Referendum. Al Nazareno e senza snack, il racconto della notte della sconfitta del Giglio Magico

Persino la macchinetta delle bevande e degli snack di conforto a un certo punto dice: No. Maledetta. Notte elettorale del 4 dicembre 2016 a Largo del Nazareno. Il secondo round di exit poll ha già buttato i presenti nello sconforto più inconsolabile. Maria Elena Boschi, chiusa nella stanza del segretario Matteo Renzi – che nel frattempo è a Palazzo Chigi – con Luca Lotti, Francesco Bonifazi e altri che vanno e vengono, ha il viso tiratissimo e ha anche pianto un po’. Marianna Madia è vestita di nero, a lutto, preparata ad una sconfitta che era nell’aria ma che non si annunciava così funesta. I nervi sono tesissimi. Si abbattono anche sulla povera macchinetta automatica: che infatti si inceppa, lasciando tutti a secco. C’è ancora quella del caffè che sputa tazzine di continuo, anche se qui nessuno avrebbe bisogno di caffeina. Eppure, ci si aggrappa. A quello che c’è.

Notte da fine dell’impero per i Leopoldini toscani sbarcati a Roma con belle speranze, arrivati all’apice del potere senza nemmeno sapere come e deposti con altrettanta velocità. Supersonica. Cosa si fa? Come si reagisce al ko che nessuno di loro aveva previsto di queste dimensioni? Al Nazareno la domanda fa il giro delle stanze, sbatte contro i muri e ritorna in circolo. Da Palazzo Chigi è arrivata notizia dello sfogo di Renzi: “Mollo tutto, basta con la politica, basta con il Pd. Mollo il governo e anche il Pd”. Poi sarà Dario Franceschini a convincerlo a restare, come farà nella direzione nazionale Dem convocata dopodomani. Ma sulle prime sono tutti atterriti. Ma non increduli. Tanto che quando il premier prende la parola dalla sala dei Galeoni di Palazzo Chigi per dire delle sue dimissioni dal governo, appena finita la conferenza stampa, nei corridoi del Nazareno echeggia l’inizio di un applauso. Qualcuno insomma prende l’iniziativa di battere le mani al premier nel momento più buio della sua storia al governo. Il punto è che nessuno lo segue e il battimani si perde nell’aria. Clap, clap. Stop.

In quel momento, al secondo piano del palazzone del Pd a Largo del Nazareno ci sono circa 150 persone, tra dirigenti e staff. Oltre a Boschi, arrivata al partito intorno alle 22 direttamente dalla sua Laterina, oltre a Lotti e il portavoce di Renzi, Filippo Sensi, che invece arrivano da Palazzo Chigi dove hanno trascorso il pomeriggio con il premier, ci sono anche Dario Franceschini, Gianni Cuperlo, Pina Picierno e Francesco Nicodemo, Lorenzo Guerini, Debora Serracchiani. C’è la deputata Anna Ascani terrorizzata perché poco dopo deve andare in tv. Ed è dura andarci da sconfitti, mandati a casa da quasi il 70 per cento dell’elettorato. Ma al partito a un certo punto arriva anche Luigi Berlinguer, lui che renziano di osservanza non è ma che si è battuto tantissimo nella campagna del sì. “Sono qui per festeggiare…”. Tutti lo guardano sbigottiti: sei pazzo? “…per festeggiare la grande partecipazione… che è democrazia”. Ah sì, vabbè. I visi tirati non si sciolgono in sorriso. Nessuna consolazione per il partito di Renzi.

Intorno all’una meno un quarto sono tutti ammutoliti. Il premier ha parlato, in una conferenza stampa peraltro decisa già nel pomeriggio. Da mezzogiorno infatti gli instant poll del Pd parlano chiaro: pollice verso. Comunque, a notte non tanto fonda le dimissioni di Renzi dal governo sono sul tavolo, anche i sondaggisti hanno detto la loro. Il fedelissimo Sensi li ha consultati per tutta la sera. Piepoli, Masia, Ghisleri: giri di telefonate per capire come avrebbero aggiornato i dati alla luce della maxi-affluenza alle urne, totalmente inaspettata. Ansia inutile o comunque mal ripagata: ci pensano le prime proiezioni a suonare il de profundis. A quel punto, al Nazareno, oltre alla macchinetta dell’acqua, anche le chiacchiere dicono: No. Bla, bla. Stop.

