Union Bio® EquiNOFLY Soft 500 ML – Gel Naturale Protezione Cavallo, Repellente Contro Gli Insetti

Union Bio® EquiNOFLY Soft 500 ML – Gel Naturale Protezione Cavallo, Repellente Contro Gli Insetti, Indicato Per Le Parti Delicate Come Contorno Occhi, Orecchie e Perineo, Nutre e Protegge La Cute

Marca: Union Bio

Caratteristiche:

  • 🐴 Gel protezione naturale ricco di estratti vegetali sinergici potenziati dalla MATRICE U.B.
  • 🐴 Protegge l’animale dai fastidi durante le passeggiate e la vita all’aria aperta, in particolare nella stagione estiva
  • 🐴 Indicato per le parti delicate come contorno occhi, orecchie e perineo
  • 🐴 Nutre e protegge la cute, Formulazione delicata
  • 🐴 Lento e prolungato rilascio, gradevolmente profumato alla citronella

EAN: 8032958820135

Union Bio® EquiNOFLY Soft 500 ML – Gel Naturale Protezione Cavallo, Repellente Contro Gli Insetti

Union Bio Repellente Contro Pappataci, Flebotomi, Zanzare, Mosche – Spray Con Olio Di Neem Per Cani, Vegetale Naturale Leishmaniosi e Filariosi 125 Ml

Caratteristiche:

  • 🌱 Prodotto a base di oli essenziali e di sostanze naturali
  • 🦟 Allontana gli insetti. Efficace nella prevenzione di leishmaniosi e filariosi
  • 🛡️ Protegge da flebotomi (pappataci), mosche e zanzare senza danneggiare la cute
  • 🚫 Non ha controindicazioni neanche se il cane si lecca
  • 🐶 Non dà reazioni cutanee nè all’animale nè alle persone che dovessero venire a contatto con l’animale trattato

EAN: 8032958821125

Union Bio Repellente Contro Pappataci, Flebotomi, Zanzare, Mosche – Spray Con Olio Di Neem Per Cani, Vegetale Naturale Leishmaniosi e Filariosi 125 Ml

Renzi reloaded: al Lingotto i vecchi cavalli di battaglia contro l’austerity e l’euroburocrazia

“Per anni una parte delle elite dell’Italia ha usato l’Europa per convincere gli italiani a fare riforme che altrimenti non avrebbero voluto fare. Ci sono stati premier che andavano in Europa con la giustificazione, come a scuola, premier tecnici animati da sentimento antipatriottico e antitaliano. Dicevano: ‘Ce lo chiede l’Europa’. Quella stagione ha migliorato forse i conti pubblici, forse. Ma ha disintegrato l’idea di Europa dei padri fondatori. Alla celebrazione del Trattato di Roma il 25 marzo dobbiamo mettere da parte quella stagione!”. Matteo Renzi è tornato. Ritrova i vecchi cavalli di battaglia contro l’austerity, contro i tecnici italiani (alla Mario Monti, per dire) e i burocrati europei. Ritrova ritmo e verve. La platea del Lingotto si scatena, ritrova il suo Renzi: senza grandi novità, non più il leader nuovo del 2013 ma con un inedito effetto rassicurante. “Io ci sono”. “Anche noi”, gli urlano dalla platea.

L’abito istituzionale di quando era premier e cravatta scura. Quando arriva con il ‘promesso’ vice-segretario Maurizio Martina sotto il palco del Padiglione 1 si scatena il delirio. “Voglio solo guardarlo!”, una signora sgomita nella folla. Lui raggiunge una postazione laterale e in mezzo al capannello di stampa e fans si mette serio a cantare l’inno nazionale. La tre-giorni di presentazione della candidatura alle primarie Dem del 30 aprile ha ufficialmente inizio.

