Conti pubblici, Dombrovskis elogia l’impegno dell’Italia sulla manovra. Padoan: “Direzione giusta”

“Sulla correzione dei conti pubblici, pari allo 0,2% del Pil, c’è un impegno molto concreto reiterato da tutti i ministri e da tutto l’establishment. Il tempo ci dirà come andrà la manovra che verrà varata in primavera”. A sottolinearlo è il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, al termine dell’incontro al Mef con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.

“L’Italia avrà quest’anno una crescita di circa l’1%. E’ una ripresa modesta, è molto importante rimanere in rotta rispetto alla traiettoria fiscale e di riforme” continua Dombrovskis.

A stretto giro risponde soddisfatto Padoan. “I nostri sforzi vengono riconosciuti, stiamo andando nella direzione giusta” ha detto il ministro dell’Economia precisando che nel bilaterale non sono state approfondite misure specifiche sul debito. Tuttavia “la crescita nominale pensiamo migliorerà sia in termini di Pil che di inflazione”, ha aggiunto.
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Congresso Pd: A.A.A. cercasi avversario anti-Renzi. Nessun segnale a Emiliano: domani Matteo non parla in direzione

“A.A.A cercasi avversario per primarie che non siano finte e che non siano un flop”. Al Nazareno lo potrebbero scrivere anche in bacheca all’ingresso, visto che da ieri sera, mentre infuriano i venti (incerti) di scissione sul Pd, la ricerca è ufficialmente iniziata. Matteo Renzi infatti non ha intenzione di fare ulteriori concessioni. Domani, se sarà presente in direzione nazionale, nemmeno prenderà la parola, in quanto da ieri è “segretario dimissionario”, sottolineano dal Nazareno. Quindi l’ultima richiesta di Michele Emiliano (“Un segnale e resto”) cade nel vuoto. “Renzi parli in direzione”, chiede Francesco Boccia, vicino a Emiliano. Ma per Renzi e per il reggente Matteo Orfini quella di domani sarà solo una direzione “burocratica” che elegge la commissione congressuale. Il dibattito è finito ieri in assemblea. Il tempo è scaduto.

E allora al Nazareno si mette in conto l’eventuale abbandono del campo da parte di tutti e tre i candidati alternativi a Renzi: Enrico Rossi, Roberto Speranza e anche Michele Emiliano. Il problema è serio: il segretario fa le primarie da solo? Da ieri Renzi fa trapelare che Cesare Damiano sarebbe un buon candidato per la sinistra del partito: non ha in mente propositi scissionisti, viene dalla Cgil, insomma può essere una certezza per giocare la partita o almeno una partita. Già perché comunque Renzi vorrebbe anche che le primarie siano un successo, con le code ai gazebo. Un partito ferito dalla scissione può garantire questo risultato?

I luogotenenti renziani sono alla ricerca di una risposta. Obiettivo: trovare un modo per rivitalizzare quel che rimarrà del Pd dopo la scissione. Non a caso i renziani la chiamano “abbandono della minoranza”, già sono al lavoro per esorcizzare il demone della spaccatura: almeno con il linguaggio. Missione: non finire come Forza Italia che ha sempre votato il leader, l’unico leader, Silvio Berlusconi per acclamazione.

Già il passo in avanti di Andrea Orlando, che offre di candidarsi se non c’è la scissione, potrebbe risolvere il problema, dar vita alla battaglia. Ma se il Guardasigilli non ha truppe non si candida, risulta al quartier generale renziano. “Non vuole fare un congresso finto”, dicono dall’attuale maggioranza del partito. E allora chi? Al di là delle preferenze del segretario – che già è ben strano che sia lui a scegliersi e invogliare l’avversario – lo stesso Damiano conferma con Huffington Post che lui rimane a “presidiare il campo alternativo a Renzi nel Pd”. E insieme a Gianni Cuperlo è partita anche dalla stessa sinistra la ricerca del candidato da contrapporre al segretario.