Nessuno ha più voglia di parlare, commentare, arrabbiarsi. Tutto è già accaduto. Boschi, Lotti, anche Sensi sono tutti lì con la testa china sugli smart phone a digerire la sconfitta a colpi di sms. Automi, compulsivi, quasi non alzano la testa per salutare chi arriva. Al massimo un “Ciao”. Poi si lasciano andare a qualche commento sulle roccaforti del sì: Firenze, Bologna, Milano. Ma già chiamarle roccaforti suona strano. Guardano la cartina del voto: le tre città del nord che hanno dato ragione a Renzi sono tre isolette in un mare di no. Non c’è speranza.

Fa freddo in questa notte di dicembre. Dopo la conferenza stampa di Renzi, il gruppo del Nazareno si disperde. Lotti però torna a Palazzo Chigi. Da un premier preso a pugni da una realtà che non aveva considerato. Eppure, racconta chi lo vede ogni giorno al palazzo del governo, gliel’avevano detto. Lo avevano avvertito che si andava a sbattere. Nell’ultima settimana al suo quartier generale tutti sapevano della sconfitta più che probabile. Lui un po’ ci credeva, un po’ ha fatto leva su quell’ottimismo della volontà che mai gli è mancato. Certo non si aspettava la debacle. E ora?

La reazione prende forma all’indomani del voto. Renzi accetta di restare al governo per l’approvazione della legge di stabilità. Poi, dimissioni. A metà giornata in piazza Colonna, sollevando lo sguardo verso Palazzo Chigi, Antonio Funiciello, un dei suoi fedelissimi, dice: “Ce ne dobbiamo andare da qui prima possibile”. Dove? Direzione voto in primavera. E’ ciò che Renzi chiede a Mattarella. In 24 ore infatti si è rialzato dal ko tecnico e ha deciso di restare alla guida del Pd. Lo sfogo della notte ha avuto effetto. Franceschini non è l’unico a chiedergli di restare. L’invito arriva anche dai Giovani Turchi. Nello specifico da Matteo Orfini. Nonostante che il guardasigilli Andrea Orlando sia in gelo con Renzi per la storia della mancata fiducia sul ddl sul processo penale, rimasto sul binario morto in Senato. Insomma avanti con Renzi, che dopodomani in direzione non mancherà di affondare contro la minoranza Dem che ha detto no, spaccando il partito. Tutto tranquillo nel Pd?

No, Renzi sa che non è così. Ma per ora si fida della sua maggioranza. Anche Delrio gli ha assicurato sostegno. Sì ma a cosa, ora che l’impero è caduto? L’idea è di appoggiare un governo a tempo per andare al voto a primavera. Magari un governo Padoan, l’unico che a differenza di ogni altro candidato non avrebbe ambizioni politiche e che quindi non avrebbe problemi a stringere un accordo e rimanere a Palazzo Chigi solo fino a marzo. Tanto sarebbe sempre lui il ministro dell’Economia, se Renzi dovesse tornare al governo. Ad ogni modo, questo è il piano di un Renzi che non esce di scena. E conta di potersi poggiare sulla richiesta di elezioni anticipate che arriva anche dal M5s, dalla Lega, da buona parte del fronte del no. Tranne la minoranza Dem, contraria anche ad anticipare il congresso.

Ed è questo il secondo punto del piano: elezioni anticipate a primavera, senza congresso. Con Renzi candidato premier e al massimo primarie con chi nel partito volesse sfidarlo. Come fece lui con Bersani nel 2012, quando perse. In questo scenario il congresso verrebbe celebrato a fine anno. E’ una mediazione anche con i Giovani Turchi, che vorrebbero candidare Orlando ma hanno bisogno di tempo per organizzarsi. E’ un modo per non mandare in frantumi quello che rimane nel Pd. Ed è il senso del tweet di Lotti:

Tanto alle elezioni si andrebbe con un sistema proporzionale, non con l’Italicum. E dunque la candidatura alla premiership potrebbe risultare meno appetibile. E’ un piano che porta un po’ di serenità dopo la notte del terrore. “Come abbiamo fatto a non pensare che questo referendum sarebbe finito come un ballottaggio del tutti contro Renzi?!”, allarga le braccia in Transatlantico un deputato renziano. Già. Come hanno fatto a decantare le lodi dell’Italicum? Errori di gioventù, arrivata a Roma con furore, detronizzata senza nemmeno sapere come.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Referendum, l’amarezza della Ditta per un Sì “poco entusiasta”. I dubbi della Ghisleri

Un SI che non ti aspetti, bugiardo. Chiara Geloni, pasionaria della Ditta, prima di parlare, fa un lungo sospiro: “Prodi dice che vota SI in continuità con la sua storia. Peccato che con questa dichiarazione ha raggiunto gran parte dei 101. Auguri, gli vogliamo bene lo stesso”.