Circa duemila persone presenti, “non ce ne aspettavamo così tante al primo giorno”, si sbalordisce il senatore renziano Andrea Marcucci. “Lingotto 2017”, recitano i maxi-schermi allestiti dai creativi pugliesi di Proforma, in rigoroso verde speranza: ne serve tanta, dopo la sconfitta al referendum, il calo, l’inchiesta Consip, gli attacchi, i veleni. “Tornare a casa per ripartire”, lo slogan: perché qui dieci anni fa è partito Walter Veltroni e il suo Pd. Veltroni oggi non c’è, ma questa platea ha delle similitudini con la sua. Anche se, come dice Renzi, “da allora i tempi sono cambiati: allora con il telefonino si telefonava, adesso è la decima cosa che si fa con quell’aggeggio…”. Ecco, ma senza andare per il sottile tra le sedie sistemate in mezzo alle piccole aule dei gruppi di lavoro, si notano le similitudini con il 2007: c’erano le suore allora per Walter, ce n’è una anche ora per Matteo. “Le porta Stefano Lepri, senatore cattolico torinese del Pd famoso per ‘il voto delle suore’”, ti dicono dal Pd. Curiosità.

C’è Sergio Chiamparino: “Il mio è un sostegno non acritico”, ci tiene a specificare mentre cerca di capire dove sedersi: non ci sono prime file riservate, sedia libera. C’è Piero Fassino, ci sono i parlamentari renzianissimi, come Francesco Bonifazi che sta un po’ nel backstage con Renzi, un po’ fuori. Ci sono i franceschiniani Francesco Garofani ed Emanuele Fiano, in prima fila anche l’ex lettiano Francesco Sanna. C’è Vincenzo De Luca: unico governatore del sud presente. Niente governo: non ancora, oggi c’è consiglio dei ministri a Roma. Gentiloni e i ministri del Pd, compreso Padoan, arriveranno tra domani e domenica.

“Io ci sono!”, urla ancora Renzi mentre chiude un intervento di apertura che non doveva esserci, almeno fino a ieri, ma che poi dura un’ora buona. Sembra abbia qualche kilo in meno. I sondaggi che lo danno al 63 per cento alle primarie lo hanno rinvigorito: “Un uomo si vede da come indossa le cicatrici”. Niente a che fare col tono opaco della kermesse con gli amministratori locali del Pd a Rimini a fine gennaio: era ancora pieno inverno, qui a Torino oggi la massima è 20 gradi.

“Dobbiamo togliere alla burocrazia la gestione dell’Ue, dobbiamo rimettere al centro la democrazia. L’Italia dovrà impegnarsi per l’elezione diretta del presidente della Commissione Ue. E’ un obiettivo di medio periodo, non sarà per le prossime elezioni ma dobbiamo chiedere primarie transnazionali!”. Non è un’idea nuova, Renzi l’ha accarezzata già alle europee del 2014, ma oggi al Lingotto suona bene: la vecchia e cara Europa, utile in tante battaglie.

Europa e M5s. “Sono passati dall’alleanza con l’anti-Ue Farage a quella con l’ultra-europeista Verhofstadt solo per piazzarsi!”. Qui la platea va in visibilio più che sulle primarie europee. Europa e Pd. “Il doppio ruolo di segretario e premier non è solo una norma dello statuto del Pd, non è solo un’ambizione ma è così in tutt’Europa: Merkel, Schroeder, Blair, Zapatero… Se non fossi stato anche segretario del Pd, non avrei vinto sulla flessibilità: è successo perché dietro avevo il consenso al 41 per cento!”.

Nessuna polemica diretta con gli avversari Pd. Anzi: “in bocca al lupo a Orlando ed Emiliano”. Nessun attacco diretto nemmeno agli scissionisti. “Non siamo contro qualcuno, ma per qualcosa”. Renzi fa l’inclusivo: “Dobbiamo restistuire senso alla parola ‘compagno’”. Annuncia la nuova scuola di formazione politica diretta dallo psicanalista Massimo Recalcati, porge un “saluto” cortese alla sindaca di Torino Chiara Appendino. Il resto è contro “l’antipolitica” tutta.

