Disinnescare Alexis Tsipras, è questa la priorità in Europa?

Sbaglia chi pensa che il nuovo Premier Greco piegherà la testa non avendo previsto le mosse della BCE e della Commissione europea (che insieme al Fondo Monetario Internazionale compongono la Troika) perchè il suo successo elettorale ha forti radici. 

Alexis Tsipras per il suo popolo rappresenta molto più che una speranza e lui non ha nessuna intenzione di deludere le aspettative che vengono riposte nella sua azione di Governo.

Per la Commissione Europea, che da ieri sta facendo la voce grossa intimando a Tsipras di onorare gli impegni presi dai precedenti governi, il progetto del Premier greco potrebbe aprire una falla nella politica di austerity del vecchio continente; politica che forse si rivelerà giusta nel lungo termine ma che al momento sta creando non poche sofferenze a più di un popolo.

 

E’ indubbio che l’Unione Europea e le singole nazioni che la compongono debbano lavorare per la crescita ma è altrettanto indubbio che la crescita dipende dalle capacità economiche dei cittadini che costituiscono le comunità.
Quindi forse è giusto mettere in campo degli ammortizzatori (leggi Tempo) per consentire alle varie "anime" che compongono l’Europa di raggiungere l’armonia.

 

Tsipras viene visto come un pericolo per il "sistema economico" imperante eppure, fin dai primissimi giorni del suo insediamento, non ha mai manifestato intenzioni di "rivoltà" ma soltanto chiesto di poter adottare politiche che consentano al suo popolo di "tirare il fiato".

Ma i politicanti, non animati dal senso di responsabilità che dovrebbero dimostrare nei fatti i politici, legati l’un l’altro dal filo della mediocrità e appartenenti ad un sistema che ne perpetua la sopravvivenza, vedono in Tsipras un nemico delle loro comode poltrone.

 

Vero è che tanti, pur nelle difficoltà di ogni giorno sono sempre disponibili a farsi annebbiare la vista, da una partita di calcio o da una trasmissione trash, anzichè rendersi parte diligente per il loro futuro e quello delle nuove generazioni.

Il Premier greco si trova ad affrontare una sfida immane, ha sì il sostegno di grossa parte del suo popolo ma anche il problema di dover isolare chi gli tende la mano sinceramente da chi gli sorride complimentandosi ma è già pronto a disconoscerlo.

 

Greci e Italiani, benchè non omologabili in tutto, hanno vissuto per decenni indebitando figli, nipoti e pronipoti ma non creando infrastrutture e quindi possibilità di sviluppo e quindi posti di lavoro, bensì consentendo, ad eletti prima e nominati poi, di decidere per loro su ogni aspetto della loro vita ed il risultato è, oggi, platealmente sotto gli occhi del mondo intero.

Può bastare raccontare a tanta umanità sofferente, ai tanti che non coltivano più neanche la speranza, la favola della Cicala e la formica?

Non è necessariamente vero che i peccati dei padri debbano ricadere sulle spalle dei figli.

 

La Grecia ha diverse strade da intraprendere, pur mantenendo la volontà di onorare i debiti contratti dai governi precedenti: può recuperare la sua sovranità monetaria e magari instaurare per un periodo limitato la circolazione parallela sia dell’euro che di una valuta nazionale; può chiedere di uscire temporaneamente dall’Euro (del resto ci sono ancora diversi Paesi che pur facendo parte dell’UE non ne hanno adottato la moneta); ma potrebbe anche adottare soluzioni più drastiche se ci si trovasse costretta dall’intransigenza della Commissione Europea.

 

Del resto l’America non ha forse stampato e immesso sul mercato 1000 miliardi di dollari l’anno per uscire dalla crisi?

E la BCE non si appresta a fare altrettanto (il metodo è diverso ma la finalità è la stessa) finanziando i singoli Stati con l’acquisto di 50 miliardi di titoli al mese fino al (per ora) settembre 2016?

 

Ma torniamo a ragionare in piccolo; la gente deve poter acquistare, con il denaro di cui può disporre (attualmente poco per una grande massa di persone) quanto gli occorre per vivere dignitosamente tutti i giorni che compongono un mese; l’Euro, complici i governi dei paesi che non hanno vigilato, ha fatto raddoppiare e anche triplicare i prezzi; dove invece i governi hanno vigilato, vedi Germania, oggi un dentifricio della stessa marca (un esempio fra tanti) costa la metà di quanto costa in Italia.

Il problema quindi non è uscire dall’Euro come vagheggia Beppe Grillo bensì riportare i prezzi al valore reale e in parte sta già avvenendo: in Italia continuano ad esserci grossi sprechi (come dimostra una recente ricerca) ma la grande distribuzione sta abbassando le penne per tentare di frenare il calo, sempre più marcato, degli acquisti.

 

E la benzina? Chi ci sta speculando oltre la lecita misura?

Al prezzo attuale di un barile di petrolio, dovremmo pagare un litro di gasolio alla pompa non più di 65/70 centesimi, compreso l’esosissimo 75% di tasse, invece si fatica a trovare distributori che lo vendano sotto 1,3 Euro. come mai?

 

Dietro ai numeri, alle parole, alle poltrone, ci sono uomini e donne che non dovrebbero mai dimenticare, se volessero onorare il loro mandato, che davanti hanno altri uomini e donne e bambini.

