Consulta. Chi frena sul voto spera in Mattarella. Ma il Colle aspetta le motivazioni che scioglieranno i nodi

Sorrisi e mugugni. Il partito del voto subito e quello del voto nel 2018. Quando la Consulta dice la sua finalmente sull’Italicum, il Transatlantico della Camera si divide in due, quasi sembra il mar Rosso di Mosè. Ci sono i renziani contenti: sentenza subito applicabile, si può andare al voto. Così pure i Cinquestelle e la Lega. E poi c’è il partito del no al voto anticipato, quelli che allungherebbero i tempi anche fino al 2018. Dentro c’è il Pd non renziano, la minoranza bersaniana ma anche una bella fetta di maggioranza. Dentro c’è anche Forza Italia. Sono nervosi. E tutti ora guardano al Quirinale: cosa farà l’arbitro Sergio Mattarella? Intanto il presidente aspetterà le motivazioni della Corte Costituzionale che tra qualche settimana spiegheranno la sentenza di oggi e non è detto che non esprimano una valutazione sull’omogeneità delle due leggi elettorali tra Camera e Senato.

Così trapela dal Colle. E in effetti pare che la discussione in Consulta si sia dilungata proprio sul tema dell’omogeneità dei due sistemi. Rivisto l’Italicum, resta in piedi un impianto che alla Camera prevede un premio di maggioranza per la lista che raggiunga il 40 per cento dei consensi. Non così al Senato dove non c’è premio, ma c’è uno sbarramento su base regionale all’8 per cento. Ci sono i capilista bloccati, cioè decisi dai partiti. Non c’è più il ballottaggio. A grandi linee il sistema è di fatto un proporzionale, ma non proprio uguale per entrambe le Camere. Nel discorso di fine anno Mattarella ha chiesto al Parlamento di lavorare per avere un sistema omogeneo. Ma ora è possibile che anche questa grana venga risolta dalla Corte Costituzionale con le motivazioni che andranno a spiegare meglio la chiusa della sentenza di oggi, quel “suscettibile di applicazione immediata” che ha fatto contenti i renziani, i grillini e i leghisti.

Il partito del ‘voto non subito’ non si rassegna. Il Pd naturalmente si spacca. Velenoso il tweet di Enrico Letta:

Pierluigi Bersani attacca: “Il Parlamento comunque si deve esprimere sulla legge elettorale. Abbiamo avuto una legge votata con la fiducia, ora c’è la Consulta… E il Parlamento che fa? Una valutazione dovrà farla o no? Altrimenti andiamo tutti a casa…”. Roberto Speranza pure annuncia così la prossima battaglia: “Il cuore dell’Italicum è saltato: la nostra battaglia politica contro quella legge, per la quale mi sono dimesso da capogruppo, aveva un fondamento. Ora il Parlamento deve lavorare, nei tempi necessari, per un sistema elettorale che rispetti i due principi di un equilibrio corretto tra rappresentanza e governabilità” e non avere “mai più un Parlamento di nominati”.

La maggioranza Dem non renziana resta muta. Franceschini è impegnato a Londra e da lì non si sogna di commentare la fine dell’Italicum. Così anche il ministro Orlando. In Parlamento però si mugugna. “Il sistema va reso omogeneo, non lo è così come è uscito dalla Consulta”, dice Andrea Martella del Pd, veltroniano, in maggioranza nel partito, concordando con Pino Pisicchio che proprio in quel momento sta spiegando ai cronisti: “Sì, il Parlamento deve lavorare su questa sentenza. Soprattutto deve decidere se vuole le coalizioni, che in questo ‘Consultellum’ non ci sono…”. Forza Italia sulla stessa linea: “La sentenza di oggi della Corte Costituzionale conferma l’esistenza di due sistemi elettorali profondamente differenti tra Camera e Senato, con le coalizioni solo al Senato e il premio di maggioranza solo alla Camera e con soglie di sbarramento completamente diverse. Il Paese, come sottolineato dal Presidente Mattarella, ha bisogno invece di leggi elettorali omogenee”, dice il capogruppo al Senato Paolo Romani.