Giorni bugiardi è il titolo del pamphlet, scritto dai due portavoce storici di Bersani, Di Traglia e Geloni ai tempi del 2013. Quando al Capranica il nome di Prodi accolto da una standing ovation, per poi essere impallinato nel segreto dell’urna. Al netto delle parole – poche, fredde e sbrigative – di Pier Luigi Bersani (“quello di Prodi non mi pare un sì entusiasta”), la botta si sente, come in volume 2 dello stesso libro: “I giorni bugiardi – prosegue la Geloni – continuano e forse qualcuno non si ricorda chi sono bugiardi”. Pausa. “E i 101”.

E la botta si sente perché l’endorsement del Professore, simbolo dell’Ulivo che Bersani rivendica come una radice feconda, da non strappare e non rottamare, ebbene l’endorsement arriva inaspettato. Le persone più vicine a Prodi raccontano che “ha deciso solo oggi, per necessità di chiarezza nei confronti del paese, dopo una fase di dubbio, ma fino a ieri sera era rimasto davvero con l’idea di non parlare”. Idea di cui Bersani era al corrente, perché tra i due ci sono confronti periodici. Una neutralità (e un silenzio) che lo rassicurava: “Da quel che ci risultava – spiega un bersaniano di rango – c’era una grande pressione di palazzo Chigi per un suo SI, proprio per giocarlo contro di noi e sottrarci la bandiera ulivista”. Perché comunque è un SI, anche se scocciato, poco “entusiasta”, con critiche severe annesse, su stile di leadership e legge elettorale. E se conta il minuto prima (cioè adesso), ma anche dopo. Ormai nei conciliaboli della sinistra i parlamentari sono consapevoli che “se vince il SI, quello ci stira come dei gatti”.

Delusione, rabbia emotiva. Bersani commenta con due frasi, gli altri parlamentari preferiscono sottrarsi, mentre le agenzie vengono inondate da un fiume di dichiarazioni di renziani di ogni grado e di ogni credo, dagli ortodossi ai dialoganti. Ma, mentre il premier vive le parole del Professore come le campane a morto della sinistra, in parecchi si domandano: quanto sposta Prodi in termini di voti? Ai tempi del Quirinale, quando Renzi puntò su Mattarella, furono commissionati dei sondaggi per tastare il gradimento del futuro inquilino del Colle. In quelle rilevazioni – era il 2015 – Romano Prodi stava basso e non svettava neanche Veltroni. E oggi? L’infallibile Alessandra Ghisleri spiega all’HuffPost: “Bella domanda. Bisogna vedere se Prodi sposta a favore del SI o a favore del NO. Nel senso che fuori dal Pd non è amato nel centrodestra, perché è stato l’avversario per vent’anni. Per l’elettorato grillino è un pezzo di establishment. Poi, sai, non è che a ogni dichiarazione uno fa un sondaggio…”.

Però il valore politico c’è, anche se è difficile quantificare quanto vale elettoralmente, se cioè rappresenta una calamita a sinistra, magari nelle zone rosse o se viene vissuto come un altro pezzo di establishment che mette la faccia sul SI, lontano dai cittadini, come Junker, Schauble. Anzi, che ce la mette in Italia proprio dopo gli endorsemet tedeschi o comunque dell’Europa a trazione germanica all’insegna della stabilità e della continuità. La faccia e, dicono le vecchie volpi di Palazzo, anche un chip sulla vittoria di Renzi. Paradossalmente, nel poker del referendum, il SI è una puntata sul tavolo verde che accomuna i due grandi feriti da Renzi, Enrico Letta e Romano Prodi, cresciuti nella scuola democristiana per cui, per stare nel gioco, devi comunque stare nell’area di governo perché nel potere si naviga, non ci si oppone. Con ammiccamenti, distinguo, mezze frasi per marcare una posizione autonoma.

Ecco che, a leggere la dichiarazione di Prodi, se una frase suona come una critica a Renzi (“C’è chi ha voluto ignorare e persino negare quella storia, come se le cose cominciassero sempre da capo, con una leadership esclusiva, solitaria ed escludente”), l’altra porta ai baffi di Massimo D’Alema: “E c’è chi ha poi strumentalizzato il disegno che aveva contrastato”. Nel libro della Geloni e di Di Traglia, la carica dei 101 era composta dalle truppe di Renzi e di D’Alema, che poi sarebbero i “turchi” che successivamente lo hanno abbandonato: “Finché non ci diremo la verità fino in fondo – dice la Geloni – ci resteranno equivoci. Questa vicenda dei 101 continua a essere un macigno”. A ogni elezione che conta.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Vincenzo De Luca potrà fare il commissario della Sanità campana con un controllo ogni 6 mesi

La furbata è servita. Il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca potrà diventare commissario della Sanità della sua regione. Ma per fare passare questa norma senza provocare troppe polemiche, si è trovato un escamotage. Il commissario della Sanità sarà infatti soggetto a verifiche ogni sei mesi: insomma, una specie di tagliando. È questo il contenuto del testo riformulato dell’emendamento alla manovra presentato in commissione Bilancio alla Camera, accantonato martedì in seguito a numerose critiche.

