Beppe blinda Virginia e mette a tacere gli ortodossi. Raggi: “Non mi dimetto. Alcuni contro di me? Me ne faccio una ragione”.

Beppe Grillo furioso. Non con Virginia Raggi bensì con chi, nel Movimento 5 Stelle, ha attaccato il sindaco di Roma per la polizza vita stipulata per “motivi affettivi”, nel gennaio 2016, in suo favore da Salvatore Romeo, divenuto ad agosto capo della segreteria con uno stipendio triplicato. Insomma, ancora una volta, il leader pentastellato nel pomeriggio ha mandato un chiaro messaggio ai naviganti, che in sostanza è riassumibile così: “Guai a chi parla, nessuna dichiarazione contro Virginia. Sarà lei e solo lei a parlare”. Decide così di far andare il sindaco in tv e affida la preparazione della performance a Rocco Casalino, il punto di raccordo tra i vertici del Movimento e Roma. “Nel Movimento alcuni contro di me? Ci sono persone che ti amano e persone che ti amano meno, facciamocene una ragione e andiamo avanti”, dirà ospite di ‘Bersaglio mobile’.

Il primo cittadino della Capitale viene quindi blindato ancora una volta da Grillo e Davide Casaleggio. Raggi va avanti. “Ho la fiducia del Movimento, ho anche sentito Grillo”. Niente dimissioni, anche se “non posso dire di non averci pensato, in questi mesi”, ammette. Dopo il diktat del leader, nessuno ha parlato ufficialmente né tra i pragmatici né tra gli ortodossi. Questi ultimi che, fino a poche ore prima delle indicazioni arrivate da Grillo, invocavano il giudizio della Rete, adesso sulla storia della polizza, sempre a taccuini chiusi, tendono a sminuire, come chiesto loro espressamente dal leader. Leader che non ha concesso, e per adesso non ha alcuna intenzione di farlo, il voto degli iscritti, anzi ha invitato tutti ad abbassare i toni e ad entrare nel merito della questione il meno possibile. Alessandro Di Battista, per esempio, nel post scriptum su Facebook annota: “Questa sera Virginia Raggi risponderà a tutte le domande”. Mentre Beppe Grillo condivide sul suo blog la nota in cui il sindaco dice che fino a ieri non era a conoscenza delle polizze assicurative.

Stessa linea difensiva utilizzata in tv. “A Romeo chiederò perché non mi ha avvertito, non averlo saputo è stata una cosa spiacevole. E quando lo vedrò – dice Raggi – gli chiederò di cambiare il beneficiario della polizza perché solo l’idea di questa polizza mi mette ansia”. Poi racconta di aver conosciuto l’ex capo della segreteria nel 2013, “lui ci ha aiutato tantissimo quando eravamo consiglieri di opposizione. Nel tempo si è consolidato il rapporto con tutti e quattro del gruppo, si è consolidata un’amicizia, lui ci ha presentato Raffaele Marra, poi era mortificato per averlo fatto. Per quanto riguarda Marra era una persona molto competente, in qualche modo ci ha fatto capire come funzionava la macchina del Comune”.

Sta di fatto che dopo l’interrogatorio fiume di ieri sul caso Marra e le rivelazioni sulle polizze vita, oggi a Palazzo Senatorio è trascorsa un’altra giornata campale. Nel bel mezzo arrivano anche le parole di Salvatore Romeo all’agenzia Ansa in cui si difende dicendo che le polizze “non hanno nulla a che vedere con il Movimento, né tantomeno sono state aperte a favore di suoi esponenti in modo da favorire Virginia Raggi piuttosto che un altro candidato alle primarie per la scelta del Sindaco di Roma. Grave e non vera è la tesi secondo cui le somme con cui sono state aperte tali polizze non sarebbero state in realtà mie ma di terzi, con ciò facendomi passare per un tesoriere occulto o un prestanome”.

Poco dopo Raggi aggiunge: “Credo che Romeo abbia commesso una grande leggerezza, voglio vederci la buona fede”. Poi chiede: “Basta gossip, sono sindaca di una capitale che deve rinascere”. “Non ho ricevuto un solo euro” dalle polizze, dirà poi, minacciando querele. E Romeo: “voglio chiarire che non c’è stata e non c’è alcuna relazione fra me e Virginia Raggi”. La procura fa sapere che le polizze per l’allora aspirante sindaca – una da 30 mila euro del gennaio 2016 e priva di scadenza, l’altra da 3.000 euro con scadenza 2019 – non hanno rilevanza penale “in quanto non emergerebbe un’utilità corruttiva”. Anche Romeo conferma di averle stipulate senza dirglielo: “Per una grande stima e amicizia nei suoi confronti”. Ma i pm vogliono comunque capire se ci fossero motivazioni diverse da quelle indicate dal titolare delle assicurazioni sulla vita.

