G-20, il protezionismo non è più un tabù. Scontro fra Usa e Europa su economia e ambiente. Il ruolo della Cina

I primi segni dell’impronta che l’America di Donald Trump vorrebbe dare all’economia mondiale si sono manifestati nel compromesso al ribasso adottato dal G-20 di Baden Baden, in Germania. Nella dichiarazione finale poche e deboli parole (“Lavoriamo per rafforzare il contributo del commercio alle nostre economie”) e un grande assente: la lotta al protezionismo che negli ultimi dieci anni era stato il tratto distintivo dei big dell’economia e della finanza. La musica è cambiata e il marchio del direttore d’orchestra, cioè il presidente degli Stati Uniti, ha portato a una riscrittura dello spartito che l’economia globale si appresta a eseguire. Come e in che misura è ancora da verificare e dipenderà da come gli altri player proveranno a rilanciare la propria visione.

Tutto in uno scenario dove la dialettica-scontro tra il protezionismo e il libero scambio si intreccia a interessi nazionali, come quello del suprlus della Germania e di una Cina che ha la necessità di spingere sull’acceleratore del liberismo puro per reggere il passo di un’economia americana ritornata sugli scudi.

Se a ciò si aggiunge che il comunicato del G-20 non fa riferimento alla lotta ai cambiamenti climatici, suggellata con l’accordo di Parigi Cop21, si capisce bene come Trump non solo abbia rovesciato le politiche del suo predecessore, Barack Obama, ma abbia anche rotto gli equilibri che avevano avvicinato i tre player mondiali più influenti, cioè Usa, Cina ed Europa.

Il silenzio del G-20 sul contrasto al protezionismo segna il terzo step della strategia dispiegata da The Donald negli ultimi giorni, dopo i tagli del 30% all’Agenzia per la protezione ambientale previsti nel piano americano “American first” e la linea di chiusura sugli immigrati e i rifugiati, ribadita ieri nell’incontro alla Casa Bianca con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Uno schema, quello del protezionismo, che Trump mira a inserire nel contesto dell’economia mondiale come fattore destabilizzante di un quadro caratterizzato da forte instabilità e da una crescita che vacilla, soprattutto in Europa. Trump ha affidato al segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, la sua strategia al G-20. “Crediamo in un commercio libero, ma equilibrato, che riduca gli eccessi”, ha affermato Mnuchin e il tema che animerà da oggi in poi l’economia globale sta proprio nel punto di caduta di questo equilibrio.

Gli Usa vogliono un equilibrio che miri a proteggere maggiormente la loro economia rispetto ad oggi. Per l’America la minaccia è la grande esposizione che molti Paesi, Germania in primis, hanno verso il suo mercato. Basta pensare a Berlino: l’export tedesco negli Stati Uniti ha toccato quota 113,73 miliardi, mentre il flusso inverso, cioè le importazioni di prodotti e merci americane in Germania sono state appena pari a 59,30 miliardi. Una differenza che per Berlino vale un surplus di quasi 50 miliardi di euro. Troppo per non spingere Trump a correre ai ripari: prima la minaccia di introdurre una tassa sulle importazioni delle Bmw prodotte in Messico. In attesa di capire se il presidente americano passerà alle misure pesanti, come la border tax per frenare le importazioni, gli Usa danno un primo segnale, e forte, al G-20, ma non chiudono la porta in faccia agli altri Paesi. Per questo Mnuchin si dice “fiducioso” di riuscire a collaborare “costruttivamente” sui macro temi della crescita globale e della stabilità finanziaria. E il braccio di ferro potrebbe passare anche attraverso il cambio del dollaro. Con la Banca centrale europea che potrebbe finire sotto ulteriore pressione per una normalizzazione monetaria che pone un sacco di problemi, in Europa e in Italia.

Il dinamismo dell’America si contrappone alla posizione degli altri player. La Cina esce sconfitta da questo G-20: le raccomandazioni del ministro delle Finanze, Xiao Jie, sulla necessità di opporsi al protezionismo “in modo deciso” si sono rivelate insufficienti per far convergere il G-20 su una posizione diversa rispetto a quella assunta nel comunicato finale. A pagare lo scotto di un’America che vuole lasciare il segno è anche l’Europa. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha affermato chiaramente che ci aspettava ben altro sul tema del commercio. Lecca le ferite anche la Francia, che aveva fatto da casa madre all’accordo sul clima di Parigi. Il ministro dell’Economia francese, Michel Sapin, esprime tutto il suo rammarico per il fatto che nella dichiarazione finale non si faccia riferimento al tema dell’ambiente. “È un vero peccato che nelle discussione odierna siamo stati incapaci di raggiungere qualsiasi accordo soddisfacente”. Parole di resa.