Quella del “populista che va nei talk show”, ma anche “del tecnocrate che fa tutto al chiuso dei Palazzi” e “del burocrate del ministero che fa a meno del ministro perché il governo passa e lui resta”. Applausi: la vecchia bestia della burocrazia da abbattere, che tre anni di governo non sono bastati, miete ancora successo. Almeno qui al Lingotto.

Qui c’è il Pd che forse non comprende fino in fondo cos’è questa “piattaforma Bob” che il leader lancia in onore di Kennedy e in risposta alla Rousseau del M5s. Ma è un pubblico che si scalda quando lo sente attaccare il reddito di cittadinanza: “Noi vogliamo una repubblica fondata sul lavoro non sull’assistenzialismo!”. Il leader evita la formula confusa del ‘lavoro di cittadinanza’, usata in diverse interviste, mai meglio specificata, a rischio trappola insomma. Cita Veltroni che a sua volta citò lo svedese Olof Palme: “Bisogna combattere la povertà non la ricchezza”.

Colonna sonora che parte dall’elettronica di Kruder & Dorfmeister, ma poi si arrende a Claudio Baglioni. L’età media è alta al Lingotto. “Sono i problemi della sinistra…”, allarga le braccia Marcucci. “Vogliamo essere eredi e non reduci”, insiste Renzi. “L’Italia dei prossimi dieci anni riparte da Bruxelles”. Sul palco sale l’alleato Joseph Muscat, il premier maltese che parla italiano: “Vi auguro tanta sete di governo…”. Ma la folla è ancora lì impegnata a commentare il suo Renzi: che non regala più il brivido dell’imprevisto come il rottamatore del 2013, ma dà sollievo ad una platea spossata dal 4 dicembre.
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Scott Pruitt “negazionista” del cambiamento climatico. Il capo dell’Ambiente dell’amministrazione Trump contro la scienza

Non c’è un ambientalista all’Ambiente. Scott Pruitt, responsabile dell’Agenzia per la protezione dell’Ambiente (Epa) a Washington, non cambia le sue convinzioni, già più volte espresse in passato: l’attività umana non c’entra nulla con il riscaldamento globale. Donald Trump lo ha scelto anche per questo, ha già più volte espresso la sua contrarietà alle limitazioni “green” alle attività industriali e si rafforza la teoria per cui verrà spazzato via il Clean Power Plan di Barack Obama, che pone un limite alle emissioni degli impianti per la generazione di energia elettrica.

Pruitt non crede che l’inquinamento e l’attività umana siano una causa dei cambiamenti climatici. “Penso sia molto difficile misurare l’impatto dell’attività umana sul clima e che vi sia enorme disaccordo sul grado di questo impatto. Non sono d’accordo che sia una causa primaria del riscaldamento del clima a cui stiamo assistendo”, ha detto intervenendo in un talk show dell’emittente Cnbc. “Quindi no, non sono d’accordo nel dire che l’anidride carbonica sia un’importante causa del riscaldamento climatico”.

Le convinzioni del nuovo capo dell’Agenzia per la protezione dell’Ambiente sono per altro in netto contrasto con quanto afferma il sito della stessa agenzia, secondo il quale “è estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante” dei riscaldamento climatico. Concetto che è riconosciuto dall’insieme della comunità scientifica internazionale ed è alla base degli accordi di Parigi sul clima. La sua posizione cozza contro quella della Nasa e della Noaa, l’agenzia americana oceanica e atmosferica, che hanno entrambe affermato a gennaio che il cambiamento climatico era “ampiamente determinato dall’aumento di anidride carbonica e da altre emissioni di origine antropica”.

Scott Pruitt ha anche denunciato l’accordo di Parigi, definendolo un “cattivo accordo”. Secondo cui “avrebbe dovuto essere gestito come un trattato e quindi passare per l’approvazione del Senato. È inquietante”. In passato Pruitt ha mosso oltre una decina di processi contro l’agenzia dell’ambiente al fianco di industriali e lobbisti per bloccare diverse normative sull’inquinamento dell’aria o delle acque.