Nel M5S i dubbi, seppur messi a tacere, rimangono tra i militanti e i consiglieri comunali che appaiono preoccupati e divisi. Si aspettano sviluppi giudiziari, qualcuno tra i corridoi di Camera e Senato teme che non sia finita qui. Intanto però toni bassi fino a nuovo ordine.
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La Procura apre un fascicolo sul presunto dossier Raggi contro De Vito. L’amarezza di Grillo: “Forse abbiamo sottovalutato”

Virginia Raggi, accusata di abuso d’ufficio e falso, non è ancora stata interrogata dalla Procura a proposito della nomina di Renato Marra a capo del dipartimento Turismo, ma in casa 5Stelle scoppia già un altro problema. In realtà era un problema latente, forse sottovalutato come avrebbe ammesso lo stesso Beppe Grillo parlando con le persone a lui più vicine. Si tratta del presunto dossier contro Marcello De Vito, attuale presidente dell’Assemblea capitolina. Questo dossier sarebbe stato stilato un anno fa – secondo quanto ha rivelato Il Fatto Quotidiano – dall’attuale sindaco di Roma, dall’assessore Daniele Frongia e dal vicepresidente dell’assemblea Enrico Stefàno per far fuori Di Vito dalla competizione interna ai 5Stelle per la carica di sindaco. In pratica dalle comunarie. Così la procura di Roma ha aperto un fascicolo, al momento senza ipotesi di reato e indagati, per far luce su questo dossieraggio interno ai 5Stelle poiché dietro queste carte potrebbe esserci Raffaele Marra, ora in carcere per corruzione. Chi ha parlato con il leader M5S lo ha sentito amareggiato: “Forse un anno fa abbiamo sottovalutato cosa stava succedendo”.

Nel fascicolo in questione De Vito veniva accusato di aver compiuto una serie di atti contrari alla buona amministrazione e un reato. Cioè un abuso d’ufficio in relazione a una richiesta di accesso agli atti. De Vito, il 7 gennaio scorso, in piena campagna per le comunarie, viene convocato dai tre consiglieri alla presenza dei parlamentari romani tra cui Alessandro Di Battista, Roberta Lombardi e Carla Ruocco. Lui si difenderà poi con una mail, ma quando viene fuori la notizia di questo dossieraggio interno ai 5Stelle, il senatore Andrea Augello del gruppo Idea-Cuoritaliani presenta un esposto in Procura. E infatti sabato scorso è stata sentita come testimone Roberta Lombardi e, secondo quanto riportato sempre da “Il fatto quotidiano”, avrebbe riferito che dietro le accuse formulate a De Vito ci sarebbe stato Raffaele Marra, l’ex braccio destro di Virginia Raggi arrestato il 16 dicembre scorso per corruzione. Lo stesso De Vito sarebbe stato sentito dai pm di piazzale Clodio ed altri esponenti del movimento pentastellato saranno sentiti prossimamente dagli inquirenti. Con ogni probabilità chi era presente a quella riunione.

Andrea Augello ricorda: “Quando ho deciso di rivolgermi alla magistratura per fare chiarezza sulle inquietanti voci relative ad una presunta attività di dossieraggio, basata su false informazioni e finalizzata ad eliminare il consigliere De Vito dalla corsa per le primarie nel M5S che si concluse con la vittoria della Raggi, l’assessore Frongia minacciò querele. I primi interrogatori della Procura confermano invece lo squallido regolamento di conti che lacerò i Cinque stelle, aprendo una faida senza fine”.
Frongia, tirato in ballo insieme alla stessa Raggi, non ci sta e posta su Fb: “Continuano a uscire sui giornali ricostruzioni fantasiose su chat e dossier, prive di fondamento. Il senatore Andrea Augello da luglio continua a rilasciare dichiarazioni prive di senso sul mio conto. Forse ha un’ossessione per me”. Giovedì la sindaca dovrebbe essere sentita dai magistrati nell’ ambito dell’inchiesta sulla nomina di Renato Marra, fratello di Raffaele, per cui risulta indagata. In quell’occasione non è detto che i pm non le chiedano qualcosa anche su questo nuovo fronte giudiziario.

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Proteste contro Donald Trump all’aeroporto di New York per la stretta sull’immigrazione. Primi ricorsi contro il tycoon

Sono già arrivati i primi ricorsi contro la stretta sull’immigrazione decisa dal presidente Donald Trump. Il Jfk, il principale aeroporto di New York, si è trasformato nel simbolo della protesta contro l’ordine esecutivo con il quale ha sospeso temporaneamente l’arrivo di tutti i rifugiati e delle persone provenienti da sette Paesi islamici (Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen). Centinaia di persone si sono riversate davanti ai terminal con cartelli e striscioni favorevoli all’accoglienza, chiedendo la liberazione dei passeggeri detenuti in base al nuovo bando (molti in possesso di regolare green card).

Tra le centinaia di persone che hanno protestato in favore della libertà, anche Micheal Moore, il noto regista “controcorrente”, che dai suoi account social ha sollecitato a prendere parte alla protesta e ha trasmesso una diretta sulla sua pagina Facebook. Migliaia di utenti hanno commentato e condiviso le proprie storie.

Vicinanza a chi è sceso in strada è stata espressa anche da Justin Trudeau, primo ministro canadese, che, di contro a quanto deciso da Trump, si è dimostrato favorevole all’accoglienza: “A tutti coloro che scappano dalle persecuzioni, dal terrore e dalla guerra, i Canadesi sono pronti ad accogliervi, indipendentemente dalla vostra fede religiosa. La diversità è la nostra forza”, ha scritto sulla sua pagina Facebook.

A mettere un po’ di chiarezza nella situazione è stata Ann Donnelly, giudice federale di New York, che ha emesso un’ordinanza di emergenza che temporaneamente impedisce agli Stati Uniti di espellere i rifugiati che provengono dai sette paesi a maggioranza islamica soggetti all’ordine esecutivo emanato dal presidente Donald Trump, che ha congelato gli arrivi da quei paesi per tre mesi. L’ordinanza di emergenza del giudice Donnelly annulla una parte dell’ordine esecutivo del presidente Donald Trump sull’immigrazione, ordinando che i rifugiati e altre persone bloccate negli aeroporti degli Stati Uniti non possono essere rimandate indietro nei loro paesi. Ma il giudice non ha stabilito che queste stesse persone debbano essere ammesse negli Stati Uniti ne’ ha emesso un verdetto sulla costituzionalità dell’ordine esecutivo del presidente.

