Slitta l’arrivo in Aula della legge sul testamento biologico. Maggioranza divisa e Pd spaccato sui punti chiave

Il Partito democratico è diviso. Anzi, l’intera maggioranza è spaccata e il disegno di legge sul Biotestamento è quindi fermo in commissione Affari sociali della Camera, dove un’intesa è stata trovata ma nessuno si sente pronto ad affrontare lo scoglio dell’Aula. È qui infatti, nell’emiciclo di Montecitorio, che potrebbero consumarsi divisioni tra i parlamentari soprattutto tra l’ala cattolica e quella più progressista poiché non c’è un’intesa ampia sui passaggi chiave della legge: ruolo del medico e possibilità o meno di alimentare e idratare il malato. La morte di Fabiano Antoniani (questo il nome all’anagrafe di dj Fabo), tetraplegico e cieco in seguito a un incidente, ha così riacceso lo scontro sull’eutanasia: “Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato”, queste le ultime parole di Dj Fabo giunto nel Paese elvetico per il suicidio assistito.

Che venga approvata in Italia una legge sull’eutanasia, cioè che venga data la possibilità a un individuo di porre fine alla propria vita autonomamente con l’aiuto dei medici, è da escludere. Nessuno nella maggioranza ne parla, piuttosto si ragiona e si prova ancora a trovare la quadra sulla legge riguardante il testamento biologico. Il provvedimento permette alla singola persona di enunciare, in linea di massima, i propri orientamenti sul “fine vita” nell’ipotesi in cui sopravvenga una perdita irreversibile della capacità di intendere e di volere. L’articolo 3 del testo – il più divisivo – prevede e disciplina le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Queste vengono definite come l’atto in cui ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Il dichiarante può anche indicare una persona di fiducia che lo rappresenti nelle relazioni con il medico e le strutture sanitarie. Il medico è tenuto al rispetto delle DAT che possono essere disattese in tutto o in parte dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, solo quando sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione delle DAT capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

Questi sono i punti chiave del testo su cui il Parlamento è diviso, con il rischio che non ci sia una maggioranza per approvare una legge che rispetto a quelle degli Paesi europei resta comunque diversi passi indietro. “Come senatore mi sento responsabile di un Parlamento bloccato dai veti. Legge sul testamento biologico adesso”, ha scritto tra i primi il senatore renziano Andrea Marcucci. Anche il capogruppo Pd alla Camera Ettore Rosato ha chiesto di accelerare: “Dispiace che per essere libero dj Fabo abbia dovuto andarsene lontano. E dobbiamo riflettere su questo. La politica ha il compito di guardare in faccia i problemi delle persone. La legge su testamento biologico va in questa direzione”. Il presidente del Gruppo Misto Pino Pisicchio pensa che sia “opportuno che la pietas umana prevalga in situazioni drammatiche che non possono certamente essere tramutate in vessilli politici”.

Insomma, nessuno nasconde che la strada per l’approvazione della legge sul testamento biologico sia in salita. La parlamentare cattolica dell’Udc, Paola Binetti, sottolinea per esempio che “la divisione all’interno della Commissione è tra coloro che vogliono che il ‘no’ all’eutanasia sia esplicito, chiaro e scritto nella legge, e coloro che dicono che la legge così com’è non ha bisogno di questa puntualizzazione perché è già contraria all’eutanasia”. Pochi giorni fa Giuseppe Fioroni, leader dei popolari all’interno del Pd, in un’intervista ad Avvenire è uscito allo scoperto elencando i punti che, secondo i cattolici, vanno modificati perché se la legge sul testamento biologico resta così com’è si tratterebbe “di eutanasia passiva: nelle dichiarazioni non si può inserire il no all’idratazione e all’alimentazione artificiale” perché non si tratta di terapia ma di elementi vitali. Inoltre, secondo Fioroni, è da rivedere il ruolo del medico poiché “la normativa si riferisce a casi astratti, ma dovrà operare in casi concreti, che vanno valutati di volta in volta”. Dello stesso avviso è Alessandro Pagano della Lega Nord: “È inconcepibile che uno Stato possa favorire la cultura della morte”.

Sul versante opposto arrivano le dure parole di Sinistra Italiana: “Mi vergogno di un Paese e di un Parlamento incapace di dare dignità e libertà a chi chiede autodeterminazione”, dice il segretario nazionale Nicola Fratoianni. Il Movimento 5 Stelle si schiera nettamente a favore dell’eutanasia, come chiesto dagli attivisti: “Sul biotestamento e l’eutanasia gli iscritti hanno votato, ma tanto non c’è più un Parlamento in grado di votare: c’è solo un Parlamento che rinvia”.

Di rinvio in rinvio infatti la calendarizzazione della legge sul biotestamento in Aula alla Camera potrebbe slittare a metà o fine marzo. Qui Micaela Campana, deputa Pd che si occupa dei temi etici, spera che si possa trovare “un accordo come è successo sulle unioni civili, attraverso il dialogo. Sono sicura che ce la faremo anche questa volta”. Ma anche in questo in caso il rischio è che venga approvata una legge arretrata rispetto agli Stati europei e più blanda rispetto all’attuale testo discusso in commissione.

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Donald Trump presidente degli Stati Uniti: il ruolo chiave della middle-class operaia nel Midwest dietro la vittoria del tycoon

La verità sta nel mezzo, “in the middle”. E, per essere precisi, nella middle-class del Midwest. Le ragioni che hanno portato Donald Trump a diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America non sono né politiche né tantomeno culturali. A poche ore dalla vittoria del tycoon newyorchese si vanno sempre più delineando, se si incrociano i voti ottenuti nei singoli Stati e i dati su economia e lavoro, i motivi che hanno spinto gli americani a credere che fosse The Donald l’uomo giusto per rendere l’America “great again”.