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Potere contro potere. Trump sfida di nuovo i giudici con il Travel ban e dà un altro schiaffo all’intelligence

Non si placa la tempesta istituzionale innescata dalle ultime mosse del presidente Trump. Lo scontro tra poteri è ormai all’ordine del giorno, con la Casa Bianca che continua a sfidare sia la magistratura che le agenzie d’intelligence. Il nuovo bando sull’immigrazione – subito definito “legale” dal segretario alla Giustizia Jeff Sessions – rappresenta una nuova sfida al potere giudiziario. Malgrado le differenze rispetto alla prima versione, infatti, il nuovo ordine esecutivo non solo non stravolge, ma conferma l’impianto del precedente. A differenza del primo decreto, questa seconda versione esclude dalla “lista nera” l’Iraq ed esplicita che il bando non vale per i detentori di green card e per chi è già in possesso di un visto. Il testo, più dettagliato rispetto al primo, insiste sulla funzione del bando: garantire la sicurezza nazionale. Ma ha comunque incontrato le critiche dei democratici e degli attivisti per i diritti umani, secondo cui si tratta di un altro Muslim ban, sebbene più sfumato.

Sul fronte dell’intelligence, l’attacco a Obama – accusato di aver ordinato intercettazioni illegali alla Trump Tower durante la campagna elettorale – ha alzato il livello dello scontro, spingendo a intervenire anche il direttore dell’Fbi, James Comey. Il quale ha esortato il Dipartimento di Giustizia a respingere pubblicamente le accuse di Trump al suo predecessore, prendendosi un altro schiaffo in faccia – l’ennesimo – dalla squadra di The Donald.

Trump non accetta le dichiarazioni di Comey sulla falsità delle accuse al suo predecessore, ha dichiarato la portavoce della Casa Bianca Sarah Huckabee Sanders in un’intervista all’emittente Abc. “Chiediamo solo che il Congresso faccia il proprio lavoro, che la Commissione Intelligence della Camera indaghi”, ha aggiunto la Sanders.

Da difficili che erano, i rapporti tra la Casa Bianca e le agenzie d’intelligence – Fbi e Nsa – sono diventati impossibili, dopo la raffica di tweet con cui Trump ha accusato Obama di aver fatto intercettare i suoi telefoni durante la campagna elettorale, agitando lo spettro del Nixon/Watergate. Accuse talmente gravi da spingere il numero uno dell’Fbi a chiedere al ministero della Giustizia di smentire pubblicamente le asserzioni del presidente. Ma la Casa Bianca non sembra disposta ad alcuna marcia indietro, anzi: tramite una sua portavoce, Trump ha fatto sapere di non credere alle dichiarazioni di Comey (secondo cui lo spionaggio non si è mai verificato) e ribadito la richiesta di un’indagine da parte della Commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti.

Dopo la smentita di Obama, che ha bollato le accuse come falsità assolute, l’intervento di Comey ha riacceso la lotta tra la nuova amministrazione e le agenzie d’intelligence, già accusate da Trump di essere dietro alle molte fughe di notizie che hanno caratterizzato l’avvio della sua presidenza. Questa volta, però, per i big dell’intelligence Trump l’ha sparata troppo grossa: intercettazioni di quel genere, infatti, sarebbero illegali, dato che il presidente statunitense non ha il potere di ordinare l’ascolto delle conversazioni telefoniche di qualsiasi cittadino. A dirimere la questione dovrebbe essere il Congresso, con un’indagine affidata appunto alla Commissione sui servizi della Camera.

Lo staff presidenziale ha detto che non ci saranno più commenti fino a nuovi sviluppi e, tornato a Washington dalla sua residenza in Florida, Trump non ha effettivamente rilanciato in alcun modo. Ma i media – in particolare il Washington Post, in un lungo articolo oggi in apertura del sito – lo descrivono un presidente “infuriato” per le fughe di notizie, in particolare, sui contatti tra i suoi collaboratori e la Russia.