La formula è quella di consentire al presidente della Regione di diventare commissario della propria sanità regionale ma a patto che ogni sei mesi si verifichi che il suo operato sia conforme ai piani di rientro e che la performance sui livelli essenziali di assistenza sia positiva.

Il testo precisa che “i tavoli tecnici, con cadenza semestrale, in occasione delle periodiche riunioni di verifica, producono una relazione ai ministri della Salute e dell’Economia e delle finanze, da trasmettersi al Consiglio dei ministri, con particolare riferimento al monitoraggio dell’equilibrio di bilancio e dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza”.

Molto critica con l’emendamento, la grillina Silvia Giordano, che intervenendo in commissione Bilancio alla Camera ha detto: “Questa è una marchetta bella e buona perché i voti di De Luca vi fanno di un comodo impressionante, abbiate l’onestà di ammettere che volete solo i suoi voti”. C’è poi la Lega Nord che ha annunciato, per voce di Barbara Saltamartini, che occuperà la sala del Mappamondo, dove si stanno svolgendo i lavori, se si voterà l’emendamento.

Il cosiddetto emendamento De Luca ha fatto infuriare le opposizioni perché in questo si è visto un favore politico del governo al presidente della Regione Campania in cambio di un appoggio robusto al Sì in vista del referendum del prossimo 4 dicembre. Proprio nel Sud infatti il Sì risulta in difficoltà.

Di fatti, dopo una battaglia in commissione, e dopo che il ministro Beatrice Lorenzin aveva espresso parere contrario, l’ordine è stato diramato da palazzo Chigi: forzate, fatelo passare. L’ordine dei lavori ha poi previsto una discussione serale, dopo i tg, quando i riflettori sono spenti. Basta un sì, insomma, a Roma sull’emendamento, in Campania nelle urne.

E i pezzi da novanta piombano, per l’ultimo miglio, nel feudo del governatore. Giovedì Luca Lotti è a Salerno mentre il ministro del lavoro Giuliano Poletti si confronterà con Stefano Caldoro a Napoli. A Napoli invece arriva sabato il fiore dei sindaci di fede renziana: Dario Nardella, Matteo Ricci, Giorgio Giuseppe Falcomatà e Antonio Decaro, il sindaco di Bari diventato presidente dell’Anci proprio per rastrellare voti al Sud. Il Mattino parla anche di un’altra tappa di Matteo Renzi, di qui al 4 dicembre, sempre nella Campania di De Luca.

Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Milano, maxi rissa davanti alla sede della Regione: due ragazzi filippini accoltellati

Due ragazzi sono stati feriti a coltellate e trasportati in condizioni gravi in ospedale a Milano. Cinque persone sono state arrestate e altri cinque minorenni denunciati. Ad uno di loro è stato contestato il tentato omicidio. È il bilancio della rissa tra due gruppi di giovani filippini scoppiata ieri sera nel piazzale sotto al grattacielo dove ha sede la Regione Lombardia.
Un ragazzo di 18 anni è stato ferito alla gola, un 16enne è stato soccorso nella stazione Centrale con lo stesso tipo di ferita.

Notizie Italy sull’Huffingtonpost

“Pronto? Basta un Sì”. Referendum, nel week end telefonate casa per casa per convincere a votare a favore della riforma

Non solo lettere nelle buche postali, arrivano anche le telefonate casa per casa. Come riporta un servizio dell’AdnKronos sabato e domenica i volontari dei comitati locali di Basta un Sì sono mobilitati per una campagna telefonica capillare in tutta Italia. Spiegare la riforma e convincere sulle ragioni del Sì. Scrive l’AdnKronos:

Centinaia di migliaia di telefoni pronti a squillare nel week end: solo a Bologna, come si leggeva nelle cronache locali nei giorni scorsi, i volontari sono pronti a 140mila chiamate. Nel capoluogo emiliano si attingerà ai numeri a disposizione grazie all’albo degli elettori delle primarie del centrosinistra: si tratta di circa 70mila numeri fissi e 70mila cellulari. Stessa cosa a Cesena dove i numeri in possesso dei dem sono 16mila. E comunque, database a parte, si può sempre attingere al vecchio elenco telefonico.

“Lei lo sa che il 4 dicembre si vota per il referendum costituzionale? Sa qual è il seggio dove deve andare a votare?”: saranno queste le domande che verranno poste ai cittadini. Poi seguiranno quelle specifiche sulla riforma con risposte pronte a sminare eventuali dubbi e perplessità dei cittadini.

