Donald Trump presidente degli Stati Uniti: il ruolo chiave della middle-class operaia nel Midwest dietro la vittoria del tycoon

La verità sta nel mezzo, “in the middle”. E, per essere precisi, nella middle-class del Midwest. Le ragioni che hanno portato Donald Trump a diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America non sono né politiche né tantomeno culturali. A poche ore dalla vittoria del tycoon newyorchese si vanno sempre più delineando, se si incrociano i voti ottenuti nei singoli Stati e i dati su economia e lavoro, i motivi che hanno spinto gli americani a credere che fosse The Donald l’uomo giusto per rendere l’America “great again”.

L’American dream, per realizzarsi di nuovo, ha bisogno di depurare il tessuto industriale ed economico dagli effetti della globalizzazione e della delocalizzazione e di rimettere al centro il lavoro del cittadino americano: è questo il messaggio che sembra uscire dalle urne. Per capire, però, gli squilibri economici che hanno reso il terreno fertile per la vittoria di Trump è necessario partire da alcuni dati.

Negli Stati Uniti i numeri ufficiali riportati dall’Ufficio delle Statistiche del lavoro parlano di un tasso di disoccupazione al 4,7%. Un numero che disegna un quadro occupazionale roseo ma che non rappresenta affatto la realtà. Non si tiene conto, infatti, dei cittadini americani che non partecipano al mercato del lavoro, i cosiddetti “not in labour force”: gli inattivi in America ammontano a circa 90 milioni di persone. Cifra considerevole che però scompare dalle stime ufficiali e che disegna una realtà dai contorni più foschi dello stato occupazionale Usa.

Non è finita qui: come ha riportato Martin Wolf sulle pagine del Financial Times, l’incidenza della quota lavoro sul prodotto interno lordo americano è calato, dal 2001 al 2014, dal 64,6% al 60,4%. Si tratta di un dato che conferma come l’evoluzione dell’economia americana verso la finanziarizzazione e l’innovazione tecnologica lasci uno strascico pesante sui redditi delle famiglie. Redditi che sono aumentati del 5,2% tra il 2014 e il 2015 ma restano comunque al di sotto del livello pre-crisi Lehman Brothers.

Come ricorda il giornalista del Sole 24 Ore Vito Lops, inoltre, dal 2008 al 2016 i cittadini americani costretti a ricorrere ai food stamps (buoni alimentari) sono aumentati del 60%, passando da 28 a 45 milioni. E’ in questo contesto che si va ad inserire la vittoria di Donald Trump che ha fatto di tutto, durante la campagna elettorale, per accreditarsi come il vero oppositore dell’establishment e dello status quo, aiutato anche dalla debolezza della sua rivale Hillary Clinton, troppo legata nell’immaginario collettivo ai poteri forti di Wall Street e simbolo della continuità del potere.

La verità “in the middle”, si diceva. E in effetti è il caso di sottolineare il voto di alcuni Stati che rappresentano la spina dorsale della working class americana. Sono le roccaforti del Midwest: il Michigan, con la sua capitale Detroit un tempo centro nodale del modello fordista e oggi piegata dalla crisi industriale, il Wisconsin agricolo e manifatturiero e la Pennsylvania (più orientale ma comunque a trazione industriale) democratica dal 1992, con i suoi 20 Grandi Elettori. E poi il Nord e il Sud Dakota, Iowa e Kansas. Trump ha poi vinto in Ohio, uno degli swing states che con le sue due principali città, Columbus e Cleveland, è un bacino di voti operai impiegati in impianti siderurgici, meccanici, chimici e in particolare di gomma. Ha di certo contribuito, poi, la vittoria in Florida, altro grande stato attenzionato alla vigilia del voto con i suoi 29 Grandi Elettori. Ma, tornando al Midwest, la Clinton è riuscita a far breccia solo nel Minnesota e in Illinois.

Non è un caso: come fa notare il sito Fivethirtyeight fondato dal mago dei sondaggi Nate Silver, gli Stati del Midwest che Trump si è aggiudicato sono quelli più colpiti dalle importazioni di prodotti cinesi. Un’area identificata dall’economista David Autor del Mit come tra le più colpite dagli effetti della globalizzazione e dove le diseguaglianze hanno raggiunto la maggiore ampiezza nella forbice sociale, traducendosi nella perdita di due milioni di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011.