Chissà, magari Tsipras potrà trovare fuori dall’Europa alleati quali l’onnipresente Cina o magari il Brasile, benchè, si sa, nessuno fa niente per niente; ma Alexis per il suo popolo è una speranza che nessuno dovrebbe cercare di spegnere sul nascere e che invece, ovunque, tutti dovrebbero sentire il dovere di coltivare.

 

Master Viaggi News – Economia e Finanza (Ultime 10 News Inserite)

G-20, il protezionismo non è più un tabù. Scontro fra Usa e Europa su economia e ambiente. Il ruolo della Cina

I primi segni dell’impronta che l’America di Donald Trump vorrebbe dare all’economia mondiale si sono manifestati nel compromesso al ribasso adottato dal G-20 di Baden Baden, in Germania. Nella dichiarazione finale poche e deboli parole (“Lavoriamo per rafforzare il contributo del commercio alle nostre economie”) e un grande assente: la lotta al protezionismo che negli ultimi dieci anni era stato il tratto distintivo dei big dell’economia e della finanza. La musica è cambiata e il marchio del direttore d’orchestra, cioè il presidente degli Stati Uniti, ha portato a una riscrittura dello spartito che l’economia globale si appresta a eseguire. Come e in che misura è ancora da verificare e dipenderà da come gli altri player proveranno a rilanciare la propria visione.

Tutto in uno scenario dove la dialettica-scontro tra il protezionismo e il libero scambio si intreccia a interessi nazionali, come quello del suprlus della Germania e di una Cina che ha la necessità di spingere sull’acceleratore del liberismo puro per reggere il passo di un’economia americana ritornata sugli scudi.

Se a ciò si aggiunge che il comunicato del G-20 non fa riferimento alla lotta ai cambiamenti climatici, suggellata con l’accordo di Parigi Cop21, si capisce bene come Trump non solo abbia rovesciato le politiche del suo predecessore, Barack Obama, ma abbia anche rotto gli equilibri che avevano avvicinato i tre player mondiali più influenti, cioè Usa, Cina ed Europa.

Il silenzio del G-20 sul contrasto al protezionismo segna il terzo step della strategia dispiegata da The Donald negli ultimi giorni, dopo i tagli del 30% all’Agenzia per la protezione ambientale previsti nel piano americano “American first” e la linea di chiusura sugli immigrati e i rifugiati, ribadita ieri nell’incontro alla Casa Bianca con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Uno schema, quello del protezionismo, che Trump mira a inserire nel contesto dell’economia mondiale come fattore destabilizzante di un quadro caratterizzato da forte instabilità e da una crescita che vacilla, soprattutto in Europa. Trump ha affidato al segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, la sua strategia al G-20. “Crediamo in un commercio libero, ma equilibrato, che riduca gli eccessi”, ha affermato Mnuchin e il tema che animerà da oggi in poi l’economia globale sta proprio nel punto di caduta di questo equilibrio.

Gli Usa vogliono un equilibrio che miri a proteggere maggiormente la loro economia rispetto ad oggi. Per l’America la minaccia è la grande esposizione che molti Paesi, Germania in primis, hanno verso il suo mercato. Basta pensare a Berlino: l’export tedesco negli Stati Uniti ha toccato quota 113,73 miliardi, mentre il flusso inverso, cioè le importazioni di prodotti e merci americane in Germania sono state appena pari a 59,30 miliardi. Una differenza che per Berlino vale un surplus di quasi 50 miliardi di euro. Troppo per non spingere Trump a correre ai ripari: prima la minaccia di introdurre una tassa sulle importazioni delle Bmw prodotte in Messico. In attesa di capire se il presidente americano passerà alle misure pesanti, come la border tax per frenare le importazioni, gli Usa danno un primo segnale, e forte, al G-20, ma non chiudono la porta in faccia agli altri Paesi. Per questo Mnuchin si dice “fiducioso” di riuscire a collaborare “costruttivamente” sui macro temi della crescita globale e della stabilità finanziaria. E il braccio di ferro potrebbe passare anche attraverso il cambio del dollaro. Con la Banca centrale europea che potrebbe finire sotto ulteriore pressione per una normalizzazione monetaria che pone un sacco di problemi, in Europa e in Italia.

Il dinamismo dell’America si contrappone alla posizione degli altri player. La Cina esce sconfitta da questo G-20: le raccomandazioni del ministro delle Finanze, Xiao Jie, sulla necessità di opporsi al protezionismo “in modo deciso” si sono rivelate insufficienti per far convergere il G-20 su una posizione diversa rispetto a quella assunta nel comunicato finale. A pagare lo scotto di un’America che vuole lasciare il segno è anche l’Europa. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha affermato chiaramente che ci aspettava ben altro sul tema del commercio. Lecca le ferite anche la Francia, che aveva fatto da casa madre all’accordo sul clima di Parigi. Il ministro dell’Economia francese, Michel Sapin, esprime tutto il suo rammarico per il fatto che nella dichiarazione finale non si faccia riferimento al tema dell’ambiente. “È un vero peccato che nelle discussione odierna siamo stati incapaci di raggiungere qualsiasi accordo soddisfacente”. Parole di resa.

La partita per la direzione da imprimere all’economia globale è entrata nel vivo. Intanto, per non farsi troppo male, i Paesi del G-20 hanno deciso di non dare vita a una guerra tra le valute: si sono impegnati a consultarsi in modo assiduo sui tassi di cambio e a evitare svalutazioni competitive. Sarà una sfida alla pari. Almeno sulla carta.


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