Proprio per questo, sempre a Bologna ad esempio, per il ‘call center’ di Basta un Sì sono stati selezionati degli studenti di Giurisprudenza in modo che abbiano maggiore confidenza con la materia. L’operazione si ripeterà nel prossimo fine settimana, l’ultimo prima del voto del 4 dicembre, e non è escluso che nella campagna vengano coinvolti big del Pd.

Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Il nuovo spot di Natale di John Lewis è comico: un cane prende possesso del regalo della bambina

L’atteso spot di Natale di John Lewis è finalmente uscito, ma quest’anno la famosa catena ha deciso di creare un video davvero speciale. L’ironica clip, già annunciata dal teaser, non è la solita pubblicità natalizia, ma ha qualche cosa in più.

Una bambina, che ha tanto desiderato il suo regalo di natale, riceve una inaspettata sorpresa: la mattina di Natale vede infatti il cane di casa prendere possesso del suo regalo. La scena è comica: l’animale salta soddisfatto su un tappeto elastico. “I regali che tutti ameranno” è la frase conclusiva dello spot, e sì anche il cane, e gli animali selvatici, ameranno il dono di natale della bambina.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Donald Trump presidente degli Stati Uniti: il ruolo chiave della middle-class operaia nel Midwest dietro la vittoria del tycoon

La verità sta nel mezzo, “in the middle”. E, per essere precisi, nella middle-class del Midwest. Le ragioni che hanno portato Donald Trump a diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America non sono né politiche né tantomeno culturali. A poche ore dalla vittoria del tycoon newyorchese si vanno sempre più delineando, se si incrociano i voti ottenuti nei singoli Stati e i dati su economia e lavoro, i motivi che hanno spinto gli americani a credere che fosse The Donald l’uomo giusto per rendere l’America “great again”.

L’American dream, per realizzarsi di nuovo, ha bisogno di depurare il tessuto industriale ed economico dagli effetti della globalizzazione e della delocalizzazione e di rimettere al centro il lavoro del cittadino americano: è questo il messaggio che sembra uscire dalle urne. Per capire, però, gli squilibri economici che hanno reso il terreno fertile per la vittoria di Trump è necessario partire da alcuni dati.

Negli Stati Uniti i numeri ufficiali riportati dall’Ufficio delle Statistiche del lavoro parlano di un tasso di disoccupazione al 4,7%. Un numero che disegna un quadro occupazionale roseo ma che non rappresenta affatto la realtà. Non si tiene conto, infatti, dei cittadini americani che non partecipano al mercato del lavoro, i cosiddetti “not in labour force”: gli inattivi in America ammontano a circa 90 milioni di persone. Cifra considerevole che però scompare dalle stime ufficiali e che disegna una realtà dai contorni più foschi dello stato occupazionale Usa.

Non è finita qui: come ha riportato Martin Wolf sulle pagine del Financial Times, l’incidenza della quota lavoro sul prodotto interno lordo americano è calato, dal 2001 al 2014, dal 64,6% al 60,4%. Si tratta di un dato che conferma come l’evoluzione dell’economia americana verso la finanziarizzazione e l’innovazione tecnologica lasci uno strascico pesante sui redditi delle famiglie. Redditi che sono aumentati del 5,2% tra il 2014 e il 2015 ma restano comunque al di sotto del livello pre-crisi Lehman Brothers.

Come ricorda il giornalista del Sole 24 Ore Vito Lops, inoltre, dal 2008 al 2016 i cittadini americani costretti a ricorrere ai food stamps (buoni alimentari) sono aumentati del 60%, passando da 28 a 45 milioni. E’ in questo contesto che si va ad inserire la vittoria di Donald Trump che ha fatto di tutto, durante la campagna elettorale, per accreditarsi come il vero oppositore dell’establishment e dello status quo, aiutato anche dalla debolezza della sua rivale Hillary Clinton, troppo legata nell’immaginario collettivo ai poteri forti di Wall Street e simbolo della continuità del potere.

La verità “in the middle”, si diceva. E in effetti è il caso di sottolineare il voto di alcuni Stati che rappresentano la spina dorsale della working class americana. Sono le roccaforti del Midwest: il Michigan, con la sua capitale Detroit un tempo centro nodale del modello fordista e oggi piegata dalla crisi industriale, il Wisconsin agricolo e manifatturiero e la Pennsylvania (più orientale ma comunque a trazione industriale) democratica dal 1992, con i suoi 20 Grandi Elettori. E poi il Nord e il Sud Dakota, Iowa e Kansas. Trump ha poi vinto in Ohio, uno degli swing states che con le sue due principali città, Columbus e Cleveland, è un bacino di voti operai impiegati in impianti siderurgici, meccanici, chimici e in particolare di gomma. Ha di certo contribuito, poi, la vittoria in Florida, altro grande stato attenzionato alla vigilia del voto con i suoi 29 Grandi Elettori. Ma, tornando al Midwest, la Clinton è riuscita a far breccia solo nel Minnesota e in Illinois.