La partita per la direzione da imprimere all’economia globale è entrata nel vivo. Intanto, per non farsi troppo male, i Paesi del G-20 hanno deciso di non dare vita a una guerra tra le valute: si sono impegnati a consultarsi in modo assiduo sui tassi di cambio e a evitare svalutazioni competitive. Sarà una sfida alla pari. Almeno sulla carta.


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Sole 24 ore, lo scandalo del Sole è lo specchio della crisi del capitalismo italiano e della perdita di credibilità delle élite

E poi si dice: “Oh, il populismo!”. Con lo spirito e lo stupore di chi evoca l’invasione delle cavallette. Eppure a spiegare come l’onda populista, o come si dice oggi, anti-establishment, nasce e cresce, basta questa grande storia. Uno delle architravi del sistema del paese, il giornale economico e finanziario che per decenni dalle sue pagine ha indicato (con non poca supponenza) la strada della correttezza economica, delle regole, del bene comune, si ritrova al centro di una sorta di “scandalo delle tre carte”: vedo non vedo, vendo non vendo, recupero e intasco. Parliamo della crisi del Sole24Ore, ma magari fosse solo la crisi di un giornale. In verità si tratta della punta di un iceberg del declino di Confindustria e più in generale del capitalismo italiano, o meglio di una crisi che fa emergere nuovi rapporti e la marginalizzazione del settore del business.

Il 10 novembre 2011, nel famoso numero titolato (a nove colonne) Fate presto, scriveva il direttore Roberto Napoletano, richiamandosi alla lezione di Pertini, Einaudi, Ciampi e Giorgio Napolitano: “Cari deputati e cari senatori, cade sulle vostre spalle la responsabilità politica (dico politica) di garantire all’Italia un governo di emergenza guidato da uomini credibili che sappiano dare all’Italia e agli italiani la cura necessaria ma sappiano imporre anche al mondo il rispetto e la fiducia nell’Italia”. Poi arrivò l’auspicio di altri governi di emergenza, la retorica della stabilità, all’insegna del rigorismo europeo mentre nel paese il “boom” dei Cinque Stelle non evocava affatto l’altro “boom”, ovvero il miracolo economico degli anni Cinquanta, fino a Renzi e a Sì al referendum, diventata la crociata del presidente di Confindustria Boccia, con tanto di previsioni apocalittiche del centro studi in caso di vittoria del No.

Più che una linea fondata su una visione del paese, la posizione di una lobby, culturalmente “romana” e “ministeriale”, che nel rapporto con la politica cerca di coprire la propria fragilità. Che è la fragilità di un capitalismo con poche idee, progetti, capacità di rischio e di innovazione. Una lobby “romana” che cozza col dinamismo rimasto nelle associazioni territoriali degli industriali che, proprio mentre Boccia era impegnato nella sua campagna per il Sì, firmavano il nuovo contratto dei metalmeccanici con Landini. “Padroni” duri, si sarebbe detto una volta, come nel caso di Assolombarda, ma più concentrati sulle fabbriche che sulle compensazioni ministeriali. “Confindustria? È desaparecida” ha detto qualche giorno fa il segretario della Cgil Susanna Camusso. Perché, al netto della cortesia col governo di turno, si è sostanzialmente eclissata dal dibattito pubblico, dalla crisi delle banche all’assalto di Vivendi a Mediaset e, soprattutto, alla crisi industriale del paese.

Lo scandalo editorial-finanziario si inserisce in questo “scomparsa” di ruolo. Il Sole-24 Ore, fiore all’occhiello e principale posta del bilancio di Confindustria (circa un quarto), ha manipolato per anni i bilanci, come era facile osservare per chi si fosse soffermato sul fatto che le vendite schizzavano verso l’alto, mentre i ricavi scendevano. Il tutto nel silenzio di presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati, direttori sfiduciati, assemblee. E in tutti questi anni hanno taciuto le Marcegaglia, i Montezemolo, il vecchio padre nobile Abete, quelli per i quali Gianni Agnelli inventò la definizione di “professionisti della Confindustria. Proprio mentre, da consumati “professionisti” della politica gli stessi hanno occupato – grazie al rapporto con la stanza dei bottoni – le postazioni chiave, come Montezemolo in Alitalia ed Emma Marcegaglia all’Eni, all’ombra di quel conflitto di interessi che già avvolse la sua presidenza di Confindustria, come emerge dalle inchieste che la riguardano.

Montezemolo, Marcegaglia, Boccia. La retorica sulla crisi di rappresentanza “sindacale”, amplificata dallo spostamento di ciò che resta del voto operaio a destra negli anni Novanta – i famosi iscritti alla Cgil che votano Lega – e verso i Cinque Stelle oggi – col rifiuto della rappresentanza sindacale e il voto “contro” – ha coperto una analoga, e altrettanto profonda crisi di rappresentanza di Confindustria, che non solo non è più quella di un tempo, ma è una associazione in crisi di un capitalismo in crisi. La verità è che, finita la fase della concertazione e del grande patto per entrare in Europa, e dopo la “svolta” liberista di D’Amato Confindustria si è rintanata nel fare lobby, più che nel fare “sistema” mentre la struttura imprenditoriale entrava in difficoltà in un mondo globalizzato. Nel frattempo Marchionne e la grande distribuzione se ne vanno perché hanno bisogno di nuove di regole per contrattare mentre gli imprenditori emergenti che esportano non entrano perché considerano burocratica e ministeriale l’associazione di viale dell’Astronomia.