Il 22 ottobre a Gettysburg, nella Pennsylvania che vive una profonda crisi in particolare nel settore siderurgico, Trump ha tenuto il suo discorso programmatico, stipulando un “Contratto con gli elettori americani”, e ha messo in chiaro alcuni punti centrali della Trumponomics: una nuova riforma fiscale che prevede l’abbassamento dell’aliquota fiscale per le aziende dal 35 al 15%; revisione o cancellazione di tutti i trattati commerciali e gli accordi di libero scambio, come il Nafta (per l’America del Nord), Tpp (con i paesi dell’Area pacifica tranne “l’odiata” Cina) e il Ttip che in Europa abbiamo già avuto modo di studiare; l’aumento dei dazi sulle merci importate; la dichiarazione di una “guerra commerciale” alla Cina che ha “stuprato” gli Stati Uniti facendosi artefice del “più grande furto della storia del mondo” grazie alla manipolazione della sua moneta, lo yuan. In sintesi, la transizione da un’economia liberista al protezionismo e all’isolazionismo.

Guerra commerciale alla Cina e ai frutti marci della delocalizzione da un lato, guerra alla finanza di Wall Street e ai lobbisti dall’altro. Così il magnate di New York è riuscito a diventare l’uomo giusto per la middle-class americana, diventando il terminale del sentimento di rivalsa del ceto operaio, rimasto indietro per via dei processi di globalizzazione che hanno favorito quei Paesi più forniti di manodopera a basso costo piegando il settore manifatturiero americano.

Con una propaganda forte e una ricetta economica estremista, Trump ora è chiamato a dar seguito alle promesse fatte nei mesi di campagna elettorale, conciliando il Donald politico con il Donald Presidente degli Stati Uniti. Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva un voto che parla (anche) all’Europa, mostrando tutti i guasti prodotti da un modello economico che ha dimenticato il ruolo centrale delle forze lavoratrici. Il Re è nudo, l’Europa è avvisata.
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Donald Trump presidente, il sito immigrazione canadese in tilt per le troppe richieste di accesso

Il sito ufficiale del Canada dedicato ai servizi di informazione per ottenere il visto d’ingresso – immigration service – è “irraggiungibile”. Lo riferiscono i media internazionali i quali sottolineano che “il tilt è probabilmente legato” alla vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa. Evidentemente c’è chi sta pianificando di lasciare gli Stati Uniti per trasferirsi nella nazione vicina.

Il primo Ministro canadese Justin Trudeau aveva scherzato quando aveva detto di essere disposto a dare il benvenuto agli americani; ma la sua potrebbe rivelarsi una profezia. A febbraio disse che il Canada “dà sempre il benvenuto”. Si stima che circa un milione di americani stia vivendo attualmente in Canada.

Anche le autorità dell’immigrazione della Nuova Zelanda hanno dichiarato che dal primo novembre il sito web New Zealand Now, che si occupa di visti di residenza e studenteschi, ha ricevuto 1.953 registrazioni da cittadini americani: il numero è più che doppio rispetto al numero consueto di una settimana tipica. Le visite al sito web dagli Usa sono aumentate dell’80% a 41mila dal 7 ottobre al 7 novembre, paragonato allo scorso anno.


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Donald Trump sbircia il voto di Melania, ironia sul web: controlla che stia votando per lui?

Donald Trump sembra buttare un occhio sul voto di Melania. L’immagine dei coniugi Trump che votano uno accanto all’altra, con Donald che sembra sbirciare il voto della moglie è stata ripresa dalla Cnn. E subito ha scatenato le ironie di molti utenti su Twitter, che si sono chiesti se Donald aveva dei dubbi sul voto di Melania.