Chi sarà, dipende molto dalle scelte finali di Orlando. Ma si tratta di un’area che potrebbe rimettere insieme ex Diessini del calibro di Anna Finocchiaro, ora ministro per i Rapporti col Parlamento, una parte dell’area di Maurizio Martina, se non proprio lo stesso ministro all’Agricoltura che finora è rimasto al fianco di Renzi. E poi anche una parte di Giovani Turchi, quelli che stanno con Orlando e non con Matteo Orfini, il presidente alleato con Renzi.

“E’ una forza di sinistra che va presidiata, va rappresentata. Anche nel caso in cui corresse pure Emiliano”, ci dice Damiano in Transatlantico alla Camera.

Ecco il punto. Nella sua ricerca di un avversario per giustificare le primarie, Renzi ha chiaro in testa che l’ideale sarebbe avere sfidanti che mobilitano le masse. E in questo Emiliano è una garanzia: agitatore di popolo, toni alti, un po’ grillino, anti-renziano con stile renziano, alla fine. Insomma, paradossalmente il governatore pugliese potrebbe rianimare un partito esangue. Se in gara ci fosse anche lui, oltre al candidato della sinistra, il gioco sarebbe fatto. E sarebbe esorcizzato anche l’altro demone: ovvero riproporre alle primarie la vecchia contrapposizione Ds-Margherita, da una parte gli ex Pci, dall’altra Renzi.

Certo, alla fine dei conti, resta da vedere come risponderà la base dopo lo spettacolo di questi giorni.

Sono questi i calcoli della vigilia di una direzione nazionale (domani alle 15 al Nazareno) che – colpo di scena – potrebbe non mettere un punto alla saga della scissione. Come l’assemblea di ieri, insomma: ancora limbo, a meno che gli scissionisti non decidano di stracciare la tessera e dire esplicitamente addio. Finora i più chiari in questo senso sono stati Speranza e Rossi, annunciando di non partecipare alla direzione. Ma anche se non entrano nella commissione congressuale che verrà eletta domani, possono sempre entrarci in un secondo momento. In quanto da statuto la commissione viene integrata di un rappresentante per candidato al momento della presentazione delle candidature ufficiali.

In Transatlantico alla Camera ce lo spiega Antonello Giacomelli, sottosegretario allo Sviluppo Economico, esponente dell’area di Franceschini (Areadem), uno che ieri non ha avuto peli sulla lingua a dire in assemblea “Il congresso si chiude prima delle amministrative”, prendendo la parola subito dopo Emiliano. “E’ un diritto del candidato alla segreteria avere un proprio rappresentante nella commissione, non un obbligo – dice Giacomelli – E comunque possono entrarci anche solo al momento della presentazione della candidatura ufficiale”.

Al congresso del 2013 la commissione congressuale era composta da 19 esponenti, di cui un solo renziano: Lorenzo Guerini. Ad ogni modo, domani la direzione non indicherà date né per le primarie, né per la presentazione ufficiale dei candidati. Sarà la commissione congressuale a stabilirle. Quando? Nel più breve tempo possibile, confida Renzi che, man mano che si consuma la ‘saga’ della scissione, immagina i gazebo nel periodo che va dal 9 aprile al 7 maggio, al massimo. Ad oggi infatti sembra caduta anche l’ultima idea del 14 maggio, pensata ieri per dare una settimana in più a Emiliano.
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Direzione Pd, la minoranza non ci sta: “Se è così si avvicina la scissione”. Pressing su Orlando per candidarsi contro Renzi

Alle 19,30, si materializza lo spettro della scissione. Roberto Speranza, seduto vicino a Davide Zoggia, sussurra: “Vedi, il re è nudo. Non hanno fatto votare il sostegno al governo fino al 2018, perché il congresso in tempi brevi gli serve per poi tirare giù il governo e andare al voto”. Il che, negli effetti, porta a una linea riassunta in una parola, che fa tremare le vene ai polsi, per chi è cresciuto col mito della disciplina di partito: scissione: “Se l’obiettivo – dichiara Speranza – è un congresso- lampo per poi andare a un voto-lampo, non c’è più il Pd, diventa il partito dell’avventura. Questo per noi crea un problema enorme. Non si capisce come si può andare al voto senza una legge elettorale che può garantire un minimo di governabilità”.

