Referendum jobs act, durissima lettera di risposta della Cgil alle parole di Staino. E sulla decisione della Consulta la temperatura sale

La risposta della Cgil è durissima, quasi feroce. La “bomba” sganciata dall’Unità, dalla penna del suo direttore Staino che ha lanciato un durissimo j’accuse contro la segretaria della Cgil Susanna Camusso, al timone di un sindacato che avrebbe dimenticato gli insegnamenti di predecessori come Luciano Lama e Bruno Trentin, non poteva rimanere senza replica.

Il sindacato di Corso d’Italia, dopo un frenetico giro di telefonate, ha deciso di replicare con una lettera al giornale del Pd. Che già dai firmatari indica la “pesantezza” del concetto che si vuole esprimere. In calce compaiono le firme di tutti i componenti della segreteria nazionale. Più quelle di tutti i segretari di categoria. L’autografo mancante è uno solo: quello della Camusso. Una risposta unanime, collegiale, a quello che viene derubricato ad attacco personale. Ed è proprio quello del rifiuto del metodo personalistico di Staino il primo dei tre punti intorno a cui ruota la missiva. Il secondo, se si vuole, è ancora più pesante. E indica nel livore del direttore de L’Unità l’unico contributo alla discussione sulle politiche del lavoro. Staino, terzo punto, parli nel merito, offra soluzioni. In caso contrario l’interlocuzione non ha luogo di essere.

Mancano pochi giorni alla decisione della Corte Costituzionale sui referendum sul jobs act e la temperatura politica sale vertiginosamente. L’11 gennaio il giorno clou che rischia di trasformarsi (dopo il referendum costituzionale) in un nuovo conto alla rovescia per la fine della legislatura. E segnerebbe, in caso di vittoria dei Sì, lo smembramento definitivo dei provvedimenti simbolo dell’era Renzi. Senza contare che l’ammissione dei quesiti proposti dalla Cgil diventerebbero la scusa per accelerare lo scioglimento delle Camere ed evitare così una consultazione piuttosto insidiosa. Ma nonostante la decisione sia prettamente giuridica, le ricadute politiche non sono certo ignorate dai giudici della Consulta.

Sarebbe più opportuno un “dialogo con il Parlamento” e non un ripetitivo attacco al governo di turno, senza offrire al contempo un progetto, una prospettiva e una conseguente azione politica”, aveva scritto il direttore dell’Unità, accusando la Cgil di “rimanere sulle barricate aspettando che cambi il governo”. Nello stesso giorno in cui anche la Cisl scarica il sindacato di Corso Italia e nonostante in tanti invochino la strada che eviti lo scontro finale a sinistra e nel Pd, la tensione è alle stelle. L’Unità non è un giornale qualsiasi e nella minoranza Dem è il senatore Federico Fornaro a esprimere “tristezza” per l’attacco frontale. “Ci saremmo aspettati di leggere certe frasi su altri quotidiani”, dice l’esponente della minoranza interna che considera l’attacco “tutto personale e non in linea con la storia del giornale”. In sintesi ritorna quel “fuoco amico” indirizzato verso Bersani e ad altri esponenti della sinistra del Pd che sembra essere diventato lo stile dell’Unità”.

A dare una mano al governo che a tutti i costi vuole disinnescare la pericolosissima mina è arrivata anche Annamaria Furlan. In un’intervista all’Huffpost, la segretaria della Cisl liquida senza troppe sfumature la consultazione proposta dalla collega: “Il referendum non è lo strumento migliore per parlare di legislazione del lavoro, sui voucher si proceda con un intervento legislativo. Quando le imprese sono in crisi non c’è articolo 18 che valga”. Un accerchiamento dal quale la Cgil, che in questi giorni ha intrapreso la linea della prudenza comunicativa, ritenuta la più efficace per non caricare troppo la decisione della Consulta, non poteva non uscire.

Ma la maggioranza del Pd tira dritta. Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, ribadisce la linea: “Le modifiche non si fanno per evitare il referendum, ma per migliorare la norma, se necessario”. Specifica che sta a cuore anche al governo, e che persegue sempre la via Parlamentare e il conseguente venir meno delle urne

Qualunque sia la motivazione, dietro lo scontro, il merito dei referendum sui quali anche parte della sinistra sembra voler perseguire la strada parlamentare. “A partire dal quesito sui voucher, bisogna andare incontro alle richieste dei proponenti” è la linea della minoranza che sollecita maggioranza e governo a mandare avanti le proposte della commissione lavoro della Camera che ha già avviato il lavoro. “Le forze politiche facciano il loro mestiere mentre la Corte Costituzionale sta facendo il suo” spiega ancora Fornaro disponibile alla correzione “senza furberie legislative o pressioni improprie sui giudici” utili solo a neutralizzare i referendum. Nella sostanza, un ritorno alla legge Biagi dove gli stessi voucher erano previsti ma limitati agli stagionali in agricoltura, un settore dove oggi i buoni lavoro sono solo l’un per cento del totale.