I legali che hanno citato in giudizio il governo per bloccare l’ordine della Casa Bianca hanno detto che la decisione, arrivata dopo un’udienza di urgenza in una corte di New York, potrebbe interessare dalle 100 alle 200 persone che sono state trattenute al loro arrivo negli aeroporti statunitensi sulla base dell’ordine esecutivo che il presidente Donald Trump ha firmato venerdì pomeriggio, una settimana dopo il suo insediamento.


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La Waterloo di Grillo. Alde rifiuta l’ingresso di M5S. Salta la strategia del leader: parlamentari contro di lui

È la Waterloo di Beppe Grillo. E in fondo il luogo dove è caduto Napoleone non è molto distante da Bruxelles, teatro invece dello schiaffo di Guy Verhofstadt al leader M5S, rimasto sconfitto e con un partito confuso e arrabbiato. La mossa strategica di lasciare Nigel Farage per aderire al gruppo Alde e conquistare terreno nell’Europarlamento, in poche ore, si è rivelata un boomerang per i grillini. L’Alleanza dei Democratici e dei liberali per l’Europa ha infatti votato contro l’ingresso dei 5Stelle nel gruppo. Il ‘no’ secco è arrivato in particolare dai francesi e dai tedeschi e il capogruppo Verhofstadt non ha potuto che prenderne atto e salutare Grillo: “Sono arrivato alla conclusione che non ci sono sufficienti garanzie per portare avanti un’agenda comune per riformare l’Europa. Non c’è abbastanza terreno comune per procedere con la richiesta del Movimento 5 Stelle di unirsi al gruppo Alde. Rimangono differenze fondamentali sulle questioni europee chiave”.

Parole sorprendenti che arrivano pochi giorni dopo che il leader pentastellato, in gran segreto grazie alla mediazione di David Borrelli, ha siglato un pre accordo proprio con Guy Verhofstadt. Ma la sede dell’Europarlamento oggi è diventata un campo di battaglia e Grillo ha fatto il suo ingresso questa mattina presto con l’intento di sedare la protesta di alcuni europarlamentari che non hanno condiviso il cambio di rotta e l’adesione al gruppo più europeista che c’è in Ue, gruppo che fu di Romano Prodi e Mario Monti, per intendersi. Intanto a mezzogiorno vengono pubblicati i risultati del sondaggio, annunciato domenica a sorpresa tra lo stupore di tutti: il 78,5% degli iscritti al blog ha scelto di aderire all’Alde. Al di là del risultato quasi plebiscitario, la base, stando ai commenti, da domenica si è rivoltata contro Grillo. Le bacheche Facebook dei parlamentari sia nazionali sia europei sono state prese di mira e si sono trasformate in un delirio di commenti. Tutti presi alla sprovvista, in pochi hanno appoggiato la decisione del leader pentastellato. E c’è chi, come Nicola Morra e Carlo Sibilia, ha deciso di uscire allo scoperto. Non solo. Questa incongruenza, tra il voto della Rete e gli umori invece della Rete e dei parlamentari, ha prestato il fianco anche al sospetto che il voto web fosse stato manipolato.

Sta di fatto che a Luigi Di Maio è toccato l’ingrato compito di dover arrabattarsi e fornire giustificazioni parlando di una “mossa tecnica e non politica”. Il candidato premier in pectore garantisce inoltre che il referendum sull’euro verrà fatto comunque e che l’adesione a un gruppo europeista serve soltanto a mantenere diritti all’interno dell’Europarlamento, tra cui i 700mila euro che ogni partito ha a disposizione ed entrare poi nella partita delle presidenze delle commissioni. L’unico risultato che sortisce il post di Di Maio è una pioggia di commenti negativi e pochi “like”.

Passano poche ore ed ecco il colpo di grazia. Le stanze dell’Europarlamento sono ormai un campo di battaglia. In una, Beppe Grillo e Davide Casaleggio provano a sedare la protesta degli europarlamenti scontenti, in un’altra pochi passi più in là c’è Verhofstadt che prova a convincere i suoi, anche perché si sta giocando la sua personalissima gara per la presidenza dell’Assemblea, e strappare il ‘sì’ all’ingresso dei grillini. Ma dopo tanti tormenti e dichiarazioni al vetriolo, come quella della vicecapogruppo dell’Alde, la francese Marielle de Sarnez (“Farò di tutto per impedire che succeda. Sarebbe un’alleanza empia”), arriva la posizione ufficiale del gruppo: M5S è fuori.