Chi frena sul voto è in allarme. Ci sono gli inconfessabili scongiuri per scavallare la metà di settembre e guadagnare il vitalizio. Ci sono le certezze di chi sa che non verrà ricandidato, in un sistema fatto di capilista decisi dalle segreterie dei partiti. Ma il vento del voto a giugno è forte della propaganda a cinquestelle e leghista, qualora non bastasse quella di Renzi che però fuori dal palazzo è più debole. Due partiti variopinti in un solo Parlamento. E un presidente della Repubblica che non ha intenzione di cavalcare l’una o l’altra onda, ma di fare l’arbitro, come si dice sempre quando si parla di Colle.

Ma l’obiettivo di Mattarella è garantire il funzionamento del sistema. Oltre la sentenza della Consulta, in Parlamento, si vede solo impasse per il momento. Del resto, anche il ‘problema Porcellum’ fu risolto non a caso dalla Corte Costituzionale. Da qui nasce quel “suscettibile di immediata applicazione”, appiglio utile a superare un’eventuale palude parlamentare sulla legge elettorale. Ecco perché proprio su questo la Consulta tornerà nelle motivazioni che potrebbero avviare così il countdown verso il voto anticipato.
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Governo Gentiloni, i ministri di Verdini spariscono al Colle

Quando quella vecchia volpe di Fabrizio Cicchitto arriva allo stadio Olimpico per la Roma, parecchi deputati lo avvicinano in tribuna d’onore: “Tu che conosci Verdini, come la leggi questa cosa che non è entrato al governo”. Risposta: “O ha peccato di ingordigia, chiedendo troppo. O è il segnale che il governo cade quando vuole Renzi”. O entrambi.

Ecco la scena, di quando le richieste di Denis sono nero su bianco. E non vengono accolte. Nella lunga ora di Paolo Gentiloni al Quirinale spariscono i ministri di Denis Verdini dalla lista. Un ministro dall’aria mite come Zanetti? O due nomi legati a un ingombrante passato in forza come Marcello Pera e Saverio Romano, circolati per tutta la giornata? Colloquio lungo, interrotto da un po’ di contatti con l’esterno. Telefonate, valutazioni. In parecchi ricordano il precedente della formazione del governo Renzi, quando nello studio del capo dello Stato fu depennato dalla lista e sostituito da Andrea Orlando. O quando, ai tempi della formazione del governo Monti, nello studio di Napolitano passarono due ore, perché c’era il nodo delle deleghe di passera e la complessa mediazione con Berlusconi da un lato e Bersani dall’altro.

Stavolta il grosso delle telefonate è con i vertici del gruppo del Senato. Gentiloni e Zanda hanno un’antica consuetudine, sin dai tempi della giunta Rutelli che si occupò di Giubileo: “Verdini – è il senso del ragionamento condiviso – non lo reggiamo. Pezzi di gruppo si rifiutano di votare la fiducia. Ma i numeri li abbiamo senza Denis?”. Gentiloni offre a Verdini posti di ministri e sottosegretari, ma spiega che, con i ministri, salta l’equilibrio complessivo. Denis a quel punto fa uscire, come strumento di pressione, la dichiarazione che “Ala non voterà la fiducia”. All’uscita dal colloqui al Colle però i ministri di Denis non ci sono.

I numeri al Senato ballano. L’ultima fiducia sulla legge di Bilancio è passata con 173 sì la scorsa settimana, con l’apporto delle truppe di Ala (18 senatori). Sulla carta i verdiniani sono aggiuntivi, non sostitutivi, ma nella navigazione quotidiana – quando tra influenze, missioni, assenze mancano parecchi parlamentari – sono molto importanti. Prosegue il flusso di comunicazione tra Zanda e il neo premier: “Reggiamo anche senza Verdini, tra senatori sparsi di buona volontà e l’aiuto di qualcuno di Forza Italia”. Proprio ieri Silvio Berlusconi ha diramato le sue regole di ingaggio per i parlamentari che vanno in tv e anche per i suoi giornali: “Non usate toni duri, opposizione responsabile” verso l’ex ministro delle Comunicazioni del governo Prodi stimato dai vertici di Mediaset. Ma questo è un altro capitolo.