Il Sole era il fiore all’occhiello, la prova di una classe imprenditoriale che sente di poter dare lezioni, anche nell’industria editoriale, a differenza delle omologhe associazioni di categoria europee – in Francia e Germania ad esempio – che non hanno un quotidiano. Adesso si scopre che il fiore era appassito. E, con esso, rischia di appassire il suo presidente, che fino all’ultimo ha difeso il direttore uscente e Confindustria, come confidano parecchi associati anche se in pubblico tacciono.

In questa storia c’è tutto lo iato tra percezione di sé e la realtà, tra ruolo che si attribuisce un pezzo delle elite e rapporto reale con l’opinione pubblica e col paese. E se nella polemica instaurata tra la leadership populistica di Trump e la bibbia del Nyt si ricorre alla categoria di “post verità”, per spiegare il caso nostrano – quante volte nelle redazioni si è detto: “certo che è vera questa cosa, lo dice il Sole” – basta ricorrere alla più semplice categoria di “perdita della credibilità”. E non c’è da stupirsi se, domani o domani l’altro, Beppe Grillo o Luigi Di Maio proporranno di abolire Confindustria o di non leggere più quel giornale, perché proprio questo è il senso della storia: non uno scandalo di quattro furbetti, ma pezzo di crisi dell’elite.
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Soldi ai clan con i voucher. In Puglia sciolto il Comune di Parabita: favoriva i boss della Sacra Corona Unita

‘Favori’ fatti alle famiglie vicine ad un clan per assegnare loro voucher-buoni lavoro, contributi in denaro, alloggi popolari, locali commerciali e riservare assunzioni tra i netturbini con costi aggiuntivi per l’amministrazione comunale. Il Comune, cioè, avrebbe favorito i boss della Sacra Corona Unita anche con i voucher.

E’ quanto avrebbero scoperto i carabinieri del Ros che hanno indagato sui rapporti tra clan della organizzazione di tipo mafioso Sacra Corona Unita e l’amministrazione comunale di Parabita. Indagini che costituiscono le fondamenta su cui si basa il decreto di scioglimento del consiglio comunale. La notizia è pubblicata oggi sul Nuovo Quotidiano di Puglia.
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“Che Guevara Guerrillero Heroico” di Alberto Korda. A Bologna gli scatti del fotografo della Rivoluzione che immortalò il Che e Fidel (FOTO)

Il basco calato sulla fronte, lo sguardo profondo e fiero che guarda lontano. 5 marzo 1960, il Che presenzia a un funerale di Stato: 140 cubani sono morti in un attentato, lui osserva il corteo funebre da una ringhiera. Al solenne evento c’è anche Alberto Díaz Gutiérrez detto Korda, da un anno fotografo ufficiale di Fidel, scelto personalmente dal Lìder Maximo. Imbraccia la sua Leica e scatta. Non sa ancora che nel suo sguardo sta prendendo forma l’icona di un mito. Lo capirà anni dopo, quando l’editore Giangiacomo Feltrinelli stamperà il ritratto del “Guerrillero Heroico”, che sette anni prima Korda gli aveva regalato, su un poster affisso a Milano per la morte Comandante. Lo farà senza citarne i crediti, in barba ai diritti d’autore, ma Korda non si arrabbierà, felicissimo che quel suo scatto avesse impresso un segno nella storia, tanto da essere reinterpretato da Andy Warhol.

Fino al 23 aprile, oltre 50 scatti e documenti originali del fotografo scomparso nel 2001 raccontano, alla galleria Ono Arte di Bologna, gli anni della Rivoluzione. Sullo sfondo c’è Cuba, crocevia di artisti e intellettuali come Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, protagonisti sono il Che, ministro o che gioca a golf, e Fidel Castro, nel 1959, durante l’entrata trionfale insieme a Camilo Cienfuegos a L’Havana L’anno successivo lo immortalò al Lincoln Memorial, dando vita ad una delle immagini più iconiche del Comandante, che quando le vide decise di farsi “seguire” nelle apparizione pubbliche. E dire che prima di mettersi al servizio della Rivoluzione si dedicava a tutt’altro genere di “set”. Immortalava le donne più dell’Avana, una di loro aveva finito per sposarla: Norka (Natalia Menéndez), donna dall’incredibile forza espressiva che avrebbe raggiunto la notorietà come modella per alcune delle riviste più importanti del Paese, come “Vanidades”, e “Romance”. Un mondo che gli rimase nel cuore, e a cui ritornerà negli anni Ottanta, ma con una stelletta in più: era stato il fotografo della Rivoluzione.