Il riferimento è all’ordine del giorno presentato dalla minoranza, non messo ai voti. E a quello su congresso subito, stravotato. Pare una questione procedurale, ma è sostanza politica. La proposta era: una conferenza programmatica, come aveva chiesto il ministro Orlando, poi un congresso a ottobre, dunque voto. Uno degli estensori del documento dice: “Si era aperta una trattativa e alcuni renziani erano anche d’accordo, ma Renzi e soprattutto Orfini l’hanno chiusa, e hanno optato sulla forzatura votando solo il loro ordine del giorno, così Renzi si tiene le mani libere sul governo”.

È il momento più teso del pomeriggio. Dalla sala qualcuno urla: “Votiamo per parti separate”. La forzatura suona anche come uno schiaffo al protagonista dell’unica, vera, mediazione alla luce del sole, come si sarebbe detto una volta. Appunto Andrea Orlando. Il quale, non a caso, alla fine non ha partecipato al voto. Nel suo intervento il guardasigilli aveva suggerito un percorso diverso, bacchettando al tempo stesso la minoranza per la “campagna di delegittimazione” quotidiana del segretario e Renzi perché “i caminetti sono iniziati perché manca una proposta politica forte”. E fare le primarie per legittimare il leader senza discutere in una conferenza programmatica di una piattaforma politica è come “fare le tagliatelle con una macchina da scrivere”.

“Andrea candidati”, “a questo punto è una via obbligata”. Il pressing sul guardasigilli parte dai suoi, che anche sul territorio danno segnali di insofferenza, come in Veneto dove i “turchi” e “sinistra” si sono riuniti. Per ora, Orlando ha declinato l’offerta, anche perché non è chiaro il dove candidarsi. Perché la scissione è un’ipotesi molto concreta. Anzi cresce. Perché dietro il dibattito, criptico, sul congresso c’è tutto il tema del voto, in tutte le sue sfumature. Che vanno dalla “responsabilità verso il paese” alla formazione delle liste. Detto in termini prosaici, la sinistra non condivide l’accelerazione sul governo, che in altri tempi si sarebbe chiamata la linea della “crisi e dell’avventura” e al tempo stesso non si fida di Renzi: “Lui – dicono – vuole una rilegittimazione, per avere le mani libere sul voto e farsi le liste come vuole lui e nelle liste fare l’epurazione”. In questo quadro, se di qui a domenica non ci saranno novità, meglio non partecipare al congresso. Michele Emiliano, e non solo lui, sabato aveva già avuto l’idea di non partecipare alla direzione, prevedendo come sarebbe andata. “Non diamogli alibi” gli hanno detto gli altri.

Con l’ordine del giorno si ripresenta il convitato di pietra, il governo e il voto anticipato. Argomento sul quale provano a “stanare” Renzi sia Bersani sia Roberto Speranza, dopo che l’ex premier non aveva chiarito la mission del governo né il percorso sulla legge elettorale: “La prima cosa che dobbiamo dire – scandisce Bersani – è quando si vota. Non possiamo lasciare un punto interrogativo sulle sorti del nostro governo. Io propongo che noi non solo diciamo, ma garantiamo all’Europa, ai mercati agli italiani, la conclusione normale e ordinata della legislatura”.