Il danno d’immagine è enorme dopo che Grillo, in ventiquattro ore, ha mandato in tilt la base, ha mandato su tutte le furie i parlamentari nazionali ed europei, che si sono ritrovati con un accordo già firmato prima ancora che venisse ratificato dal blog, e per finire non ha ottenuto il risultato sperato. Anzi, ha subito una vera e propria cacciata. La difesa del leader pentastellato è quella solita d’ufficio: “L’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del MoVimento 5 Stelle nel terzo gruppo più grande del Parlamento Europeo. Questa posizione ci avrebbe consentito di rendere molto più efficace la realizzazione del nostro programma. Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi”. Recita la parte della vittima anche Alessandro Di Battista, l’altra punta M5S scesa in campo in una giornata da psicodramma: “Si sono tirati indietro – dice ospite a Otto e mezzo – perché è bene che alcune nostre idee vengano un po’ ostacolate”. Ma la sconfitta politica, al di là delle dichiarazioni ufficiali, rimane e adesso i grillini confluiranno nel gruppo Misto, che – secondo Grillo – significa “occupare una poltrona con le mani legate: non poter lavorare”. È la resa.
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Grillo lancia ‘Comunarie’ a sorpresa. Tra i più votati c’è Forello di AddioPizzo, contro cui Nuti ha presentato un esposto

Ha approfittato della pausa natalizia per organizzare ‘Comunarie’ veloci. Una consultazione che potesse provocare il minor numero di polemiche e attirarsi addosso una bassa quantità di riflettori. Beppe Grillo ha indetto a sorpresa, sul suo blog, la votazione per scegliere i candidati del Movimento 5 Stelle alle amministrative di Palermo. Cioè nella città che più di ogni altra, al netto di Roma, è stata in questi mesi nell’occhio del ciclone mediatico e giudiziario per quanto riguarda i 5Stelle. La batosta relativa al caso delle presunte firme false, presentate alle amministrative del 2012, si è fatta sentire. Alla votazione hanno partecipato solo 524 iscritti.

I cinque che hanno ricevuto più voti e che accedono al secondo turno per la scelta del candidato sindaco sono Giulia Argiroffi, Giancarlo Caparrotta, Franca Tiziana Di Pasquale, Salvatore Forello e Igor Gelarda. Questi ultimi due, rispettivamente fondatore dell’associazione AddioPizzo e leader del sindacato Consap, già alla vigilia erano considerati i favoriti, suscitando le polemiche di chi li considera degli outsider dal momento che invece molti attivisti, che fanno capo ai deputati nazionali, sono stati esclusi poiché coinvolti nella vicenda delle firme false. Nei MeetUp di Palermo è in corso una guerra tra bande, come dimostra l’esposto spedito alla procura e all’ordine degli avvocati dai parlamentari Riccardo Nuti, Giulia Di Vita e Claudia Mannino per denunciare un presunto complotto ai loro danni. Complotto organizzato proprio dal fondatore di AddioPizzo.

Per tutte queste ragione e a causa di un clima rovente quelle che si sono concluse sono state delle primarie quasi sottotraccia. La lista dei candidati era visibile solo agli iscritti M5S residenti a Palermo, le comunicazioni di inizio voto – scriveva questa mattina La Repubblica Palermo – sono tardate ad arrivare e gli attivisti pensavano che le ‘Comunarie’ iniziassero la prossima settimana. Insomma, un voto a sorpresa tra Natale e Capodanno.

Alcuni dati la dicono lunga sul clima che si respira nel capoluogo siciliano. Su 122 candidati che si erano presentati ad agosto, prima dello scandalo relativo alle presunte firme false raccolte in occasione delle amministrative del 2012, in 43 hanno rinunciato alla corsa, alcuni per ragioni giudiziarie altri – secondo alcuni – per favorire Forello. Solo 79 sono stati gli aspiranti a un posto in lista. Per ragioni giudiziarie è rimasto fuori lo zoccolo duro del Movimento palermitano, coloro cioè che sono più vicini ai deputati nazionali. Si tratta di Samanta Busalacchi e Riccardo Ricciardi, che hanno ricevuto uno stop poiché coinvolti nell’inchiesta sulle firme false.

Da parte degli esclusi, nelle scorse settimane, sono arrivati attacchi feroci a Forello, tanto che lunedì sera la deputata Chiara Di Benedetto, vicina al gruppo che fa capo a Riccardo Nuti e dunque a Samanta Busalacchi e Riccardo Ricciardi, ha ipotizzato che a pilotare le rinunce alle ‘Comunarie’ fosse proprie lui. “Non mi stupirei affatto – ha scritto – se dietro a molti, non tutti, ritiri di candidatura, giustificati con i più nobili degli intenti e dei saldi principi etici e morali, si nasconda il più infimo progetto di boicottare scientemente le ‘comunarie’ online per poter, poco dopo, presentare una lista bella e pronta, probabilmente da mesi”. Una lista che, secondo l’accusa della deputata, “al proprio interno annovera tutti questi ‘duri e puri’ dell’ultimo minuto e, magari, con qualche professionista dell’antimafia come candidato a sindaco”. Ecco appunto le parole al vetriolo, condivise anche da Nuti e che raccontano un clima infuocato nella città che ad aprile, secondo gli auspici pentastellati di qualche mese fa, doveva lanciare la volata per conquistare a ottobre la presidenza della Regione. E invece il giorno dopo la festa nazionale che si è tenuta proprio a Palermo è scoppiato il caos giudiziario, secondo qualcuno pilotato proprio da quella fronda che avrebbe voluto far fuori Samanta Busalacchi e quindi i deputati nazionali.

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Francia, primarie centro destra: vince Francois Fillon contro Alain Juppé. Marine Le Pen ha il suo nuovo rivale

Marine Le Pen sembra avere un nuovo rivale, con il quale dovrà confrontarsi sullo stesso terreno di gioco per convincere i francesi prima delle elezioni presidenziali del prossimo anno.

François Fillon si è aggiudicato il ballottaggio delle primarie dei Républicans con il 68,3% delle preferenze, distaccando di 37 punti Alain Juppé, rimasto fermo al 31,6%. Un risultato provvisorio che verrà confermato solamente in tarda serata. In quest’ultima settimana il sindaco di Bordeaux non è riuscito a colmare lo scarto accumulato domenica scorsa al primo turno, quando il suo rivale ha riportato un risultato del tutto inaspettato, ottenendo il 44% delle preferenze.
L’ex premier di Sarkozy è stato protagonista di un’improvvisa escalation che nell’ultimo mese lo ha proiettato in cima alle preferenze. Le proposte moderate di Juppé non hanno convinto gli elettori di destra, che si sono orientati verso idee più radicali e gaulliste.