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Slitta l’arrivo in Aula della legge sul testamento biologico. Maggioranza divisa e Pd spaccato sui punti chiave

Il Partito democratico è diviso. Anzi, l’intera maggioranza è spaccata e il disegno di legge sul Biotestamento è quindi fermo in commissione Affari sociali della Camera, dove un’intesa è stata trovata ma nessuno si sente pronto ad affrontare lo scoglio dell’Aula. È qui infatti, nell’emiciclo di Montecitorio, che potrebbero consumarsi divisioni tra i parlamentari soprattutto tra l’ala cattolica e quella più progressista poiché non c’è un’intesa ampia sui passaggi chiave della legge: ruolo del medico e possibilità o meno di alimentare e idratare il malato. La morte di Fabiano Antoniani (questo il nome all’anagrafe di dj Fabo), tetraplegico e cieco in seguito a un incidente, ha così riacceso lo scontro sull’eutanasia: “Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato”, queste le ultime parole di Dj Fabo giunto nel Paese elvetico per il suicidio assistito.

Che venga approvata in Italia una legge sull’eutanasia, cioè che venga data la possibilità a un individuo di porre fine alla propria vita autonomamente con l’aiuto dei medici, è da escludere. Nessuno nella maggioranza ne parla, piuttosto si ragiona e si prova ancora a trovare la quadra sulla legge riguardante il testamento biologico. Il provvedimento permette alla singola persona di enunciare, in linea di massima, i propri orientamenti sul “fine vita” nell’ipotesi in cui sopravvenga una perdita irreversibile della capacità di intendere e di volere. L’articolo 3 del testo – il più divisivo – prevede e disciplina le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Queste vengono definite come l’atto in cui ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Il dichiarante può anche indicare una persona di fiducia che lo rappresenti nelle relazioni con il medico e le strutture sanitarie. Il medico è tenuto al rispetto delle DAT che possono essere disattese in tutto o in parte dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, solo quando sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione delle DAT capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

Questi sono i punti chiave del testo su cui il Parlamento è diviso, con il rischio che non ci sia una maggioranza per approvare una legge che rispetto a quelle degli Paesi europei resta comunque diversi passi indietro. “Come senatore mi sento responsabile di un Parlamento bloccato dai veti. Legge sul testamento biologico adesso”, ha scritto tra i primi il senatore renziano Andrea Marcucci. Anche il capogruppo Pd alla Camera Ettore Rosato ha chiesto di accelerare: “Dispiace che per essere libero dj Fabo abbia dovuto andarsene lontano. E dobbiamo riflettere su questo. La politica ha il compito di guardare in faccia i problemi delle persone. La legge su testamento biologico va in questa direzione”. Il presidente del Gruppo Misto Pino Pisicchio pensa che sia “opportuno che la pietas umana prevalga in situazioni drammatiche che non possono certamente essere tramutate in vessilli politici”.

Insomma, nessuno nasconde che la strada per l’approvazione della legge sul testamento biologico sia in salita. La parlamentare cattolica dell’Udc, Paola Binetti, sottolinea per esempio che “la divisione all’interno della Commissione è tra coloro che vogliono che il ‘no’ all’eutanasia sia esplicito, chiaro e scritto nella legge, e coloro che dicono che la legge così com’è non ha bisogno di questa puntualizzazione perché è già contraria all’eutanasia”. Pochi giorni fa Giuseppe Fioroni, leader dei popolari all’interno del Pd, in un’intervista ad Avvenire è uscito allo scoperto elencando i punti che, secondo i cattolici, vanno modificati perché se la legge sul testamento biologico resta così com’è si tratterebbe “di eutanasia passiva: nelle dichiarazioni non si può inserire il no all’idratazione e all’alimentazione artificiale” perché non si tratta di terapia ma di elementi vitali. Inoltre, secondo Fioroni, è da rivedere il ruolo del medico poiché “la normativa si riferisce a casi astratti, ma dovrà operare in casi concreti, che vanno valutati di volta in volta”. Dello stesso avviso è Alessandro Pagano della Lega Nord: “È inconcepibile che uno Stato possa favorire la cultura della morte”.

Sul versante opposto arrivano le dure parole di Sinistra Italiana: “Mi vergogno di un Paese e di un Parlamento incapace di dare dignità e libertà a chi chiede autodeterminazione”, dice il segretario nazionale Nicola Fratoianni. Il Movimento 5 Stelle si schiera nettamente a favore dell’eutanasia, come chiesto dagli attivisti: “Sul biotestamento e l’eutanasia gli iscritti hanno votato, ma tanto non c’è più un Parlamento in grado di votare: c’è solo un Parlamento che rinvia”.