Non è un caso: come fa notare il sito Fivethirtyeight fondato dal mago dei sondaggi Nate Silver, gli Stati del Midwest che Trump si è aggiudicato sono quelli più colpiti dalle importazioni di prodotti cinesi. Un’area identificata dall’economista David Autor del Mit come tra le più colpite dagli effetti della globalizzazione e dove le diseguaglianze hanno raggiunto la maggiore ampiezza nella forbice sociale, traducendosi nella perdita di due milioni di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011.

Il 22 ottobre a Gettysburg, nella Pennsylvania che vive una profonda crisi in particolare nel settore siderurgico, Trump ha tenuto il suo discorso programmatico, stipulando un “Contratto con gli elettori americani”, e ha messo in chiaro alcuni punti centrali della Trumponomics: una nuova riforma fiscale che prevede l’abbassamento dell’aliquota fiscale per le aziende dal 35 al 15%; revisione o cancellazione di tutti i trattati commerciali e gli accordi di libero scambio, come il Nafta (per l’America del Nord), Tpp (con i paesi dell’Area pacifica tranne “l’odiata” Cina) e il Ttip che in Europa abbiamo già avuto modo di studiare; l’aumento dei dazi sulle merci importate; la dichiarazione di una “guerra commerciale” alla Cina che ha “stuprato” gli Stati Uniti facendosi artefice del “più grande furto della storia del mondo” grazie alla manipolazione della sua moneta, lo yuan. In sintesi, la transizione da un’economia liberista al protezionismo e all’isolazionismo.

Guerra commerciale alla Cina e ai frutti marci della delocalizzione da un lato, guerra alla finanza di Wall Street e ai lobbisti dall’altro. Così il magnate di New York è riuscito a diventare l’uomo giusto per la middle-class americana, diventando il terminale del sentimento di rivalsa del ceto operaio, rimasto indietro per via dei processi di globalizzazione che hanno favorito quei Paesi più forniti di manodopera a basso costo piegando il settore manifatturiero americano.

Con una propaganda forte e una ricetta economica estremista, Trump ora è chiamato a dar seguito alle promesse fatte nei mesi di campagna elettorale, conciliando il Donald politico con il Donald Presidente degli Stati Uniti. Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva un voto che parla (anche) all’Europa, mostrando tutti i guasti prodotti da un modello economico che ha dimenticato il ruolo centrale delle forze lavoratrici. Il Re è nudo, l’Europa è avvisata.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Gianni Cuperlo spiega le ragioni del suo Sì e attacca i compagni della minoranza: “Incoerente è chi parla di tradimento”.

Cuperlo motiva il suo “Sì” al referendum in un colloquio con Repubblica e in un’intervista al Corriere della Sera.

Al referendum “ora voterò Sì”. Così Gianni Cuperlo, Pd, dopo l’accordo raggiunto ieri sull’Italicum con la maggioranza del partito che di fatto ha spaccato la minoranza dem. “Abbiamo ottenuto quello che volevamo – dice Cuperlo in un colloquio con Repubblica – incoerente è chi parla di tradimento”.

“Evidente che non si può essere completamente soddisfatti, ma abbiamo ottenuto quello che come minoranza abbiamo chiesto per mesi. Quindi da parte mia firmare un documento su queste modifiche all’Italicum – i collegi per eleggere i deputati, il no al ballottaggio, il premio di governabilità, oltre all’elezione diretta dei nuovi senatori – è stato un atto di coerenza”.

“Voglio essere coerente, ma certo peserà la lealtà degli altri nel tener fede agli impegni del documento. Sui limiti della riforma non ho cambiato idea e mi sono battuto per una soluzione diversa. Adesso siamo di fronte a una responsabilità che è ricostruire un dialogo nel Parlamento e nel paese per istituzioni più rappresentative e condivise”. Così al Corriere della Sera Gianni Cuperlo spiega la sua posizione sul referendum dopo la firma dell’accordo per cambiare l’Italicum.

“Quel voto non segnerà lo spartiacque tra Medioevo e Rinascimento e, chiunque prevalga, ci risveglieremo coi problemi di adesso. Ripresa debole, povertà e un’Europa senz’anima. In questo quadro dividere tra il bene e il male su quella data è stato un errore. Come altri ho cercato di ridurre le distanze almeno sulle regole elettorali. Spero di aver dato una mano”.