L’intervento dell’ex segretario ha un grande valore simbolico. E prepara la grande rottura perché – questo è il ragionamento – “se esce lui, non si può dire che se ne vanno quattro gatti, ma non c’è più il Pd”. Negli ultimi giorni ci sono stati contatti anche con Pisapia. Solo la disponibilità di Orlando, di qui a domenica, potrebbe cambiare lo schema. E il terreno su cui in parecchi cercano di convincerlo è il governo: “Se Renzi forza sul governo come evidente, si rende protagonista della crisi istituzionale e tu ti devi intestare la linea della responsabilità”.
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La resistenza di Matteo Renzi in direzione Pd: “Governo di tutti o voto”. E medita l’alleanza con Pisapia

“Se le altre forze politiche vogliono andare a votare subito dopo la sentenza della Consulta sulla legge elettorale, lo dicano chiaramente. Il Pd non ha paura della democrazia. Se invece vogliono un nuovo governo che affronti la legge elettorale e gli appuntamenti internazionali del 2017, il Pd si assume questa responsabilità, ma non può essere il solo. Abbiamo pagato già un prezzo per la responsabilità nazionale”. Canto del cigno o rilancio? Si vedrà. Matteo Renzi lascia la sua proposta sul tavolo della direzione del Pd e sale al Quirinale per dimettersi da premier. Un primo capitolo di questa crisi si chiude. Si apre quello incerto della nascita di un nuovo esecutivo e della certa resa dei conti nel Pd. “Il passaggio interno al partito sarà duro, ma prima viene la crisi di governo”, annuncia il segretario, col sorriso come lama tagliente nella sala gremita al Nazareno.

Il suo è l’inizio della resistenza dentro il partito che in questi giorni gli si è mosso contro. E’ la reazione alle mosse della sua (ex) maggioranza, da Franceschini a Orlando fino a Delrio, che ieri lo hanno costretto a rivedere la relazione per la direzione. Avrebbe voluto fare il Renzi e dire “al voto, al voto subito”, magari già a febbraio subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum, che i renziani considerano auto-applicativa, cioè valida anche senza un intervento del Parlamento. Invece ha dovuto rivedere tutto, toni e merito. Ne è uscita una semi-morbida alternativa: voto o unità nazionale. Ma almeno si riserva il diritto di tracciare un percorso minato: il tempo dirà chi salterà per aria, anche perché i tempi di questa crisi appaiono lunghi a tutti gli attori in campo.

Ed eccola la prima mina. Se nascesse un nuovo governo, avverte Renzi, “sarebbe il quarto non votato dal popolo, dopo il colpo di stato del 2011, figlio di un parlamento illegittimo e del trasformismo di Alfano e Verdini”. Al Parlamento e al Pd la scelta. Al M5s i capi di accusa. Se Renzi potesse scegliere da solo, si metterebbe dalla parte dei capi di accusa.

La seconda mina è per la minoranza che ha votato no. “Pisapia solleva questioni non banali”, dice Renzi all’inizio del suo breve discorso. Pier Luigi Bersani è lì con i suoi. Massimo D’Alema non c’è. Per tutti loro il messaggio è questo: Renzi sta valutando intese con quella che definisce “la sinistra non ideologica”, quella dell’ex sindaco di Milano che si è schierato per il sì al referendum e ora offre a Renzi un’alleanza a patto che molli Alfano e Verdini. “Perché no?”, spiega un renzianissimo. “Se si va al voto, non ci interessa né di Alfano, né di Verdini”. E probabilmente nemmeno di Bersani e D’Alema. Perché si andrebbe al voto col proporzionale. E Renzi sta già mettendo sul piatto le sue chance. Sono scenari che non escludono niente. Nessuno vuole la scissione del Pd, ma un sistema non più maggioritario apre un ventaglio di ipotesi, nessuna esclusa.