Di rinvio in rinvio infatti la calendarizzazione della legge sul biotestamento in Aula alla Camera potrebbe slittare a metà o fine marzo. Qui Micaela Campana, deputa Pd che si occupa dei temi etici, spera che si possa trovare “un accordo come è successo sulle unioni civili, attraverso il dialogo. Sono sicura che ce la faremo anche questa volta”. Ma anche in questo in caso il rischio è che venga approvata una legge arretrata rispetto agli Stati europei e più blanda rispetto all’attuale testo discusso in commissione.

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La mamma della ragazza morta in Val di Susa: “Mia figlia sotto la valanga. Ho capito che era grave: il telefono squillava a vuoto”

I corpi senza vita dei tre giovani dispersi sul Monte Chaberton in Val di Susa, venerdì pomeriggio, sono stati ritrovati ieri mattina alle 8 al fondo del canale nord est della montagna che divide Francia e Italia. Sono di Margherita Beria d’Argentina, 24 anni, una lontana parentela con la famiglia Beria di Argentine e figlia del sindaco di Sauze di Cesana; del fidanzato Antonio Lovato Dassetto, 28 anni, nato a Verona, e di Adriano Trombetta di Torino, 38 anni, guida alpina dal 2003.

Si legge su Repubblica:

La ragazza aveva mandato una foto alla mamma intorno alle 11 dalla cresta della montagna dopo aver fatto insieme agli amici tutta la salita con le pelli di foca. Da quel momento non ha più dato notizie e alle chiamate insistenti di parenti e amici preoccupati tutti i telefoni suonavano a vuoto. «Già venerdì – ha detto Maurizio, il papà di Margherita, a
Valsusa – oggi avevo il presentimento che fosse avvenuto qualcosa di brutto. Intorno alle 17,30 ho provato a chiamare Margherita sul cellulare ma non rispondeva, anche se suonava libero. Anche Antonio non rispondeva… allora ho chiamato il maresciallo di Sestriere, ero preoccupato. Mia moglie è andata a Monginevro, e quando ha trovato l’auto ho avuto la certezza che fosse successo qualcosa di grave». Margherita Beria sciava da quando era bambina, maestra di sci e molto conosciuta in Valle.

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Emmanuel Macron “il Mozart della finanza”. Dietro il suo movimento En Marche! una fitta rete di banchieri e investitori

Emmanuel Macron gioca la carta della trasparenza. Mentre François Fillon e Marine Le Pen si ritrovano a dover fare i conti con una serie di scandali legati a impieghi fittizi e rimborsi illeciti, l’ex ministro dell’economia sceglie la via della chiarezza, cercando di dissipare i tanti dubbi nati sul finanziamento della sua campagna elettorale.

Le Journal de Dimanche ha pubblicato un resoconto sulla situazione economica di En Marche!, il movimento lanciato lo scorso aprile per sostenere la candidatura di Macron alle prossime presidenziali. Secondo quanto riportato dal settimanale francese, il mini-partito avrebbe raccolto fino ad oggi 5,1 milioni di euro: una cifra consistente, anche se ancora lontana dai 17 milioni previsti per il finanziamento dell’intera campagna. Gran parte della somma proverrebbe dalle donazioni spontanee fatte da semplici cittadini attraverso il sito, mentre solamente il 3% supererebbe i 4mila euro.

A differenza dei suoi avversari, Macron non può beneficiare di nessun sovvenzionamento pubblico, visto che non ha un vero partito politico alle spalle. Per raccogliere i fondi necessari alla sua campagna, il leader di En Marche! è andato a pescare nella sua vecchia agenda, risalente al periodo compreso tra il 2008 e il 2012, quando lavorava per la banca d’affari Rotschild. I suoi contatti nel mondo della finanza internazionale gli hanno permesso di tessere una fitta trama di conoscenze su cui poter fare affidamento.

Così, “il Mozart della finanza” (soprannome affibbiatogli durante il periodo passato da Rotschild) ha orchestrato un progetto di fundraising simile a quelli utilizzati per le campagne elettorali statunitensi, utilizzando il suo movimento come una sorta di startup da sviluppare attraverso la partecipazione di diversi finanziatori.

Per lanciare il suo progetto, in queste ultime settimane Macron ha tenuto una serie di riunioni tra New York, Bruxelles, Berlino e Londra, dove il candidato trentottenne ha incontrato diversi investitori stranieri che, seppur nell’anonimato, si sono mostrati pronti a sostenerlo economicamente.

Proprio nella capitale inglese Macron può contare su uno degli endorsement più importanti: quello di Benoit d’Angelin, ex banchiere di Lehmann Brothers, che sta gestendo la raccolta fondi nella comunità dei francesi espatriati più influenti della City. Con i suoi agganci nel settore bancario franco-inglese, D’Angelin potrà assicurare il sostegno di una buona fetta di investitori oltremanica, interessati a questo nuovo fenomeno politico.