Da ora in avanti, aggiunge al Corriere della Sera, “la prova di lealtà spetta a tutti, ma a partire da chi è alla guida di partito e governo. E questo si vedrà presto nella direzione e nei gruppi parlamentari”. “Vedo e capisco alcune preoccupazioni di chi voterà No. Anche per questo ho fatto mia l’urgenza di superare l’Italicum e quando un primo risultato è stato raggiunto mi è sembrato serio percorrere il sentiero. Non sono un uomo di certezze assolute e comprendo le posizioni di tutti.

Sento il peso della scelta e di una responsabilità”. “Il premier non l’ho sentito ma, anche senza conoscerci bene, lui sa come sono fatto. Lavorerò per un’alternativa politica e culturale al renzismo”. “A Renzi mi sono contrapposto all’ultimo congresso e non lo sosterrò al prossimo”, sottolinea.

I fischi della Leopolda su D’Alema, aggiunge, sono un fatto “intollerabile”, “verso una persona che merita rispetto per la sua biografia e perché conferma una deriva che farò di tutto per contrastare”.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Matteo Renzi con Agnese in visita privata a Preci tra preghiera e ricostruzione, sulle orme della Regola benedettina

È il tempo della preghiera e arriverà quello della ricostruzione. Matteo Renzi segue la Messa di Ognissanti insieme alla comunità di Preci, colpita duramente dal terremoto, poi si ferma con loro per parlare, rassicurare, promettere impegno e lavoro per la ricostruzione.

Lui e la moglie Agnese arrivano all’ora della Messa. Una visita privata. A Preci, in Umbria, dove tutto il centro storico è stato evacuato, gli anziani e le donne dormono in una palestra, gli altri nelle proprie macchine. Al momento della comunione il premier e la moglie si mettono in fila per ricevere l’ostia, dietro di loro ci sono gli abitanti del paese che poi andranno a salutare e ad abbracciare uno per uno. La Messa, nel giorno di Ognissanti, è all’aperto nel giardino davanti la Chiesa, la cui facciata è stata lesionata dal sisma, e viene officiata dal vescovo di Spoleto-Norcia Renato Boccardo, il sacerdote che ha celebrato il matrimonio del premier e della moglie Agnese. A lanciare un messaggio al premier ci pensa il parroco di Preci, don Luciano Avenati: “Lasciateci restare qui. State tranquilli, siamo capaci di rimanere, almeno per un po’ per dire che qui la vita c’è. Se andiamo via tutti invece la vita muore”.

Il premier, al termine della Messa, va incontro alle persone, strette di mani, abbracci, parole di conforto, una partecipazione al dolore e alla sofferenza: “Sono qui per condividere insieme a mia moglie questi momenti”. Si avvicina il fornaio del paese, che gli dice: “Come faccio? Qui non abbiamo più pane. Né qui né in tutti gli altri paesi vicini”. E Renzi risponde: “Faremo qualcosa per accelerare”. Il messaggio in mezzo agli sfollati è: “Pezzo per pezzo ricostruiamo tutto. Un pezzo alla volta”. La preoccupazione è per un lavoro enorme, una sfida difficile, che richiederà “tanto tempo”. E ancora: “Non promettiamo miracoli, sono qui per dire che non sarà facile, ma ce la faremo”. Una donna in lacrime comincia a supplicare: “Non trattate male le nostre pecore, vi prego”. Il premier va ripetendo: “Coraggio, coraggio”. Tutto il paese spera e cerca conforto: “Premier, noi ci fidiamo di lei. Non molliamo”. E un’altra: “Mia mamma ha 102 anni e non è potuta venire a salutarla”. “C’è una signora di 102 anni?”, chiede Renzi: “Andiamo a salutarla, dov’è? Voglio salutarla”. E si infila nella palestra divenuta dormitorio.

Qui ci sono molte donne anziane. Agnese stringe le mani, chiacchiera con loro, Renzi poco più in là abbraccia un signore che scoppia a piangere, come molti qui a Preci, ma anche a Norcia e in tutti i paesi colpiti, quando pensano alle loro a case e al loro lavoro che non c’è più: “Vedere le bestie così mi fa male”. “Il problema dell’agroalimentare è fondamentale – riconosce Renzi – faremo delle strutture ad hoc e con i container tutti voi potrete restare nei vostri paesi. Chi arriva e promette miracoli fa danni, io dico che insieme ce la faremo”. Le signore anziane raccontano ad Agnese Renzi quanta paura hanno avuto, lei si avvicina e le abbraccia. “Aiutateci, non mandateci via, dove andiamo?”. Nella palestra c’è anche Asia, una ragazza incinta al nono mese: “Che ci ha detto Renzi? Ha detto che farà qualcosa”.