Nell’epoca delle fake news, persino i collaboratori di The Donald faticano a trovare una linea comune sulla genesi dell’attacco a Obama. Secondo il New York Times, le “prove” da cui nascono le accuse di Trump si riducono alle dichiarazioni di un conduttore radiofonico conservatore, Mark Levine, e a un articolo apparso su Breitbart, il sito “trumpista” guidato fino a qualche tempo fa da Steve Bannon, attuale capo della strategia della Casa Bianca.

Questa la ricostruzione del NyTimes:

Giovedì, nella sua trasmissione radiofonica serale, il conduttore Mark Levine ha parlato di come l’amministrazione Obama, nei suoi ultimi mesi, abbia cercato di fermare l’avanzata di Trump alla presidenza. Parlando di tattiche da “Stato di polizia”, ha suggerito che proprio le azioni di Obama dovessero essere oggetto di un’inchiesta congressuale. Poche ore dopo un articolo su Breitbart rilanciava le accuse. Non è chiaro se qualcuno abbia messo sul tavolo di Trump l’articolo o se il presidente lo sia andato a cercare da sé. Fatto sta che venerdì mattina, alla Casa Bianca – rivela ancora il New York Times – Trump era di pessimo umore. E, nel corso di una tempestosa riunione, ha accusato lo staff della comunicazione di aver mal gestito la vicenda Sessions. Ancora furioso, quando sabato si è svegliato a Mar-a-Lago, la sua residenza a Palm Beach, in Florida, ha cominciato a twittare facendo notare, tra l’altro, che anche la stessa Nancy Pelosi, e quindi membri dell’amministrazione Obama, avevano incontrato l’ambasciatore russo.

Il paradigma dello scontro va in scena anche all’interno della Casa Bianca, dove crescono le difficoltà per il capo dello staff Reince Priebus, fin dall’inizio in competizione con lo stratega Bannon. Secondo quanto scrive Politico, Priebus viene accusato di non delegare nulla, forse per bloccare l’accesso diretto al presidente a suoi sottoposti, e quindi di passare al volo da una riunione all’altra, con risultati inconcludenti. “La sua è pura incompetenza, manca di strategia, di capacità organizzativa”, afferma una delle fonti citate da Politico, mentre un’altra sentenzia: “C’è insofferenza da parte di molti, compreso il presidente, per il fatto che le cose non stanno andando nel verso desiderato. Reince, che sia giusto o no, è quello che finirà per prendersi la colpa”.


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“Our War”, il documentario che racconta chi sono i giovani occidentali in guerra contro l’Isis

L’ultimo ‘martire’ occidentale delle Ypg, le brigate di liberazione del popolo curdo, è stato Paolo Todd, nome in codice Kawa Amed, morto il 15 gennaio scorso a Small Siweida, villaggio nei pressi di Raqqa. Veniva da Los Angeles e chissà cosa lo ha spinto ad andare in Siria e unirsi all’avanzata delle Sdf (Syrian Democratic Forces, l’esercito a guida curda, con arabi, siriaci e turkmeni creato dagli Stati Uniti) per liberare la capitale del cosiddetto Stato Islamico.

Todd era uno dei centinaia di volontari stranieri che hanno percorso lo stesso tragitto dei giovani accorsi in Siria da tutto il mondo per onorare il jihad lanciato dal ‘Califfo’ Abu Bakr al-Baghdadi. Stesso percorso, ma motivazioni opposte: “C’è chi parte perché è un ex militare e si sente realizzato nel combattere contro l’Isis, chi lo fa per supportare politicamente la rivoluzione curda del Rojava (il Nord-est della Siria di cui i curdi hanno reclamato l’autonomia, Ndr) e chi perché è originario di quei luoghi e di quelle comunità. Sono i motivi principali, ma è difficile rinchiudere questi ‘foreign fighters’ in categorie rigide” spiega Benedetta Argentieri, giornalista e documentarista free lance che insieme ai colleghi Claudio Jampaglia e Bruno Chiaravalloti hanno realizzato il film documentario Our War, presentato fuori concorso a Venezia e attualmente in programmazione nelle sale italiane.