La terza mina è di fatto la prima in ordine temporale. Di fatto Renzi parla alla direzione dopo aver già raccontato tutto nella sua enews, uscita da Palazzo Chigi calda calda per il web mezz’ora prima della riunione al Nazareno. E’ il suo schiaffo alla direzione che gli ha voltato le spalle. Renzi parla ai milioni di sì di domenica, voti che considera suoi. Non lesina chicche amare per la minoranza: “Qualcuno ha festeggiato la sconfitta, lo stile è come il coraggio di don Abbondio, ma non giudico e non biasimo, osservo e se possibile rilancio. Alzo anch’io il calice perché quando vieni indicato e designato dal Pd e hai la possibilità di governare, non hai il diritto di mettere il broncio. Chi fa politica col broncio e il vittimismo fa un danno a se stesso e non agli altri”.

Rimanda il dibattito in direzione a “dopo le consultazioni al Quirinale”, come spiega il presidente Matteo Orfini al senatore Walter Tocci che vorrebbe intervenire. La direzione è convocata in modo “permanente per consentire alla delegazione che va al Colle di riferire le novità”, spiega Renzi. Forse ci sarà una nuova riunione lunedì. La minoranza non gradisce. “Sono senza parole – dice il bersaniano Davide Zoggia – Il maggior partito del Paese non apre una discussione su quello che è successo. Capisco le esigenze istituzionali delle dimissioni del presidente del Consiglio, ma il partito deve discutere, analizzare”. Ma questo è solo l’inizio di uno scontro che non farà prigionieri.

Tra i renziani nella sala del Nazareno circola l’idea di presentare una legge elettorale in modo da anticipare e vanificare la sentenza della Consulta sull’Italicum. Magari un Mattarellum, la legge firmata dal presidente della Repubblica: chi potrebbe dire di no? Per ora esplicitamente ne parla il segretario dei Radicali Riccardo Magi: “Renzi ci ascolti e accolga la nostra proposta di una legge elettorale maggioritaria con collegi uninominali”. Magi è lo stesso che a luglio propose lo spacchettamento del voto referendario in più quesiti. “Probabilmente oggi Renzi rimpiange di non averci ascoltato allora”, dice. Il punto è che servirebbe un governo, Renzi ormai si è dimesso e a sera sembra tramontata anche l’ipotesi di un reincarico. A meno che non si riesca a sciogliere le Camere a fine gennaio, dicono dal quartier generale dell’ex premier.

Ma è lo stesso Renzi che ormai non esclude che possa nascere un governo di larghe intese. Per dire che le mine che ha piazzato in direzione sono tutt’altro che sicure per lui. Sa che al Senato, per dire, pezzi di Forza Italia, si sono proposti per sostenere un governo Franceschini. Anche se il ministro dei Beni Culturali uscente continua a opporsi all’idea di guidare un governo di scopo. Sa che nascerebbe contro il segretario del Pd, che sarebbe costretto ad appoggiare. Per poi bombardarlo da fuori, come con Enrico Letta. Mattarella è il primo a voler evitare uno scenario del genere. Troppo rischioso. Sul campo resta l’ipotesi di un esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, personalità che Renzi considera più fedele. Mentre sembra tramontata la carta Grasso e anche quella Padoan, dietro la quale Renzi teme un pericoloso attivismo dalemiano.

Ad ogni modo, pur rimanendo impostato sulla linea del voto a primavera nel discorso pubblico, Renzi si è mostrato più morbido con il presidente emerito Giorgio Napolitano al telefono poco prima della direzione. Sa che stavolta potrebbe perdere, i gruppi parlamentari premono per un governo che li garantisca almeno fino a ottobre, quando avranno maturato la pensione. L’unica carta che Renzi ha di certo a disposizione per tutto l’anno prossimo sono le candidature nelle liste delle prossime elezioni. Ad ogni modo non sarà lui a salire al Colle per le consultazioni. Per il Pd ci vanno il vicesegretario Guerini, il presidente Orfini e i due capigruppo Zanda e Rosato. Domani Renzi se ne va a Firenze “a festeggiare gli 86 anni della nonna e giocare alla playstation con mio figlio”. Lontano da Roma per farsi curare le ferite.
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Verso lo scontro frontale fra Matteo Renzi e minoranza in direzione Pd. Le promesse di modifiche all’Italicum non bastano