Donald e Melania hanno votato a New York, in un seggio nell’Upper East Side. Trump, con indosso una cravatta blu, ha salutato i suoi sostenitori. Accanto Melania, vestita di bianco con grandi occhiali e cappotto color cammello. Trump si sofferma con un bambino, che ha allestito un banchetto all’interno del seggio per vendere dei biscotti. Trump ne acquista uno e lo paga al bimbo. Al suo arrivo al seggio Trump è stato accolto dagli applausi e il saluto di molti elettori in fila, ma anche da alcuni fischi. Prima del suo arrivo una donna a seno nudo con una scritta anti-Trump introdottasi nel seggio è stata portata via dagli agenti. Quando i giornalisti gli hanno chiesto del voto, il tycoon ha scherzato: “E’ una decisione molto difficile”. Accanto a lui, oltre alla moglie Melania anche la figlia Ivanka accompagnata da uno dei figli.


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La differenza tra Barack Obama e Donald Trump in due foto: l’amore per le donne contro il sessismo

Ha ricevuto una pioggia di critiche per le intercettazioni rubate in cui raccontava di averci provato pesantemente con una donna sposata e con una prostituta, mostrando di non aver certo rispetto per il gentil sesso. Ha pronunciato più volte in passato frasi infamanti verso le donne di ogni età, peso e razza, senza curarsi di essere neanche lontanamente politically correct.

Ma proprio questo atteggiamento sprezzante e provocatorio gli è tornato indietro come un boomerang nelle ultime settimane, facendogli perdere molti punti percentuali nei sondaggi che lo vedono contrapposto a Hillary Clinton per la corsa alla Casa Bianca. E questa foto dimostra perfettamente perché Donald Trump non sia di certo un uomo di stile.

Un addetto alle pubbliche relazioni, James Melville, ha voluto sottolineare quanta differenza ci sia tra l’uomo che potrebbe diventare presidente degli Stati Uniti alle prossime elezioni politiche americane e l’attuale premier in carica, Barack Obama. Per farlo ha postato sul suo profilo Twitter due foto, che ritraggono Obama e Trump in una medesima situazione, ma mostrando due comportamenti completamente differenti.

In una giornata di diluvio come tante, infatti, il primo presidente americano di colore e il miliardario del Queens hanno dovuto attraversare un luogo non protetto dalla pioggia, esponendosi alle intemperie. Accompagnati entrambi da due donne (dalla moglie Michelle nel caso di Obama e dalla collega Pam Bondi nel caso di Trump), i due avevano a disposizioni un solo ombrello. Usato, tuttavia, in maniera molto diversa.

Nella foto scattata nell’aprile del 2013 all’Andrews’ Air Force, Barack Obama – che si è sempre dimostrato molto cavalleresco e cortese nei confronti della moglie – ha lasciato che a coprirsi dalla pioggia copiosa fosse Michelle (nella foto sullo sfondo, in abito blu), camminando totalmente scoperto sotto il diluvio.

Al contrario, in una simile circostanza – era il 24 agosto del 2016, in Florida – il tycoon ha tenuto per sé l’ombrello, lasciando la repubblicana Pam Bondi – vicinissima a lui – a prendere l’acqua che scendeva giù dal cielo. Eppure, solo 3 anni prima la Bondi lo aveva graziato, rinunciando a perseguire un caso di frode riconducibile al biondo candidato alla Casa Bianca.

La foto ha fatto il giro del social network di San Francisco e ha ottenuto più di 15mila apprezzamenti in pochissimo tempo, per il suo evidente valore simbolico: la capacità del presidente in carica di prendersi cura degli altri e di rispettare le donne, contrapposta all’egoismo più basso, che non risparmia neanche i propri colleghi di partito.

“Un’immagine può veramente far capire molte cose, e questa lo fa” commenta un utente sotto il tweet di Melville, mentre un altro è più ironico e annota: “Quel che è certo è che la Casa Bianca deve investire nel comprare più ombrelli”. Ironia a parte, pare che gli elettori americani abbiano preso questa foto molto sul serio.
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Le gaffe sessiste di Donald Trump: da Hillary Clinton a Miss Piggy

Le gaffe sessiste di Donald Trump dall’inizio della campagna elettorale per le presidenziali quasi non si contano, e hanno preso di mira molti personaggi famosi, a partire da Hillary Clinton. Anche se lui ha sempre cercato di sminuire le sue frasi ‘politicamente scorrette’ declassandole a battute, a goliardate.