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Our War racconta l’esperienza di un italiano di Senigallia con origini marocchine, Karim Franceschi, di un ex marine che ha combattuto in Iraq e Afghanistan, Joshua Bell, e di una guardia del corpo mezzo svedese e mezzo curdo, Rafael Kardari, che per vie diverse hanno combattuto in Siria con le Ypg curde. “Ho conosciuto Bell in uno dei miei viaggi nel Rojava, era il novembre 2014” racconta Argentieri . “Era insieme ai primissimi stranieri arrivati, che stavano ancora cercando di capire come relazionarsi con i curdi e con una situazione che non si aspettavano. Joshua non capiva perché i capi delle Ypg non gli facessero fare nulla o lo tenessero in magazzino a pulire le armi. Non capiva come funzionava quell’esercito. Poi piano piano se ne è innamorato e ha imparato anche a parlare curdo”.

Non ci sono stime ufficiali su quanti siano i volontari stranieri, ma si parla di alcune centinaia. Vengono dagli Stati Uniti, dall’Argentina, dall’Europa e ci sono anche molti australiani e qualcuno dalla Cina. La pagina Facebook The Lions of Rojava era lo strumento per contattare chi già era là e arruolarsi. Il flusso è cominciato nell’autunno 2014 e all’inizio i curdi non sapevano bene come comportarsi con questi occidentali che arrivavano dal nulla, a volte solo per farsi un selfie davanti a un carro armato e andarsene, a volte millantando esperienze militari mai avute: “Le Ypg provvedevano ad addestrarli, ma spesso li tenevano lontani dal fronte perché avevano timore che non fossero capaci di combattere in quello scenario.

La guerra contro l’Isis è fatta di avanzate e attese, di movimenti studiati in gruppo. Anche di rispetto del nemico ucciso. E a volte questo non veniva ben compreso” spiega Argentieri. Con il passare dei mesi i media occidentali iniziano a occuparsi delle storie dei loro connazionali in Siria, che diventano così una buona arma di propaganda per la causa curda. Il problema è che spesso il tempo e il denaro spesi per addestrarli non viene ripagato dall’impegno sul campo. Quindi le Ypg si organizzano e fanno firmare ai volontari un vero e proprio contratto: in cambio di armi e addestramento, loro si impegnano a restare in Rojava per almeno sei mesi.

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In Europa sono arrivate le storie dei bikers olandesi e tedeschi, fotografati a Kobane fucile in spalla e giubbotto di pelle con i teschi, o quella della ventisettenne Kimberley Taylor, la prima donna inglese a essersi unita alle Ypj, le brigate curde femminili. Meno frequentemente si è parlato di coloro che sono morti a migliaia di chilometri da casa. Adesso c’è un sito, ypg-international.org, che ne raccoglie le storie. Se ne contano 18, ma non è aggiornato all’ultimo mese: “Ne sono morti dodici solo negli ultimi sei mesi, anche perché l’esercito turco è entrato in Siria e spesso attacca i curdi” spiega Argentieri. Diciotto giovani soldati volontari che hanno deciso di rischiare la vita per un ideale o per un senso di appartenenza. Come era successo nella guerra di Spagna degli anni ’30, come succede sempre quando c’è una causa per cui combattere.



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Notte degli Oscar, le star del cinema protestano contro Trump. Bufera sulla Casa Bianca per bando media

Mancano poco più di ventiquattr’ore alla notte degli Oscar, che si prevede, come spiega l’agenzia LaPresse, sarà altamente politicizzata dopo che anche le star solitamente più schive hanno scelto di esporsi contro il presidente Donald Trump unendosi alle proteste che ormai ogni giorno si tengono nel Paese. Trump, in risposta, ha provocatoriamente twittato: “Forse i milioni di persone che hanno votato per ‘Rendere l’America grande di nuovo’ dovrebbero organizzare la propria manifestazione. Sarebbe la più grande di tutte!”. Ciò mentre la Casa Bianca è in una nuova bufera dopo che diversi giornalisti di grandi media statunitensi ieri non sono stati ammessi al briefing giornaliero del portavoce, Sean Spicer. E intanto emerge che il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, il generale H.R. McMaster, ha preso le distanze dalla rigida posizione dell’amministrazione sul mondo islamico, contestando la definizione di “terrorismo islamico radicale”. A questo poi si aggiunge lo scoop del Washington Post secondo cui la Casa Bianca avrebbe ingaggiato alti dirigenti dell’intelligence e del Congresso nel tentativo di confutare le notizie di stampa sui presunti contatti tra l’entourage di Donald Trump e l’intelligence russa, oggetto di inchiesta da parte dell’Fbi nonchè del Congresso.