Ma gli appoggi di Macron non si limitano solamente a finanziatori esteri. A Parigi il candidato all’Eliseo ha costruito una squadra composta da figure chiave del mondo economico e bancario francese. Primo fra tutti Christian Dargnat, ex direttore generale della BNP Paribas Asset Management e attuale presidente dell’associazione di finanziamento di En Marche!. Proprio Dargnat sembra essere la testa di ponte utilizzata da Macron per conquistare i finanziatori. Grazie all’esperienza maturata nel campo degli investimenti bancari, questo ex banchiere è il tramite tra il candidato all’Eliseo e i potenziali sostenitori.

A Dargnat si affianca poi Bernard Moraud, un altro banchiere specializzato nel settore delle telecomunicazioni con un passato alla Morgan Stanley che oggi copre il ruolo di consigliere speciale.

In questo modo Macron sta ipotecando la fiducia dei più importanti investitori, che sembrano fidarsi di questa nuova figura politica, lontana dal vecchio establishment istituzionale e pronta a sostenere un’economia ultra-liberale che promette di rompere quei “blocchi” statali colpevoli di soffocare la crescita economica del paese.

Svelando apertamente la sua tattica, l’ex ministro dell’economia cerca di allontanare le accuse che gli sono state rivolte in seguito alla pubblicazione di un libro-inchiesta intitolato “Nell’inferno di Bercy”. I giornalisti Frédéric Says e Marion L’Hour hanno rivelato che, durante i due anni passati alla guida del Ministero delle Finanze, Macron avrebbe sottratto l’80% dei fondi previsti per le spese di rappresentanza, riutilizzandoli per il finanziamento della sua campagna. Anche se queste rivelazioni non sembrano aver intaccato la sua popolarità, Macron ha respinto le accuse precisando che “nessun centesimo del budget del ministero è stato mai utilizzato per En Marche!”.

Per il momento la strategia di Macron si sta rivelando vincente. Secondo il portavoce del movimento, Sylvain Fort, “bisognerà trovare tra i 2 e i 3 milioni di euro entro metà aprile”. Un obiettivo facilmente realizzabile visti i traguardi raggiunti fino ad oggi.
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Sanremo 2017, tra gli ospiti della terza puntata Maria Pollacci, ostretrica che ha fatto nascere più di 7mila bambini

Dopo gli eroi di Rigopiano e l’impiegato che non ha mai preso un giorno di ferie, alla terza puntata di Sanremo 2017 c’è spazio per un’altra storia di tutti i giorni, incredibile ma vera al 100%. Quella di Maria Pollacci, 92 anni compiuti e un lavoro di ostetrica a volte ancora professato. Il web è impazzito per lei, anche se la polemica non si è fatta attendere.

Il primo parto nel 1945, l’ultimo sarà tra poche ore: la vecchietta dei record ha aiutato moltissime madri a dare alla luce i propri bambini nel corso di più di 60 anni di carriera. 7642, è questo il numero delle nascite avvenute grazie a Maria, che sul palco dell’Ariston ha confermato quello che tutti sospettavano: “Si tratta del lavoro più bello in assoluto”. La canzone preferita del Festival? “Son tutte belle le mamme del mondo“, ovviamente.

Estasiati dallo spirito giovanile della donna, molti utenti di Twitter hanno espresso il desiderio di carpire dalla signora Maria l’elisir di lunga vita. Ma c’è anche chi – come Beatrice Dondi, giornalista dell’Espresso – ha polemizzato: “Mi sfugge il motivo per cui ricordano i giovani disoccupati e si invitano gli impiegati stacanovisti e le ostetriche 92enni”.


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Australia, 1880 preti accusati di pedofilia. Il rapporto shock della Royal Commission

Secondo l’inchiesta della Royal Commission, in Australia il 7% dei preti cattolici australiani è stato accusato di abusi nell’arco di sessant’anni (tra il 1950 e il 2010), ma senza che la Chiesa abbia realmente cercato di affrontare ed estirpare il fenomeno.

I casi di pedofilia accertati dalla Commissione dopo quattro anni di indagini e audizioni, sono stati circa 4.440 solo tra il 1980 e il 2010, ha riferito nel corso di un’udienza, l’avvocato che assiste la Commissione, Gail Furness, che ha guidato l’inchiesta. E circa 1.880 sacerdoti (il 7% dei preti australiani appunto) risultano coinvolti, ma i reati contro i minori sono stati ignorati o peggio, ad essere stati puniti sono stati gli abusati.

Come è avvenuto anche negli Stati Uniti i vertici della Chiesa cattolica insomma invece di denunciare alle autorità i sacerdoti hanno preferito trasferirli di scuola in scuola, di parrocchia in parrocchia “senza che nulla sul loro passato fosse rivelato. Il segreto e gli occultamenti hanno prevalso”. L’età media delle vittime è stata di 10 anni e mezzo per le bambine e poco più di 11 anni e mezzo per i bambini.