Come nell’ultimo scandalo del video in cui ha parlato di “chiacchiere da spogliatoio”. Ecco i principali episodi:
HILLARY CLINTON. “Io so dove è andata. E’ disgustoso….troppo disgustosò, disse il tycoon commentando il ritardo con cui l’ex first lady, durante un dibattito delle primarie, arrivò sul palco dopo l’intervallo, probabilmente per una pausa alla toilette.

CARLY FIORINA. “Guardate che faccia che ha, chi la voterebbe? Con quella faccia può fare il presidente?”. Così Trump si rivolse durante un dibattito delle primarie alla rivale ex amministratore delegato di Hp.

MEGYN KELLY. “Si vedeva che aveva il sangue agli occhi, il sangue le usciva dappertutto…”. Parole rivolte alla famosa anchorwoman di Fox rea, secondo il tycoon, di averle fatto domande troppo aggressive ancora durante un dibattito nel corso delle primarie.

ALICIA MACHADO. “E’ disgustosa”: cosi Trump si è rivolto all’ex Miss Universo che aveva preso in giro per essersi ingrassata, tanto da meritarsi per il tycoon il soprannome di ‘Miss Piggy’.

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Il Nyt pubblica dichiarazione redditi di Donald Trump: potrebbe avere evaso le tasse per 18 anni. La replica: “Falso”

Il New York Times ha ottenuto e pubblicato la dichiarazione dei redditi di Donald Trump per il 1995 e dall’analisi dei documenti effettuata da esperti consultati dal giornale emerge che l’attuale candidato repubblicano per la presidenza degli Stati Uniti ha usufruito di una detrazione tale che potrebbe poi avergli concesso, in maniera legale, di non pagare le imposte federali sul reddito per 18 anni.

I documenti ottenuti dal New York Times non sono mai stati resi pubblici prima e mostrano che nella dichiarazione dei redditi per il 1995 di Donald Trump risulta una perdita pari a 916 milioni di dollari e una deduzione fiscale di quella entità – si spiega – potrebbe appunto avergli consentito di godere legalmente dello ‘sconto’ sulle imposte federali per quasi due decenni successivi. Sebbene infatti il reddito di Trump soggetto a tassazione per gli anni successivi resti sconosciuto, dichiarare una tale perdita per quell’anno potrebbe averlo messo nelle condizioni di ‘cancellare’ oltre 50 milioni di dollari all’anno di reddito imponibile per oltre 18 anni. Gli esperti fiscalisti interpellati dal New York Times sottolineano come alcune regole fiscali particolarmente vantaggiose per i più facoltosi possono aver consentito a Trump di utilizzare la perdita dichiarata per cancellare una somma equivalente di reddito imponibile in un periodo di 18 anni. Una “indennità fiscale straordinaria”, nota il giornale, “che Trump ha tratto dallo sfascio finanziario che si lascio’ alle spalle all’inizio degli anni attraverso la cattiva gestione di tre casino’ ad Atlantic City, la sventurata incursione nel settore delle compagnie aeree e l’intempestivo acquisto del Plaza Hotel a Manhattan”. Trump ha declinato di commentare sui documenti, riferisce ancora il New York Times, ma il suo staff ha diffuso una nota che non contesta né conferma la somma indicata di 916 milioni di dollari.

LA REPLICA – “L’unica notizia qui è che un documento fiscale di oltre vent’anni fa è stato ottenuto illegalmente, un’ulteriore dimostrazione che il New York Times, come i media dell’establishment in generale, è un’estensione della campagna per Clinton, del Partito Democratico e dei loro speciali interessi globali”. E’ la replica, attraverso una nota diffusa dallo staff per la campagna elettorale di Donald Trump, alla pubblicazione da parte del New York Times di una dichiarazione dei redditi del tycoon risalente al 1995 e mai diffusa prima. Il candidato repubblicano per la presidenza degli Usa non ha infatti fino ad ora risposto alle richieste di pubblicare le sue dichiarazioni dei redditi. “Mr Trump è un uomo d’affari molto abile – si legge ancora nel comunicato – che ha la responsabilità verso i suoi affari, la sua famiglia e i suoi dipendenti di non pagare più tasse di quanto sia legalmente richiesto. Detto questo Mr Trump ha pagato centinaia di milioni di dollari in tasse”.

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