JODIE FOSTER CONTRO TRUMP. La United Talent Agency di Beverly Hills quest’anno ha cancellato la festa in vista della notte degli Oscar, trasformandola in una manifestazione contro Trump. Vi hanno partecipato star e personaggi del cinema, e tra loro è spiccata Jodie Foster, solitamente restia a mostrarsi sotto i riflettori per prendere posizioni politiche. L’attrice, vincitrice dell’Oscar per ‘Il silenzio degli innocenti’ e ‘Sotto accusa’, ha dichiarato: “Non sono una persona che ama usare il suo volto pubblico per l’attivismo”, “ma quest’anno è diverso, è tempo di impegnarsi. È una periodo insolito nella storia”.

Sul palco è salita anche la star di ‘Ritorno al futuro’, Michael J. Fox, che ha parlato di sé e delle star del cinema come di “quelli fortunati”, affermando di voler condividere un po’ di quella fortuna con i profughi che vogliono entrare negli Usa. Le proteste dei divi, così come quelle ormai quotidiane in tutto il Paese, contestano infatti le politiche migratorie di Trump, dopo il suo ordine esecutivo per bloccare l’ingresso negli Usa ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana. In video conferenza da Teheran è anche intervenuto il regista iraniano Asghar Farhadi, nominato agli Oscar come miglior film straniero ‘Il cliente’ ma che boicotterà la cerimonia. Con altri cinque candidati al miglior film straniero, ha inoltre firmato un comunicato in cui viene criticato il clima “di fanatismo e nazionalismo” degli Usa e di altre parti del mondo.

IL DIVIETO AI GIORNALISTI ALLA CASA BIANCA. I reporter di Cnn, New York Times, Politico, Los Angeles Times e BuzzFeed non sono stati ammessi al briefing ‘a telecamere spente’ di Spicer, senza una motivazione sulla scelta delle testate bandite. Trump si è più volte scagliato contro i media, che accusa di fornire “notizie false” e ha definito “nemici” degli americani. La decisione ha scatenato una dura risposta. “Nulla del genere è mai accaduto alla Casa Bianca nella nostra lunga storia in cui abbiamo seguito molte amministrazioni di diversi partiti”, ha scritto Dean Baquet, il direttore del New York Times, sottolineando che “il libero accesso dei media a un governo trasparente è ovviamente di cruciale interesse nazionale”.

Cnn ha twittato: “Questo è uno sviluppo inaccettabile”, “apparentemente legato al riportare fatti che a loro non piacciono, cosa che continueremo a fare”. Proteste sono arrivate anche dalla White House Correspondents Association, l’associazione dei corrispondenti dalla Casa Bianca. Proprio ieri, Spicer aveva ribadito: “Non lasceremo che racconti falsi, storie false e fatti inaccurati escano da qui”.

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Direzione Pd, la minoranza non ci sta: “Se è così si avvicina la scissione”. Pressing su Orlando per candidarsi contro Renzi

Alle 19,30, si materializza lo spettro della scissione. Roberto Speranza, seduto vicino a Davide Zoggia, sussurra: “Vedi, il re è nudo. Non hanno fatto votare il sostegno al governo fino al 2018, perché il congresso in tempi brevi gli serve per poi tirare giù il governo e andare al voto”. Il che, negli effetti, porta a una linea riassunta in una parola, che fa tremare le vene ai polsi, per chi è cresciuto col mito della disciplina di partito: scissione: “Se l’obiettivo – dichiara Speranza – è un congresso- lampo per poi andare a un voto-lampo, non c’è più il Pd, diventa il partito dell’avventura. Questo per noi crea un problema enorme. Non si capisce come si può andare al voto senza una legge elettorale che può garantire un minimo di governabilità”.