L’affluenza di oggi ha testimoniato l’importanza data dai francesi a queste primarie, le prime organizzate nella storia della destra e considerate da molti come uno dei principali test in vista delle prossime presidenziali, previste tra maggio e aprile del prossimo anno. Alle 17h00 avevano già votato 2,9 milioni di persone, una mobilitazione leggermente maggiore rispetto a quella del primo turno, che alla stessa ora aveva registrato 2,8 milioni di elettori.

La candidatura di Fillon all’Eliseo costringerà i suoi avversari a ridisegnare le strategie preparate in questi ultimi mesi. L’uscita di scena di Sarkozy e Juppé ha stravolto tutti i piani, costringendo analisti e osservatori a disegnare nuovi scenari politici.

Nonostante un programma centrato su misure fortemente liberali nel campo del lavoro e dell’industria (taglio di 500mila posti di funzionari pubblici, abolizione delle 35 ore e riduzione di 110 miliardi sulla spesa pubblica) , Fillon si posiziona in diretta concorrenza con il Front National di Marine Le Pen grazie ad una serie di proposte sociali di stampo conservatore e nazionalista. La presunta amicizia con il presidente russo Vladimir Putin, l’endorsement della Manif pour Tous, (movimento cattolico contrario ai matrimoni omosessuali), e le sue posizioni antiabortiste e ultracattoliche potrebbero attirare le simpatie dell’elettorato dell’estrema destra francese, livellando così lo svantaggio che i Républicains avrebbero nei confronti del partito lepenista.

Uno scenario, questo, totalmente smentito dai vertici del Front National, che non hanno perso tempo nel prendere le distanze dal candidato repubblicano, attaccandolo sulle sue proposte economiche. Secondo il vice presidente, Florian Philippot, i progetti presentati da Fillon conterrebbero alcune idee di una “violenza inaudita”, dal carattere “ultra liberale” e “euro-liberale”. Il numero due del Front National ha poi definito la figura del candidato repubblicano come una “Tatcher con 30 anni di ritardo”.

Questa competizione tra destra ed estrema destra potrebbe andare a vantaggio del Partito Socialista, lacerato da una crisi interna che ne sta mettendo a repentaglio la stabilità.

In un’intervista rilasciata questa mattina a Le Journal de Dimanche, il Primo Ministro Manuel Valls non ha escluso una sua candidatura alle prossime primarie della sinistra, previste per il 22 e 29 gennaio. “Prenderò la mia decisione con coscienza” ha detto Valls, riconoscendo che “nelle ultime settimane il contesto è cambiato”. Parole, queste, pronunciate nell’attesa che anche François Hollande sciolga le riserve su una sua eventuale discesa in campo. Secondo indiscrezioni trapelate in questi giorni, la dirigenza del partito vedrebbe di buon occhio una candidatura del Primo Ministro, dato nei sondaggi al 65% contro Hollande, fermo al 23%.

Il tasso di impopolarità del Presidente è ai minimi storici, con solo il 4% dei francesi che giudicano positivamente il suo operato. Un record in negativo che prima di oggi nessun presidente della V° Repubblica aveva mai raggiunto. Ma senza il suo rivale storico, Nicolas Sarkozy, Hollande potrebbe tentare un ultimo, disperato, tentativo.

Contro le sue posizioni conservatrici, giudicate spesso reazionarie, la sinistra dovrebbe tornare sui suoi passi, rivedendo alcune decisioni prese durante quest’ultimo mandato, prima fra tutte la tanto contestata riforma del lavoro.
Per riuscire nell’impresa, l’intero partito socialista dovrà far fronte all’avanzata delle destre francesi in modo compatto e unito, un atteggiamento che per il momento sembra essere lontano dalla realtà.
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Referendum, corpo a corpo di Renzi contro “l’accozzaglia”. E sulle critiche di Napolitano tira dritto

A dodici giorni dalla fatidica ora X del 4 dicembre Matteo Renzi, come in una mano di poker, cala sul tavolo l’all in: “Non sarò della partita nel caso in cui le cose vadano male, dico no agli inciuci”. Piatto. Torna cioè la grande politicizzazione del referendum, come quando disse, “se perdo lascio la politica”, frase che aveva fatto sobbalzare i fautori del sì mite alla Giorgio Napolitano, o pezzi di renzismo di governo. E li fa sobbalzare ancora.

Proprio tra il premier e il presidente emerito la diversità di approccio è totale. Sentite Napolitano, ospite di Porta a Porta: “È diventata una sfida aberrante. Non votiamo al referendum per giudicare Matteo Renzi, per quello ci sono le elezioni politiche. Si vota quello che è scritto nella legge. Si vota su quello, non sulle motivazioni di Renzi”. Il premier aveva appena finito di spiegare, e così farà nei prossimi giorni, che il destino del governo è invece appeso al referendum: “Se volete una classe politica aggrappata alla poltrona e che non cambi mai prendetela, perché io non sto cosi. Io sto qui se posso cambiare le cose. Non sto qui aggrappato al mantenimento di una carriera. Non ho niente da aggiungere al curriculum vitae”. (Leggi qui il disappunto di Napolitano sulla linea plebiscitaria di Renzi).