Tornando a Verdini: è un fardello pesante. Per i senatori della sinistra, ma anche in chiave di congresso. Renzi, alla scorsa direzione ha citato Pisapia e Pisapia insieme a Cuperlo e Merola sta lavorando su uno schema di sinistra docile non alternativa, ma stabile nell’orbita del renzismo. È difficile assecondare questo processo con le truppe di Verdini al governo. E chissà se è un caso che l’ingordo ha prospettato non un governo, ma una abbuffata, neanche fosse al governo con Berlusconi. Proponendo Zanetti, che per fare il ministro si è alleato con Verdini. Ma anche una casella di peso, di prima fascia (Istruzione, Agricoltura o Sanità) mettendo sul tavolo i nomi di Pera e Saverio Romano. Suggerisce un parlamentare di Ala: “Vediamo come apre Libero domani”. Libero è il quotidiano di Antonio Angelucci, parlamentare di Forza Italia e re delle cliniche in varie regioni, citato anche nel famoso fuorionda di Nemo da Vincenzo D’Anna, in relazione alla nomina dei commissari campani e dell’emendamento per De Luca. Quando iniziò la campagna referendaria, per schierare il giornale sul SI, cambiò addirittura il direttore.

Insomma, l’ingordigia. Il passaggio successivo è il rifiuto dei posti da viceministro e sottosegretari. Rabbioso, Denis chiama Renzi davanti ai parlamentari che riunisce a via Poli, uno sfogatorio: “Siamo rimasti fuori, non era questo il progetto”. Senza piatto ricco, le briciole non servono. Il risultato è in una battuta che circola a via Poli, sede di Ala: “Faremo opposizione al governo, come Renzi…”.
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E Renzi e Mattarella vanno in rotta di collisione: il Colle frena sul voto, il premier non gradisce

La vera novità arriva a due giorni dal voto referendario che ha bocciato la riforma costituzionale Boschi, alla vigilia della direzione nazionale del Pd e della ufficializzazione delle dimissioni di Matteo Renzi dal governo. Ed è questa: Sergio Mattarella e Matteo Renzi entrano in rotta di collisione. Diretta: prima vera crepa tra il rottamatore e il presidente. La tensione è palpabile tra Palazzo Chigi e Quirinale, a sera.

Al termine cioè di una giornata di contatti tra il Colle e i propri interlocutori diretti nei gruppi parlamentari del Pd, a cominciare dal ministro Dario Franceschini. Obiettivo: frenare l’ansia di Renzi di tornare al voto al più presto possibile, tirarlo via dal treno ad alta velocità che ha preso subito dopo la sconfitta e farlo salire su un convoglio intercity che gestisca tutto in maniera ordinata. O almeno farci salire il grosso dei gruppi parlamentari e della direzione Pd. E’ per questo che a metà pomeriggio il capo dello Stato fa sapere a chiare lettere che lui è contrario alle elezioni immediate, pensa che vada formato un governo solido e che sia necessario mettere mano alla legge elettorale. Per garantire la formazione di un esecutivo dopo le elezioni. E per evitare salti nel buio. Da Palazzo Chigi, Renzi la prende come un pugno sui denti.

Ma andiamo con ordine. Già ieri sera, quando negli studi di ‘Porta a Porta’ il ministro dell’Interno Angelino Alfano scommette sulle elezioni a febbraio, al Colle i conti cominciano a sballarsi. Al fianco di Alfano, il capogruppo Dem alla Camera Ettore Rosato pure accompagnava il ritornello del voto subito. E qui qualcosa ha cominciato a non tornare anche in casa Franceschini, visto che Rosato è esponente di Areadem, uomo vicino al ministro dei Beni Culturali ma in tv ha fatto il renziano doc. Come se la sconfitta di domenica non ci fosse stata. Qualcuno nel Pd racconta che è stato il ministro stesso a fargli una sfuriata al telefono per riportarlo sulla ‘retta via’. Fatto sta che oggi la linea del Pd è cambiata. Non più voto subito, come dicevano i falchi renziani ieri. Bensì: governo istituzionale sostenuto da tutti, non solo dal Pd e comunque non dalla maggioranza dell’attuale governo dimissionario. Cosa è successo?