Il riferimento è all’ordine del giorno presentato dalla minoranza, non messo ai voti. E a quello su congresso subito, stravotato. Pare una questione procedurale, ma è sostanza politica. La proposta era: una conferenza programmatica, come aveva chiesto il ministro Orlando, poi un congresso a ottobre, dunque voto. Uno degli estensori del documento dice: “Si era aperta una trattativa e alcuni renziani erano anche d’accordo, ma Renzi e soprattutto Orfini l’hanno chiusa, e hanno optato sulla forzatura votando solo il loro ordine del giorno, così Renzi si tiene le mani libere sul governo”.

È il momento più teso del pomeriggio. Dalla sala qualcuno urla: “Votiamo per parti separate”. La forzatura suona anche come uno schiaffo al protagonista dell’unica, vera, mediazione alla luce del sole, come si sarebbe detto una volta. Appunto Andrea Orlando. Il quale, non a caso, alla fine non ha partecipato al voto. Nel suo intervento il guardasigilli aveva suggerito un percorso diverso, bacchettando al tempo stesso la minoranza per la “campagna di delegittimazione” quotidiana del segretario e Renzi perché “i caminetti sono iniziati perché manca una proposta politica forte”. E fare le primarie per legittimare il leader senza discutere in una conferenza programmatica di una piattaforma politica è come “fare le tagliatelle con una macchina da scrivere”.

“Andrea candidati”, “a questo punto è una via obbligata”. Il pressing sul guardasigilli parte dai suoi, che anche sul territorio danno segnali di insofferenza, come in Veneto dove i “turchi” e “sinistra” si sono riuniti. Per ora, Orlando ha declinato l’offerta, anche perché non è chiaro il dove candidarsi. Perché la scissione è un’ipotesi molto concreta. Anzi cresce. Perché dietro il dibattito, criptico, sul congresso c’è tutto il tema del voto, in tutte le sue sfumature. Che vanno dalla “responsabilità verso il paese” alla formazione delle liste. Detto in termini prosaici, la sinistra non condivide l’accelerazione sul governo, che in altri tempi si sarebbe chiamata la linea della “crisi e dell’avventura” e al tempo stesso non si fida di Renzi: “Lui – dicono – vuole una rilegittimazione, per avere le mani libere sul voto e farsi le liste come vuole lui e nelle liste fare l’epurazione”. In questo quadro, se di qui a domenica non ci saranno novità, meglio non partecipare al congresso. Michele Emiliano, e non solo lui, sabato aveva già avuto l’idea di non partecipare alla direzione, prevedendo come sarebbe andata. “Non diamogli alibi” gli hanno detto gli altri.

Con l’ordine del giorno si ripresenta il convitato di pietra, il governo e il voto anticipato. Argomento sul quale provano a “stanare” Renzi sia Bersani sia Roberto Speranza, dopo che l’ex premier non aveva chiarito la mission del governo né il percorso sulla legge elettorale: “La prima cosa che dobbiamo dire – scandisce Bersani – è quando si vota. Non possiamo lasciare un punto interrogativo sulle sorti del nostro governo. Io propongo che noi non solo diciamo, ma garantiamo all’Europa, ai mercati agli italiani, la conclusione normale e ordinata della legislatura”.

L’intervento dell’ex segretario ha un grande valore simbolico. E prepara la grande rottura perché – questo è il ragionamento – “se esce lui, non si può dire che se ne vanno quattro gatti, ma non c’è più il Pd”. Negli ultimi giorni ci sono stati contatti anche con Pisapia. Solo la disponibilità di Orlando, di qui a domenica, potrebbe cambiare lo schema. E il terreno su cui in parecchi cercano di convincerlo è il governo: “Se Renzi forza sul governo come evidente, si rende protagonista della crisi istituzionale e tu ti devi intestare la linea della responsabilità”.
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