L’American dream, per realizzarsi di nuovo, ha bisogno di depurare il tessuto industriale ed economico dagli effetti della globalizzazione e della delocalizzazione e di rimettere al centro il lavoro del cittadino americano: è questo il messaggio che sembra uscire dalle urne. Per capire, però, gli squilibri economici che hanno reso il terreno fertile per la vittoria di Trump è necessario partire da alcuni dati.

Negli Stati Uniti i numeri ufficiali riportati dall’Ufficio delle Statistiche del lavoro parlano di un tasso di disoccupazione al 4,7%. Un numero che disegna un quadro occupazionale roseo ma che non rappresenta affatto la realtà. Non si tiene conto, infatti, dei cittadini americani che non partecipano al mercato del lavoro, i cosiddetti “not in labour force”: gli inattivi in America ammontano a circa 90 milioni di persone. Cifra considerevole che però scompare dalle stime ufficiali e che disegna una realtà dai contorni più foschi dello stato occupazionale Usa.

Non è finita qui: come ha riportato Martin Wolf sulle pagine del Financial Times, l’incidenza della quota lavoro sul prodotto interno lordo americano è calato, dal 2001 al 2014, dal 64,6% al 60,4%. Si tratta di un dato che conferma come l’evoluzione dell’economia americana verso la finanziarizzazione e l’innovazione tecnologica lasci uno strascico pesante sui redditi delle famiglie. Redditi che sono aumentati del 5,2% tra il 2014 e il 2015 ma restano comunque al di sotto del livello pre-crisi Lehman Brothers.

Come ricorda il giornalista del Sole 24 Ore Vito Lops, inoltre, dal 2008 al 2016 i cittadini americani costretti a ricorrere ai food stamps (buoni alimentari) sono aumentati del 60%, passando da 28 a 45 milioni. E’ in questo contesto che si va ad inserire la vittoria di Donald Trump che ha fatto di tutto, durante la campagna elettorale, per accreditarsi come il vero oppositore dell’establishment e dello status quo, aiutato anche dalla debolezza della sua rivale Hillary Clinton, troppo legata nell’immaginario collettivo ai poteri forti di Wall Street e simbolo della continuità del potere.

La verità “in the middle”, si diceva. E in effetti è il caso di sottolineare il voto di alcuni Stati che rappresentano la spina dorsale della working class americana. Sono le roccaforti del Midwest: il Michigan, con la sua capitale Detroit un tempo centro nodale del modello fordista e oggi piegata dalla crisi industriale, il Wisconsin agricolo e manifatturiero e la Pennsylvania (più orientale ma comunque a trazione industriale) democratica dal 1992, con i suoi 20 Grandi Elettori. E poi il Nord e il Sud Dakota, Iowa e Kansas. Trump ha poi vinto in Ohio, uno degli swing states che con le sue due principali città, Columbus e Cleveland, è un bacino di voti operai impiegati in impianti siderurgici, meccanici, chimici e in particolare di gomma. Ha di certo contribuito, poi, la vittoria in Florida, altro grande stato attenzionato alla vigilia del voto con i suoi 29 Grandi Elettori. Ma, tornando al Midwest, la Clinton è riuscita a far breccia solo nel Minnesota e in Illinois.

Non è un caso: come fa notare il sito Fivethirtyeight fondato dal mago dei sondaggi Nate Silver, gli Stati del Midwest che Trump si è aggiudicato sono quelli più colpiti dalle importazioni di prodotti cinesi. Un’area identificata dall’economista David Autor del Mit come tra le più colpite dagli effetti della globalizzazione e dove le diseguaglianze hanno raggiunto la maggiore ampiezza nella forbice sociale, traducendosi nella perdita di due milioni di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011.

Il 22 ottobre a Gettysburg, nella Pennsylvania che vive una profonda crisi in particolare nel settore siderurgico, Trump ha tenuto il suo discorso programmatico, stipulando un “Contratto con gli elettori americani”, e ha messo in chiaro alcuni punti centrali della Trumponomics: una nuova riforma fiscale che prevede l’abbassamento dell’aliquota fiscale per le aziende dal 35 al 15%; revisione o cancellazione di tutti i trattati commerciali e gli accordi di libero scambio, come il Nafta (per l’America del Nord), Tpp (con i paesi dell’Area pacifica tranne “l’odiata” Cina) e il Ttip che in Europa abbiamo già avuto modo di studiare; l’aumento dei dazi sulle merci importate; la dichiarazione di una “guerra commerciale” alla Cina che ha “stuprato” gli Stati Uniti facendosi artefice del “più grande furto della storia del mondo” grazie alla manipolazione della sua moneta, lo yuan. In sintesi, la transizione da un’economia liberista al protezionismo e all’isolazionismo.

Guerra commerciale alla Cina e ai frutti marci della delocalizzione da un lato, guerra alla finanza di Wall Street e ai lobbisti dall’altro. Così il magnate di New York è riuscito a diventare l’uomo giusto per la middle-class americana, diventando il terminale del sentimento di rivalsa del ceto operaio, rimasto indietro per via dei processi di globalizzazione che hanno favorito quei Paesi più forniti di manodopera a basso costo piegando il settore manifatturiero americano.

Con una propaganda forte e una ricetta economica estremista, Trump ora è chiamato a dar seguito alle promesse fatte nei mesi di campagna elettorale, conciliando il Donald politico con il Donald Presidente degli Stati Uniti. Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva un voto che parla (anche) all’Europa, mostrando tutti i guasti prodotti da un modello economico che ha dimenticato il ruolo centrale delle forze lavoratrici. Il Re è nudo, l’Europa è avvisata.
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