L’opposto, appunto, del confronto oggettivo e di merito, invocato da Napolitano, critico anche sul grillismo di una campagna tutta giocata sui costi della politica. Personalizzazione, politicizzazione, l’ora e mezzo di #Matteorisponde su facebook diventa un corpo a corpo contro “l’accozzaglia”. Sarà il mantra degli ultimi giorni, fino al gran finale, per cui ha già dato l’ordine di riempire una piazza nella sua Firenze. Un’impostazione che riflette, innanzitutto, l’indole. E che rottama tutti consigli. Sia quelli di Napolitano, fautore di un confronto nel merito sia quelli di Farinetti, che suggeriva di essere più simpatici. Né pacatezza né simpatia: il premier è convinto che solo il corpo a corpo sposti gli indecisi: “A questo punto – spiega uno dei suoi – chi si doveva fare un’idea di merito, se l’è già fatta. Gli informati sono informati. Ora si mobilita sul messaggio ‘meglio io degli altri”.

Ecco una raffica di attacchi, battute ad effetto, contro la cosiddetta “accozzaglia” e i suoi protagonisti: “l vero pasticcio rischiano di farlo loro il giorno dopo”, “stanno cercando dio fregarvi sulla riforma, ci raccontano balle, sentiamo il rumore di unghie che si aggrappano agli specchi”. I bersagli preferiti sono “D’Alema, De Mita, Monti, Brunetta, Grillo” che “pensano che con questo voto si possa tornare a un sistema con cui si fanno inciuci in Parlamento”. L’Innominato è Silvio Berlusconi, il cui faccione non a caso non compariva nella famosa foto dell’accozzaglia. Perché è chiaro che il premier punta al voto di Forza Italia e quel voto si conquista evocando parole d’ordine berlusconiane o rendendo plastico, nei confronti tv, che i nemici del sì sono gli stessi nemici di Berlusconi, da Travaglio a Landini. Ed è chiaro anche che, dal mondo berlusconiano, non arrivano segnali di particolare ostilità (leggi qui), dal no “tiepido” del Cavaliere alla riforma, fino al sostegno delle reti Mediaset.

Scamiciato, nel suo studio di palazzo Chigi dove sono tornate le bandiere europee, linguaggio che non ha nulla di istituzionale, il premier piccona i Cinque stelle, da Beppe Grillo a Rocco Casalino: “Casalino mi sta simpatico, non lo conosco personalmente e io al Grande fratello ero più per Taricone, ma Casalino è passato dalla casa del ‘Grande fratello’ alla casa del grande Senato”. Parla di poltrone, di Casta, in un evidente tentativo di rivolgersi all’elettorato pentastellato minando la credibilità dei suoi dirigenti: “Dico agli elettori M5s: volete continuare a pagare i fondi del Senato perché quelli della comunicazione abbiano i rimborsi delle bollette? Amici come prima, ma poi non vi lamentate della casta”.

“Il treno non ripassa”, “tornano instabilità e galleggiamento”, “col sì stessa assistenza sanitaria per tutti”, “quando votate pensate ai vostri figli”. Palazzo Chigi è più il super comitato del sì che la regia del governo. E sarà così, fino alla fine, a colpi di 5 iniziative al giorno, trasmissioni, tg. Nei momenti di pausa, dal cellulare del premier parte anche il training autogeno ai suoi: “Vinciamo noi, sono sicuro” è l’sms mandato a parecchi in questi giorni.

Insomma, all inn. Con una differenza rispetto all’inizio. E cioè che il premier non ha alcuna intenzione di lasciare la politica. Anzi, questa mobilitazione, in caso di sconfitta, ha già dentro la strategia per il dopo: “Prende il 49, il 48? – prosegue il fedelissimo – Bene, quello è tutto suo, mentre l’ammucchiata sta nel 51. A quel punto dirà: lascio palazzo Chigi e voglio vedere cosa riuscite a fare, mentre girerà il paese da capo del Pd scagliandosi contro i nemici del cambiamento”. Lo schema è tre mesi di governo per la legge elettorale e nuovo all inn. Almeno questo è quel che spifferano a 12 giorni dal voto, forse anche per esorcizzare la paura che, mai come in questo caso, la sconfitta avrebbe un solo padre. E alla mano successiva, inevitabilmente, ci sarebbero meno fish da puntare.
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Francia, sciopero in rosa contro le disparità salariali. Alle 16.34 le donne transalpine hanno smesso di lavorare

Lo hanno detto e lo hanno fatto: alle 16,34 minuti e 7 secondi numerose donne francesi hanno smesso oggi di lavorare in segno di protesta contro le disparità salariali. Stimarne il numero è impossibile ma l’adesione allo sciopero altamente simbolico, assicurano le organizzatrici, è stata alta.

“Del resto – si chiedono loro – perché continuare a lavorare gratis fino alla fine dell’anno, precisamente 39 giorni in più dei colleghi maschi senza alcuna retribuzione?” Una constatazione che trae ispirazione da un recente studio Eurostat secondo cui gli uomini guadagnano il 15,1% in più delle donne.

Tradotto in tempo sono, appunto, 39 giorni, quelli lavorativi che mancano da oggi al 31 dicembre. Anche nel Paese dell”Egalité, quando si tratta di stipendio persiste una grave disuguaglianza di genere. L’appello allo sciopero era stato lanciato dal collettivo femminista “Les Glorieuses”: sul web il passaparola è stato travolgente e l’idea talmente apprezzata che anche il ministro per le pari opportunità, Laurence Rossignol, l’ha applaudita e sostenuta.
Le organizzatrici promettono che l’iniziativa sarà ripetuta l’8 marzo, per la Festa della donna, e il 7 novembre dell’anno prossimo. L’idea, in realtà, non è francese ma è stata presa in prestito dall’Islanda che l’ha organizzata due settimane fa riscuotendo un grande successo.