In molti queste rassicurazioni infondono speranza, per altri prevale la diffidenza, se non la rassegnazione: “Non abbiamo soluzioni, dobbiamo sperare che sia come dice. Se ha detto che a Natale arrivano i container è così”. Angelo Tranquillo racconta di aver chiesto a Renzi una burocrazia più veloce: “Ho un’azienda e con questo terremoto ho avuto un danno enorme. Mi sono morte due mila piccole trote, una frana ha chiuso un fiume e mi sono rimaste le trote senza acqua. In gran parte sono morte. Non so che fare”. Rossana non vuole dire il suo cognome, ma spiega: “Non voglio far sapere come mi chiamo perché poi pensano che voglio farmi pubblicità, non pensano che è una tragedia. Se andiamo via da qui finisce il paese, io non sono di qui ma lavoro a Preci in un albergo che è stato chiuso”. E ancora: “Questo paese mi ha dato lavoro, non posso tornare ad Andria. Spero che sia come dice Renzi, spero che arriveranno i container ma non ci credo, tutte parole, e poi?”.

Un gruppetto di persone intanto si organizza per ordinare delle casette: “Le nostre case sono nel centro storico e probabilmente saranno agibili, ma noi non vogliamo tornarci”. Arriva un’altra scossa, l’ennesima della giornata. “Vedete, non possiamo vivere ogni giorno così, in casa non si può stare. Prima devono sistemare tutto”. Adriano aggiunge: “Non dico che è facile, ma Renzi è lo Stato ed è lo Stato che decide cosa fare”. Il premier e la moglie vanno via lasciando a Preci angoscia e speranza.

Notizie Italy sull’Huffingtonpost

Legge di Bilancio ottiene la bollinatura della Ragioneria e va al Quirinale. Testo più asciutto, con 104 articoli

La legge di Bilancio, dopo la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato, è stata inviata al Quirinale. Il testo, che
l’ANSA è in grado di anticipare, è più asciutto passando, rispetto alle prime bozze circolate, da 122 a 104 articoli in tutto.

Cambia la clausola di salvaguardia. Il Governo prevede di incassare 1,6 miliardi dalla voluntary disclosure. Nel caso in cui non si centrasse l’obiettivo, si prevede che minori incassi vengano coperti con “riduzioni degli stanziamenti iscritti negli stati di previsione della spesa”, previo ok del Consiglio dei ministri entro il 31 agosto 2017. Non si fa più riferimento ad aumenti di accise. Se dalla compensazione derivassero “pregiudizi” al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica andranno prese iniziative legislative ad hoc entro il 30 settembre.

Fondo investimenti. Arriva un fondo unico per garantire il “finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese” con dotazione di 1,9 miliardi nel 2017 (3,15 nel 2018, 3,5 nel 2019 e 3 miliardi l’anno dal 2020 al 2032″. I settori di spesa, in cui andrà ripartito il fondo, vanno dalla viabilità al dissesto idrogeologico all’edilizia pubblica, scuole comprese, alla prevenzione del rischio sismico.

Più soldi per gli statali. Per il pubblico impiego sono complessivamente stanziati 1,92 miliardi di euro per il 2017 e 2,63 miliardi a decorrere dal 2018. Parte va al finanziamento del rinnovo del contratto, alle assunzioni in deroga al turnover e al riordino delle forze di polizia (incluso bonus 80 euro). Un’altra fetta è invece destinata all’aumento dell’organico della scuola. Le somme sono riviste al rialzo rispetto alle prime bozze, dove il plafond per la scuola non era menzionato.

Confermato il pacchetto pensioni. Si va dall’introduzione dell’Ape, l’anticipo pensionistico, all’Ape social per le categorie disagiate, all’aumento della quattordicesima per le pensioni minime, all’innalzamento della no tax area per i pensionati. Presenti anche le misure per i precoci e per i lavori usuranti, il cumulo dei diversi periodi contributivi, l’ottava salvaguardia per gli esodati.

Bonus Arriva il bonus mamme (800 euro ‘esentasse’) e il bonus di 1000 euro per pagare le rette dell’asilo.

Giù il Canone Rai. Nuovo calo del canone Rai che dai 100 euro del 2016 passerà a 90 euro nel 2017.

Asta su Superenalotto. L’articolo 73 della manovra prevede infatti la ‘gara’ sul Superenalotto e ne fissa le modalità. La durata della concessione sarà rinnovabile e la base d’asta è fissata a 100 milioni.
Notizie Italy sull’Huffingtonpost