pericoloso attivismo dalemiano.

Ad ogni modo, pur rimanendo impostato sulla linea del voto a primavera nel discorso pubblico, Renzi si è mostrato più morbido con il presidente emerito Giorgio Napolitano al telefono poco prima della direzione. Sa che stavolta potrebbe perdere, i gruppi parlamentari premono per un governo che li garantisca almeno fino a ottobre, quando avranno maturato la pensione. L’unica carta che Renzi ha di certo a disposizione per tutto l’anno prossimo sono le candidature nelle liste delle prossime elezioni. Ad ogni modo non sarà lui a salire al Colle per le consultazioni. Per il Pd ci vanno il vicesegretario Guerini, il presidente Orfini e i due capigruppo Zanda e Rosato. Domani Renzi se ne va a Firenze “a festeggiare gli 86 anni della nonna e giocare alla playstation con mio figlio”. Lontano da Roma per farsi curare le ferite.
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Doping, la Wada accusa la Russia: “Test manipolati su ordine del Governo” – Il Sole 24 Ore


Il Sole 24 Ore

Doping, la Wada accusa la Russia: "Test manipolati su ordine del Governo"
Il Sole 24 Ore
Il più grande fenomeno di doping e di corruzione dello sport moderno. E' questa la scioccante sintesi del rapporto Wada, presentato a Ginevra, che accusa la Federazione russa di atletica di aver manipolato test antidoping con la complicità del
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