Quella del “governo istituzionale sostenuto da tutti” è la carta che Renzi si giocherà in direzione domani. E’ il suo contrattacco alla mossa di accerchiamento apparecchiata da Franceschini, il ministro Orlando, ma anche Delrio: tutti con l’appoggio di Mattarella. Accerchiamento per frenarlo dalla smania di elezioni. Pare che qualcuno volesse addirittura raccogliere le firme per mostrare al segretario, nero su bianco, che non avrebbe avuto la maggioranza in direzione se avesse forzato. Ma forse non è stato necessario. Con gran parte dei leader di maggioranza schierati con la minoranza bersaniana che ha votato no (“Sconsiglio di sfidare il paese…”, dice Pier Luigi Bersani), Renzi ha capito che era il caso di cambiare tattica. E’ la prima volta che è costretto a farlo da quando è segretario del Pd. Anche questa è una novità che fa il paio con la tensione con Mattarella.

E’ a questo punto che nasce la contromossa. Alle consultazioni dei partiti con il capo dello Stato per la formazione di un nuovo governo, che presumibilmente inizieranno giovedì, “il Pd proporrà la formazione di un esecutivo istituzionale sostenuto da tutti”. Questo dirà Renzi in direzione. Non parlerà di voto immediato. “Poi, se la maggioranza delle forze politiche si assesteranno sulla linea del voto, il Pd non ha paura delle elezioni”, dice oggi anche Rosato. Ma la vera scommessa del premier è un’altra. E’ che questo governo non nascerà. Non ci sono all’orizzonte forze di opposizione che si prestino al gioco. E per ora sembrerebbe che Renzi non abbia torto.

Nota la contrarietà del M5s e Lega a dare sostegno ai “governicchi”, il primo indiziato sarebbe Silvio Berlusconi. Ma, da quanto trapela dal pranzo dell’ex Cavaliere con i suoi oggi ad Arcore, la disponibilità di Forza Italia a sostenere un governo istituzionale non c’è. C’è quella a sedersi al tavolo della nuova legge elettorale. Insomma l’ex premier vuole vedere le carte. E Renzi vede la partita ancora aperta. La sua nuova e pericolosa partita col Pd e con il Colle.

“Mica possiamo assumercela solo e sempre noi la responsabilità. Se la devono assumere anche gli altri”, dice in Transatlantico la fedelissima renziana Alessia Morani. E’ il nuovo verbo del premier, fedele alla linea che ha voluto dettare la sera della sconfitta: “Oneri e onori dei vincitori: spetta a loro trovare una nuova legge elettorale…”. Proprio questa drammatizzazione non è piaciuta al Colle. Questo modo tutto renziano di saltare alle conclusioni, tra annunci di dimissioni e voglia di voto immediato. Basta: hanno cominciato a dirgli anche dal Pd, da Franceschini a Orlando. Ora questa accelerazione va gestita: frenando con prudenza, dicono dal Quirinale.

L’udienza della Corte Costituzionale sui ricorsi sull’Italicum fissata al 24 gennaio è già un poderoso freno: è un’udienza, non una sentenza. Potrebbe non sciogliere il nodo su cosa non va della legge elettorale a livello costituzionale. E questo inevitabilmente allunga i tempi del voto, a meno che il Parlamento non decida prima. Improbabile.

Ma oltre a scommettere che il governo istituzionale non nascerà, della serie ‘non esistono altri governi al di fuori di me’, Renzi fa anche un altro tipo di ragionamento. “Loro non capiscono cos’è il consenso”, dice uno dei suoi commentando le indiscrezioni del Colle. “Il paese vuole andare a votare”. E in questo schema, è la convinzione, Renzi si posiziona dalla parte ‘giusta’, con Grillo, Salvini e tutti coloro che chiedono elezioni al più presto. Mentre chi frena sul voto si mette “dalla parte dei parlamentari che vogliono aspettare di maturare la pensione a ottobre prima dello scioglimento delle Camere”, è l’altro pezzo di ragionamento. E ancora: “Hanno paura che Renzi li escluda dalle liste del prossimo parlamento”.