Ribadire che la volontà di cambiare la legge elettorale “è reale” ma “senza forzature” e, soprattutto, non da soli. E, dunque, non prima di aver consultato maggioranza e opposizione. Insomma, non prima del referendum. È questa la linea Maginot di Matteo Renzi che nella Direzione del Partito Democratico in programma lunedì pomeriggio proverà a tener fede alla linea aperturista degli ultimi tempi senza, però, concedere ulteriori spazi di mediazione alla minoranza. Anche perché la convinzione è che l’obiettivo sia un altro: attaccare lui.

La rottura sul referendum sembra ormai giunta a un punto di non ritorno e il premier avrebbe letto con molta irritazione le interviste con cui Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza annunciavano il loro No al ddl Boschi poche ore prima che il partito si riunisse a via del Nazareno proprio per discutere delle modifiche all’Italicum che da mesi invocano. “Tempo scaduto”, “solo chiacchiere”, dicono i due esponenti dell’opposizione interna.

Il premier – raccontano – sarebbe stato colto di sorpresa soprattutto dal tono tranchant di Bersani anche perché, spiegano, le colombe erano al lavoro da giorni perché domani si arrivasse a un documento comune. Una freddezza, quella del segretario, che emerge durante l’intervista a L’Arena su Rai1. Renzi decide di non cogliere l’occasione del salotto televisivo per lanciare un segnale di apertura e, anzi, commenta caustico l’uscita dell’ex segretario dem. “Io dico soltanto una cosa, Bersani – è la sua risposta – ha votato Sì tre volte alla Camera. Se poi cambia opinione per il referendum, ciascuno si farà una sua valutazione sul perché. Questa riforma non l’ho scritta io di nascosto a Rignano sull’Arno al mio pc”. La linea – insomma – è quella di dimostrare che l’incoerenza sta negli altri e, di conseguenza, anche le ragioni della rottura. D’altra parte – aggiunge – è “un anno e mezzo che mi danno contro”. Sebbene ribadisca che personalizzare l’appuntamento sia stato un errore, il presidente del Consiglio si dice anche convinto che in molti stanno orientando il loro voto per “antipatia” nei suoi confronti e questo – aggiunge – mostra “scarsa visione per il Paese”.

La proposta che dovrebbe essere messa sul piatto della discussione della Direzione è quella di affidare a una delegazione formata dai capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda e da Lorenzo Guerini, un compito “esplorativo” nei confronti di tutte le altre forze politiche. “Bisogna costruire le condizioni per le modifiche, pensare che in sei settimane, mentre è in discussione la legge di bilancio, si chiuda questa partita sarebbe una forzatura”, spiega un renziano. Una mossa il cui effetto dovrebbe essere quello di “stanare” la minoranza, perché la convinzione è che il punto di approdo reale non sia la modifica della legge elettorale. La scelta di Pier Luigi Bersani di votare No al referendum sulla riforma costituzionale – dice esplicitamente il ministro dei Beni culturali, Enrico Franceschini – “penso sia motivata da altro”, “il tema vero è che nel Pd e fuori dal Pd si sta utilizzando il tema referendario per contrastare Renzi”.

Dalla minoranza, ovviamente, l’accusa è ribaltata: è il segretario – dicono – che continua a fare solo melina senza alcuna proposta concreta. La direzione di domani, spiega Roberto Speranza, “è l’ultima possibilità, però non per annunci generici: il governo e la sua maggioranza hanno prodotto il disastro dell’Italicum, ora senza una loro vera iniziativa ogni mossa e invito al Parlamento, è una perdita di tempo”. La richiesta è quella di mettere in discussione il doppio turno, esattamente la norma che finora Renzi ha difeso più strenuamente.
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