Referendum sul jobs act, dentro la Consulta grandi manovre per disinnescare i quesiti promossi dalla Cgil

Gli “artificieri” sono a già all’opera, nel campo di battaglia della Corte Costituzionale, per disinnescare la prima mina, il referendum promosso dalla Cgil sull’articolo 18. Mina che rischia di far saltare tutto, a partire dal percorso “ordinato” immaginato dal capo dello Stato Sergio Mattarella: prima la modifica della legge elettorale, poi il voto.

I referendum sul jobs act sono sempre stati vissuti, nelle stanze del potere renziano, in un tutta la loro portata politica. Perché ogni voto, nell’epoca moderna, come insegna la Grecia o l’Inghilterra, è ad alta intensità politica, figuriamoci una consultazione che ha come titolo “referendum sul lavoro” con i tassi di povertà e disoccupazione del nostro paese. E il jobs act è la riforma simbolo dell’era Renzi, la più divisiva di tutte, nel paese e nella sinistra: da un lato Marchionne e Confindustria, dall’altro la Cgil. Insomma un potenziale, nuovo 4 dicembre: “C’è un solo modo per evitare il referendum – disse il ministro Giuliano Poletti nella famosa dichiarazione – sciogliere le Camere e andare al voto anticipato”.

Ecco la mina, o meglio, le mine. Su “come finisce” la legislatura. Tutto in cento passi, tanti separano il Quirinale dal palazzo della Consulta. E tutto in un mese. L’11 gennaio la Corte si riunisce per l’ammissibilità dei quesiti sul jobs act. Il 24 sull’Italicum. In caso di ammissibilità il referendum, per legge, si deve svolgere nella “finestra” tra il 15 aprile e il 15 giugno: “È difficile – dice quella vecchia volpe di Gaetano Quagliariello – immaginare la durata della legislatura senza considerare quello che deciderà la Corte in questo mese”.

Proprio attorno alle decisioni della Corte, le grandi manovre sono iniziate. Più di un costituzionalista che ha consuetudine con il Quirinale spiega: “È chiaro che ammettere il referendum destabilizza la linea di Mattarella, perché Renzi a quel punto dice ‘basta, si vota’, anche con leggi diverse. Per Amato e altri giudici che hanno più sensibilità istituzionale si stanno ponendo il problema di non introdurre un elemento di drammatizzazione”.

Il che tradotto dal compassato linguaggio dei frequentatori dei Palazzi significa che, nella Corte, la tensione è già alta. Gli spifferi raccontano di orientamenti discordanti tra i giudici, con i “magistrati” più favorevoli ai quesiti della Cgil. E dei primi attriti tra Giuliano Amato, nei panni del grande artificiere, e la relatrice, Silvana Sciarra, allieva di Gino Giugni, giuslavorista, scelta da Renzi e votata dal Parlamento nel 2014. Non sul quesito sui voucher – tema su cui è prevedibile un intervento del governo – o sulle responsabilità in materia di appalti, ma sull’articolo 18. Giuliano Amato la pensa come l’Avvocatura dello Stato, ovvero che il quesito è di fatto propositivo e quindi “manipolativo”. La Sciarra, secondo i ben informati, sarebbe intenzionata a dichiararlo ammissibile. Ognuno, con diplomazia, cerca consensi alla posizione.

Partita aperta, tutta politica. Previsioni impossibili: “L’ambiente della Corte – prosegue la fonte – è molto particolare. C’entra la politica, ma ogni testa è un tribunale e l’attivismo non sempre produce i risultati sperati”. Certo è che la pressione è destinata ad aumentare. La camera di consiglio è l’11 gennaio. Il 10 Giuliano Poletti, il ministro del jobs act sarà a palazzo Madama per una “informativa”, trascinato dalle opposizione dopo le sue gaffe sui giovani italiani all’estero che “è meglio non avere tra i piedi”. Il giorno dopo, i titoloni dei giornali, con le opposizioni alla carica: una bocciatura dei quesiti sarebbe letta come un mossa dell’establishment per negare che si esprima la volontà popolare. Comunque vada la mina rischia di esplodere.
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