Dati agghiaccianti. I dati sono stati resi noti questa notte nella prima delle tre udienze finali dedicate alla Chiesa cattolica dalla Commissione Reale sulla risposta delle istituzioni agli abusi sessuali sui minori. La seconda inizierà intorno alla mezzanotte di oggi ora italiana. Si tratta dell’inchiesta più approfondita sulla pedofilia nella storia d’Australia, che ha indagato su tutte le confessioni religiose, enti di beneficenza, governi locali, scuole, organizzazioni comunitarie, gruppi di boy scout e club sportivi, e anche sugli appartenenti alla polizia.

Le agghiaccianti statistiche riguardanti il clero cattolico sono state presentate dalla Furness, che ha rivelato come la Santa Sede abbia rifiutato di consegnare documenti riguardanti sacerdoti australiani accusati di abusi. “La Commissione sperava di acquisire una conoscenza dell’azione intrapresa in ciascun caso”, ha detto Furness. “Ma la Santa sede ha risposto che non era possibile né appropriato fornire le informazioni richieste”.

Lo scopo delle udienze, ha dichiarato il legale della Commissione, è di rispondere alla domanda che rimane nella mente di tante vittime: come hanno potuto gli abusi essere commessi in tale scala? E perché sono stati coperti così a lungo? Le risposte delle diocesi cattoliche e degli ordini religiosi in tutto il paese sono state “tristemente simili”, ha detto.

Le vittime ignorate o peggio. “Le vittime sono state ignorate o peggio, punite. Le denunce non sono state investigate. Preti e religiosi sono stati trasferiti e le parrocchie o comunità dove sono stati trasferiti non sapevano nulla del loro passato. I documenti non sono stati conservati o sono stati distrutti. Hanno prevalso la segretezza e gli insabbiamenti”.

In alcune diocesi fino al 15% dei sacerdoti sono stati accusati di abusi fra il 1950 e il 2015. E fra gli ordini religiosi il peggiore è stato l’ordine di San Giovanni di Dio, dove si ritiene si sia macchiato di abusi uno sconcertante 40% degli appartenenti. Una proporzione arrivata al 32% tra i Fratelli Cristiani e 20% dei Fratelli Maristi, entrambi ordini che gestiscono scuole.
L’Ente formato dalla Chiesa cattolica per coordinare la risposta della Chiesa alla crisi, “Il Consiglio per la Verità, la Giustizia e la Guarigione”, ha ammesso che i dati “senza dubbio minano l’immagine e la credibilità del sacerdozio”. “I numeri sono scioccanti, sono tragici e indifendibili”, ha detto trattenendo le lacrime il Ceo del Consiglio stesso, Francis Sullivan, che ha parlato di “un massiccio fallimento” della Chiesa e di una corruzione del Vangelo. “Come cattolici, chiniamo il capo per la vergogna”, ha detto.

Il fascicolo su Pell al Procuratore di Victoria. L’inchiesta della Royal Commission getta un’ombra sul cardinale George Pell, che è uno degli esponenti più importanti della Curia di Papa Francesco, come prefetto della Segreteria per l’Economia. Pell infatti è stato fino al 2014 arcivescovo di Sydney e primate d’Australia e quindi il prelato più alto in grado del continente. Ed in particolare dal 1996 al 2001 è stato arcivescovo di Melbourne dove si è registrato il maggior numero di abusi , e dove il presule però rivendica di aver istituito la prima risposta in favore delle vittime (la cosiddetta “Melbourne response”). Uno schema di compensazione che è stata criticata per aver imposto un tetto molto basso ai risarcimenti alle vittime, una specie di transazione standardizzata, bloccando al tempo stesso ogni ricorso alla giustizia civile e penale. Nel febbraio dell’anno scorso, per tre giorni, il cardinale Pell era stato interrogato in video- conferenza con l’Australia in un albergo di Roma.

Ma poco tempo dopo Pell è stato anche denunciato per presunti abusi subiti da parte sua, da due suoi ex alunni della scuola primaria. Ieri – in concomitanza con la riunione della Royal Commission – la polizia di Victoria ha confermato (lo hanno riportato tra gli altri l’Australian e il Sidney Morning Post) di aver concluso l’istruttoria su di lui per questi due casi e inviato il fascicolo di indagine al Procuratore per le sue decisioni. È lo sviluppo più significativo delle accuse personali contro il Cardinale da quando tre detective della ”Sano Taskforce” (gruppo speciale di indagini sugli abusi su minori) sono volati a Roma per interrogarlo a metà di ottobre dello scorso anno. Pell, che ora rischia l’incriminazione formale nel suo Paese, ha sempre negato con forza ogni addebito.