In realtà l’astensione dal lavoro a partire dalle 16.34 non è stato uno sciopero nel senso pieno del termine, né poteva esserlo visto che soltanto un sindacato può proclamarlo. Ma è stato un modo per lanciare un segnale di fronte a una palese ingiustizia. Per partecipare bastava segnalare la propria assenza al datore di lavoro e sperare nella sua comprensione. Chi non poteva ha manifestato la sua adesione simbolica via i social network.

Diverse anche le donne che hanno partecipato a manifestazioni organizzate nelle principali città francesi. Alle 16.34 in Place de la République, nel cuore di Parigi, c’erano circa 300 donne (e qualche uomo). Infine c’è chi ha incrociato solo simbolicamente le braccia pur restando sul posto di lavoro: è successo nelle redazioni dei giornali, nei musei, nei negozi, nelle università. In segno di solidarietà Anne Hidalgo, la sindaca di Parigi, ha sospeso il Consiglio comunale alle 16.34.
Oltre che peggio pagate, le donne fanno anche molta più fatica a raggiungere incarichi di responsabilità. Stando a uno studio dell’Osservatorio della presenza femminile nelle aziende, ad esempio, nei grandi gruppi sono il 36% del totale dei dipendenti ma solo l’11,2% è nella dirigenza.

La speranza delle organizzatrici è che il segnale lanciato oggi serva ad accorciare i tempi per annullare il divario coi colleghi maschi. Secondo un rapporto del Forum economico mondiale, bisognerà aspettare 170 anni, il 2.186, affinché l’uguaglianza sia pienamente rispettata in Francia.
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Migranti, Viktor Orban contro Matteo Renzi: “È nervoso perché l’Italia è in difficoltà”. Ancora scontro tra Roma e Budapest

“La politica interna italiana è un terreno difficile. L’Italia ha difficoltà di bilancio con un deficit che aumenta, mentre stanno arrivando in massa i migranti, con spese ingenti. Renzi ha tutte le ragioni di essere nervoso”. Così il premier ungherese Viktor Orban, secondo quanto riporta Mti, dopo lo scontro di ieri sui migranti.

“La compassione – ha aggiunto – non cambia il fatto che l’Italia ha il dovere di adempire agli obblighi” di Schengen, “ma non lo fa”, “è anche vero che l’Ue non dà una mano in modo sufficiente all’Italia”.

La stoccata di Orban a Renzi arriva dopo due giorni di polemiche tra Roma e Budapest. L’altro ieri il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto aveva criticato il premier italiano perché “fraintende completamente la situazione: sta attaccando i paesi dell’Europa centrale i quali rispettano le regole comuni mentre l’Italia non adempie i propri obblighi derivanti dall’appartenenza alla zona Schengen”. Un’uscita alla quale aveva replicato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni con un tweet: “Con muri e referendum l’Ungheria ha sempre rivendicato di violare le regole europee sulle migrazioni. Ora almeno eviti di dare lezioni all’Italia”.

L’attacco di Budapest è arrivato dopo che Renzi aveva annunciato che l’Italia è pronta a mettere il veto sul bilancio europeo se paesi come l’Ungheria e la Slovacchia non accoglieranno i migranti come previsto dagli accordi Ue.


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Il nuovo terremoto rafforza le ragioni di Roma contro Bruxelles: ecco la risposta di Padoan alla Commissione Ue

Il sisma della notte scorsa non cambia la sostanza della risposta italiana alla Commissione Europea sulla manovra economica ma certo rafforza la posizione del governo Renzi. Il caso insomma fa la sua parte, pur catastrofica per le popolazioni colpite. E’ un fatto se stamane, dopo una notte di scosse e paura nel centro Italia, a Bruxelles la portavoce del Commissario Pierre Moscovici, Annika Breidthardt, sia stata costretta dagli eventi a tornare su quei “costi per l’emergenza in risposta a catastrofi naturali” che “secondo le regole Ue” sono “esclusi dal calcolo degli sforzi strutturali di uno Stato durante la valutazione del rispetto delle regole del Patto di stabilità e crescita”. A Roma si diffonde lo stesso ottimismo che ha colto il premier Matteo Renzi venerdì scorso a Bruxelles quando il Consiglio europeo ha riconosciuto “gli sforzi italiani, anche quelli economici” per accogliere i migranti. Terremoto e profughi sono infatti i due capisaldi di spesa sui quali non a caso fa leva l’attesa risposta del ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan alla lettera della Commissione Europea.

Si tratta di una semplice email, indirizzata al Vice Presidente Dombrovskis e al Commissario Moscovici. “Dear Valdis, dear Pierre”, scrive con fare informale Padoan. La missiva viene pubblicata sul sito del ministero di via XX Settembre e su quello della Commissione Europea, quello dove ci sono tutte le leggi di bilancio presentate dagli Stati membri con le relative lettere della squadra Juncker per l’Italia e altri sei paesi (Lituania, Finlandia, Belgio, Spagna, Portogallo, Cipro). Un testo di sei pagine (incluse le tabelle) in cui il Tesoro fornisce nuovi argomentazioni per cui le spese per la ricostruzione post-sisma e messa in sicurezza del territorio e quelle per l’accoglienza dei profughi devono essere scorporate dal patto di Stabilità e crescita.