Attacchi che scommettono sull’impopolarità dei freni sul voto. Ma che svelano comunque un certo nervosismo, alla vigilia di una direzione Dem che si annuncia tesissima. Per la prima volta, Renzi non dà le carte. Almeno non tutte. E nel giro di 48 ore dal referendum che lo ha travolto, è costretto a inseguire e scommettere per sopravvivere come segretario del Pd.
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Ricorso sul quesito referendario. “Spot per il Sì” per M5S e Sinistra. “Riprende il titolo della legge” per i dem. Il Colle si tira fuori

“Quella scheda è uno spot, così non rispetta la legge”. La guerra referendaria finisce tra carte bollate e ricorsi con i comitati del No che chiedono l’impugnazione del quesito che comparirà sulla scheda davanti al Tar. Dietro le quinte della tenzone giuridica, i senatori del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi e di Sinistra Italiana, Loredana De Petris che contestano la formulazione “impropria e incompleta ”che finisce per tradursi in uno “spot pubblicitario a favore della conferma e dunque inganna i cittadini”. La querelle è nota da quando è stata svelata la scheda che sarà consegnata agli elettori il prossimo 4 dicembre.

Questo il contenuto: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della seconda parte della Costituzione, approvato dal Parlamento eccetera eccetera…?”.

“E chi non sarebbe d’accordo?”, dicono i fautori del No, secondo cui nella domanda per loro manca molto altro. Secondo le motivazioni presentate davanti al tribunale amministrativo dagli avvocati Vincenzo Palumbo e Giuseppe Bozzi, quel testo non rispetterebbe la legge che regola i passaggi del referendum costituzionale. Il punto d’attacco è la legge 352 del 1970 dove all’articolo 16, si prescrive che nel quesito sia indicato il singolo o i singoli articoli della Costituzione oggetto di revisione. La seconda contestazione, riguarda la citazione sul “contenimento dei costi” che non trova riferimento nelle norme revisionate, ma è solamente una conseguenza e neppure poi tanto certa. Chiedono perciò di riformulare la domanda nella scheda al fine di rendere chiara in tutte le parti la scelta dell’elettore evitando letture distorte.

“Un ricorso pretestuoso, summa di cavilli” replicano dalla maggioranza, che si limita a ricordare come sia stata la Cassazione a dare il via libera al quesito. Il costituzionalista Stefano Ceccanti conferma che la domanda da sottoporre all’elettore “non può che riprendere il titolo della legge votato dalle Camere e che il richiamo ai singoli articoli non c’è stato neppure nelle precedenti consultazioni”. Ma la vicenda del ricorso fa tanto rumore e ottiene già il primo effetto di rimbalzare sul Quirinale contro il quale si rivolgono le sedici pagine di motivazioni degli avvocati Palumbo e Bozzi. Un quesito e una formulazione da cui la Presidenza della Repubblica si tira subito fuori, ricordando che “è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla Corte di Cassazione, secondo le norme e riproduce il titolo della legge approvata dal Parlamento”.

Fondate o meno le motivazioni del ricorso, il Colle non vuole entrare nella disfida restando in territorio neutrale. Una precisazione corretta per il costituzionalista Francesco Clementi, che definisce bene il percorso referendario. Interpellato dall’Huffington Post, spiega che le motivazioni del ricorso hanno pochi appigli. La legge 352 è chiara, e prevede due scelte differenti per la formulazione del quesito referendario. “In questo caso il governo ha preferito la seconda ipotesi così com’è avvenuto anche nelle precedenti tornate referendarie ”. Questa la domanda semplificata: “Approvate il testo della legge costituzionale… concernente… approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero …del …?”. Versione “più leggibile e aggiungo di buon senso”, spiega ancora il professor Clementi, “ perché supportata dalla giurisprudenza con una sentenza della Corte costituzionale: la scelta da sottoporre all’elettore deve essere intellegibile, questi deve capire ciò che sta votando, sia con il voto elettivo sia deliberativo come nel caso del referendum”.

Se lo scontro tra i Sì e i No, si arma delle baionette giuridiche, c’è da giurare che saranno due mesi di campagna elettorale senza esclusione di colpi e il campo di battaglia del Tar, sarà solo uno dei tanti.

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