Le dichiarazioni del suo successore Fisher. Con riferimento all’inerzia della Chiesa cattolica denunciata dalla Royal Commission, che concluderà i suoi lavori a fine anno, “quello che è stato rivelato è straziante”, ha commentato ieri l’attuale arcivescovo di Sydney ,Anthony Fisher, successore di Pell, in un messaggio pubblicato sul sito della diocesi.
“Mi sono sentito personalmente scosso e umiliato da queste informazioni, come lo sono stato da altre rivelazioni importanti della Commissione Reale fino ad oggi”. “Per mia vergogna e tristezza – aggiunge -, sembrerebbe che in tutta l’Australia ben 384 preti cattolici diocesani, 188 sacerdoti religiosi, 597 fratelli religiosi e 96 sorelle religiose hanno avuto accuse di abusi sessuali su minori fatte contro di loro sin dal 1950. Accuse sono state fatte anche contro 543 laici lavoratori della chiesa e altri 72 il cui status religioso è sconosciuto”.

Il caso australiano e il Vaticano. L’inchiesta della Royal Commission ha già provocato sconquasso in Vaticano, vista la posizione importantissima ricoperta da Pell chiamato proprio da Papa Francesco in un ruolo chiave: la riforma delle finanze vaticane.

Dopo l’audizione di Roma del febbraio dell’ scorso anno, uno dei membri della Commissione pontificia contro la pedofilia, guidata dal cardinale di Boston Sean O’ Malley, Peter Saunders , si è “autosospeso” in polemica con Pell. E le nuove direttive sulla responsabilità diretta dei vescovi per contrastare il fenomeno, prevedono che l’inerzia sia causa forzata di dimissioni.

Il Papa in persona il 31 luglio 2016 ,sul volo di ritorno dal viaggio in Polonia ha parlato invece delle accuse personali contro il Cardinale (quelle della polizia di Victoria) e ha affermato :”Dobbiamo aspettare la giustizia e non fare prima un giudizio mediatico, perché questo non aiuta. Il giudizio delle chiacchiere, e poi? Non si sa come risulterà. Stare attenti a quello che deciderà la giustizia”. E poi ha aggiunto: “ Una volta che la giustizia ha parlato, parlerò io”.

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Emendamento Pd al decreto Salva Banche per reinserire i 97 milioni a garanzia della Ryder Cup

Erano usciti dalla porta. E ora sono rientrati dalla finestra. I 97 milioni di euro per la Ryder Cup che il Governo aveva inserito nella legge di Bilancio, successivamente depennati dopo le polemiche legate alle “marchette”, sono tornati. Attraverso una proposta di modifica alla legge di conversione del decreto Salva Banche – quello per intendersi varato il 23 dicembre scorso dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per stanziare i 20 miliardi necessari al salvataggio del Monte Paschi di Siena.

Con un emendamento presentato il 31 gennaio dal Pd Renato Guerino Turano infatti si chiede in sostanza di reinserire la garanzia dello Stato per un ammontare fino a 97 milioni di euro a favore della competizione di golf. Soldi che serviranno unicamente come garanzia, quindi, per la “realizzazione del progetto Ryder Cup 2022 relativamente alla parte non coperta dai contributi dello Stato”.Se ne è accorto Giuseppe Vacciano, senatore ex M5S noto per essere il parlamentare che non riesce a dimettersi dal suo scranno a causa della bocciatura delle sua richiesta da parte dei colleghi di Palazzo Madama (tre tentativi andati a vuoto). “La marchetta di cui non riusciamo a liberarci, l’irrinunciabile Ryder Cup garantita da soldi pubblici”, scrive Vacciano su Facebook allegando copia dell’emendamento.

Difficile dire quale sia il legame tra il golf e il provvedimento rivolto alla messa in sicurezza degli istituti di credito italiani, Mps in primis dopo il fallimento della strategia dell’ex governo Renzi per la ricapitalizzazione ad opera dei privati. Più facile ricordare le polemiche montate alla fine dell’anno scorso, quando erano in discussione gli emendamenti alla legge di Bilancio. Nel lungo articolato (104 articoli) della legge di Bilancio presentato dal Governo Renzi c’erano tantissime misure. Alcune prioritarie, altre meno.

Tra queste ultime, ad esempio, c’erano i fondi per il Centro meteorologico europeo, quelli per la Coppa del mondo di sci o, appunto, le risorse per la Ryder Cup. Casi che sollevarono polemiche perché, mentre da un lato venivano finanziate questi progetti meno “prioritari”, il Governo stoppava un altro emendamento alla legge di Stabilità che stanziava 50 milioni di euro per l’emergenza sanitaria di Taranto legata all’Ilva. Ci fu un acceso scontro tra l’allora premier Matteo Renzi e il presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia sulle responsabilità per la cancellazione dell’emendamento salva Ilva.

Dopo le polemiche, sparirono anche i 97 milioni di euro per la Ryder Cup. Ma sono tornati. Nella legge di conversione del decreto per il salvataggio Salva Monte Paschi.

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