La missiva parte dal peggioramento delle condizioni economiche globali. “Questo significa che l’economia italiana sta ancora soffrendo condizioni cicliche difficili – si legge – e si appresta ad un più graduale aggiustamento verso gli obiettivi di medio termine, che resta il pareggio di bilancio nel 2019”. E’ per questo che il deficit strutturale non scende, spiega il Tesoro nella risposta a Bruxelles. Ma anche per via delle “spese straordinarie su migranti e rischio sismico”.

I costi straordinari dell’accoglienza saranno lo “0,2 per cento del pil per il 2017”. “Il numero di migranti e rifugiati arrivati sulle nostre coste o salvati dalla nostra marina e guardia costiera è aumentato quest’anno – continua la lettera per l’Ue – e c’è il rischio concreto che questo trend persista nel 2017. Fino al 26 ottobre 156.705 migranti sono stati salvati nel 2016, più dell’intero 2015”. E’ la prima volta che il governo mette nero su bianco l’aumento degli arrivi: prima dell’estate insisteva nel dire che i profughi sbarcati non erano aumentati rispetto all’anno scorso. Invece la lettera per l’Ue diventa l’occasione per l’ennesima invettiva italiana sull’immigrazione.

“Il numero degli immigrati arrivati in Italia nel 2016 è di tre volte superiore a quello del 2013 e ancor più rispetto al 2011-2012”. E ancora: “I confini esterni dovrebbero essere responsabilità comune. L’Italia sta giocando un ruolo critico nella difesa dei confini esterni dell’Ue e ha fatto sforzi finanziari eccezionali per l’Unione Europea per assolvere i suoi compiti umanitari”. Perciò “le spese per le operazioni di soccorso, prima assistenza sanitaria, accoglienza ed educazione per più di 20mila minori non accompagnati sono stimate in 3,3 miliardi di euro nel 2016 e 3,8 mld nel 2017 in uno scenario stabile. Ma se il flusso dovesse continuare a crescere con il ritmo che ha avuto di recente, la spesa salirebbe a 4,2 miliardi di euro”. E inoltre “va sottolineato che diversamente da altri Stati europei l’Italia non include i costi aggiuntivi per l’integrazione sociale dei migranti, perchè non sono direttamente correlate alla gestione dei confini esterni”.

Per quanto riguarda invece i costi del rischio sismico, “il governo nel 2017 avrà spese considerevoli per l’assistenza post-terremoto e la ricostruzione, per un totale di 2,8 miliardi di euro. Inoltre, data la frequenza di terremoti distruttivi e la sofferenza che hanno causato alle popolazioni italiane, il governo intende portare avanti un programma aggiuntivo per affrontare il rischio sismico con più forza che in passato. Questa azione è necessaria per assicurare per esempio i nostri 42mila edifici scolastici, il 30 per cento dei quali richiedono manutenzione strutturale o devono essere completamente ricostruiti”. Oltre agli “investimenti pubblici” destinati a questo obiettivo, nella legge di bilancio “aumentano” anche “gli incentivi fiscali per gli interventi anti-sismici per le abitazioni private” per un costo di “2 miliardi di euro” sul budget del 2016. La somma degli investimenti pubblici e degli incentivi fiscali per gli interventi anti-sismici fa lo “0,2 per cento del pil”.

Ora la Commissione Europea ha tempo fino alla fine di novembre per esprimere un nuovo parere. Mentre il 9 novembre, diffonderà le previsioni economiche d’autunno per tutta l’Ue. A Roma non si aspettano altri bracci di ferro. Non prima del referendum costituzionale del 4 dicembre. La risposta della Commissione Juncker dovrebbe essere ‘provvisoria’, un parere teso a prendere tempo fino al 5 dicembre, quando si riunirà l’Eurogruppo. Il braccio di ferro contro il governo di Roma potrebbe iniziare solo allora. Domani intanto a Bratislava il ministro Pier Carlo Padoan avrà modo di toccare con mano la reazione di Moscovici in un bilaterale ad hoc a margine di una conferenza sull’Unione monetaria.

Se Renzi vince il referendum è sua intenzione cominciare da subito la battaglia per cambiare il Patto di stabilità e crescita e il Fiscal Compact, battaglia che gli assorbirà tutto il 2017, peraltro anno di campagna elettorale verso le politiche del 2018 (se non prima, secondo alcune voci di Palazzo). E come per la campagna referendaria la critica all’Europa sarà il cavallo di battaglia del premier anche in vista delle elezioni per il rinnovo della legislatura di governo. Già da ora Renzi ha lanciato il suo sasso nel pozzo delle tensioni europee, minacciando il veto italiano sui fondi ai paesi che non accolgono i migranti nella discussione sul prossimo bilancio europeo 2020-2026 che inizierà l’anno prossimo. Roba che ha già scatenato reazioni in Ungheria. “Se l’Italia rispettasse le regole, allora ci sarebbe minore pressione migratoria nell’Unione europea”, attacca il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto. Gli risponde a tono il titolare della Farnesina Paolo Gentiloni: “Con muri e referendum l’Ungheria ha sempre rivendicato di violare le regole europee sulle migrazioni. Ora almeno eviti di dare lezioni all’Italia”.

Scintille destinate a intensificarsi, se Renzi resta in sella vincendo il referendum. Se invece lo perde, lo scenario è tutto da disegnare anche a Bruxelles, dove sperano comunque che il premier italiano non faccia la fine di David Cameron messo ko dalla Brexit.
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