Nel giorno dell’Annunciazione, alla stregua dell’angelo del Signore, Francesco ha siglato il passaggio da un vecchio a un nuovo “testamento”, dal nostro ad un altro mondo, traghettando i suoi discepoli verso l’ignoto e rinnegando millesettecento anni di alleanze fra trono e altare.
Così, mentre in Campidoglio i capi di stato e di governo, epigoni degli Orazi e dei Curiazi, facevano provvisoria tregua delle loro interminabili tenzoni e consegnavano alla storia le proprie, altrettanto sterili, dichiarazioni, Bergoglio ha lasciato Roma per seminare il verbo nel grembo di una Nazareth padana. Nella città della Madonnina, zona Milano Trecca. Vergine di poteri e gonfia di problemi. Fatiscente nel capoluogo del fashion. Bianca e sbiadita come le sue case. Là dove cresce la Chiesa del futuro.
Tempismo d’attore, regia d’autore. Messa in scena con apparente nonchalance. Ma eloquente, troppo, per risultare casuale. Come il copione di quei film in cui alla fine tutto torna: i misteri si svelano, i sentieri si ritrovano. Complice la diretta televisiva, che divide in due lo schermo e rende all’improvviso la trama intellegibile, diradando le nebbie a primavera e mostrando il volto, i numeri del vincitore: un milione contro diecimila, in un rapporto schiacciante di cento a uno tra fedeli meneghini e manifestanti romani.
Bergoglio contro “resto d’Europa”, oggi, e a maggio contro il “resto del mondo”, quando il G 7 pianterà le tende al sole di Taormina, schierando l’astro nascente del suo campione, Donald Trump, direttamente in trasferta da Washington. Capitale del mondo versus periferie, dunque. “Casa Bianca” contro “case bianche”, nel Super Bowl, da disputare a colpi di share, con il leader più potente, e ingombrante, della terra. Ben altra cosa che la stella cadente di François Hollande, abbandonato dai sondaggi, e la cometa usurata, intermittente di Frau Merkel, a corto di seguaci sulla scia del rigore. “Questo è un grande dono per me: entrare nella città incontrando dei volti, delle famiglie, una comunità”.
Dagli abitanti del quartiere Forlanini ai detenuti delle celle di San Vittore, l’arco di trionfo di Francesco non passa dai palazzi delle istituzioni. Nemmeno dall’Università Cattolica, emblema dell’intellighenzia e del programma, storicamente, di estendere la propria influenza sulla società: una tappa che il Pontefice ha tuttavia snobbato al pari della Expo, con uno strappo ancora più stridente.
Come se il Papa, nell’arco di 48 ore, avesse disarcionato in una volta Costantino e Marco Aurelio, la politica e la cultura, operando un formidabile uno-due.
Al punto che 25 marzo del 2017 marca una sorta di “annunciazione” al rovescio e realizza, concretamente, la profezia di Antonio Spadaro – direttore di Civiltà Cattolica e ascoltato consigliere del Pontefice, apparsa un anno fa imprudente, impudente a molti ancorché veritiera – e sancisce la fine della “cristianità, cioè di quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa”.
“Non abbiate paura di abbracciare i confini, le differenze. Di ospitare le differenze e integrarle con creatività”: tra il parco reale di Monza e l’arena di San Siro, tempio laico del football, si è materializzato, e ha preso corpo, il gioco della “squadra” di Francesco. Uno schema che, ad onta dei tatticismi di scuola europea e al passo con più moderne teorie calcistiche, non offre punti di riferimento, ma risulta imprevedibile. A tratti persino al proprio artefice. Affidandosi all’ispirazione divina e al talento della panchina, nel mondiale, a geografie e gerarchie variabili, della globalizzazione, dove “le cose di prima sono passate”. E niente si può più dare per scontato.
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