Il peso dei 121,5 milioni di voucher venduti nei primi dieci mesi del 2016 rischia poi di ricadere anche sulla mozione di sfiducia che pende sul ministro del Lavoro Poletti, presentata dalla Lega, M5S e Sinistra Italiana. La scivolata del ministro (sulla possibilità che il referendum potesse essere evitato grazie allo scioglimento anticipato delle Camere) scatenò le dure reazioni della sinistra Pd che senza una marcia indietro sui voucher ha minacciato di non sostenerlo.

Martedì Poletti è atteso in Senato per un’informativa sulla vicenda mentre la sfiducia personale non è stata ancora calendarizzata. Un voto che in apparenza non vede rischi per la maggioranza ma che potrebbe diventare un altro elemento di pressione per i giudici della Corte che il giorno dopo dovranno esprimersi sull’ammissibilità dei tre referendum della Cgil.

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Referendum sul jobs act, dentro la Consulta grandi manovre per disinnescare i quesiti promossi dalla Cgil

Gli “artificieri” sono a già all’opera, nel campo di battaglia della Corte Costituzionale, per disinnescare la prima mina, il referendum promosso dalla Cgil sull’articolo 18. Mina che rischia di far saltare tutto, a partire dal percorso “ordinato” immaginato dal capo dello Stato Sergio Mattarella: prima la modifica della legge elettorale, poi il voto.

I referendum sul jobs act sono sempre stati vissuti, nelle stanze del potere renziano, in un tutta la loro portata politica. Perché ogni voto, nell’epoca moderna, come insegna la Grecia o l’Inghilterra, è ad alta intensità politica, figuriamoci una consultazione che ha come titolo “referendum sul lavoro” con i tassi di povertà e disoccupazione del nostro paese. E il jobs act è la riforma simbolo dell’era Renzi, la più divisiva di tutte, nel paese e nella sinistra: da un lato Marchionne e Confindustria, dall’altro la Cgil. Insomma un potenziale, nuovo 4 dicembre: “C’è un solo modo per evitare il referendum – disse il ministro Giuliano Poletti nella famosa dichiarazione – sciogliere le Camere e andare al voto anticipato”.

Ecco la mina, o meglio, le mine. Su “come finisce” la legislatura. Tutto in cento passi, tanti separano il Quirinale dal palazzo della Consulta. E tutto in un mese. L’11 gennaio la Corte si riunisce per l’ammissibilità dei quesiti sul jobs act. Il 24 sull’Italicum. In caso di ammissibilità il referendum, per legge, si deve svolgere nella “finestra” tra il 15 aprile e il 15 giugno: “È difficile – dice quella vecchia volpe di Gaetano Quagliariello – immaginare la durata della legislatura senza considerare quello che deciderà la Corte in questo mese”.

Proprio attorno alle decisioni della Corte, le grandi manovre sono iniziate. Più di un costituzionalista che ha consuetudine con il Quirinale spiega: “È chiaro che ammettere il referendum destabilizza la linea di Mattarella, perché Renzi a quel punto dice ‘basta, si vota’, anche con leggi diverse. Per Amato e altri giudici che hanno più sensibilità istituzionale si stanno ponendo il problema di non introdurre un elemento di drammatizzazione”.

Il che tradotto dal compassato linguaggio dei frequentatori dei Palazzi significa che, nella Corte, la tensione è già alta. Gli spifferi raccontano di orientamenti discordanti tra i giudici, con i “magistrati” più favorevoli ai quesiti della Cgil. E dei primi attriti tra Giuliano Amato, nei panni del grande artificiere, e la relatrice, Silvana Sciarra, allieva di Gino Giugni, giuslavorista, scelta da Renzi e votata dal Parlamento nel 2014. Non sul quesito sui voucher – tema su cui è prevedibile un intervento del governo – o sulle responsabilità in materia di appalti, ma sull’articolo 18. Giuliano Amato la pensa come l’Avvocatura dello Stato, ovvero che il quesito è di fatto propositivo e quindi “manipolativo”. La Sciarra, secondo i ben informati, sarebbe intenzionata a dichiararlo ammissibile. Ognuno, con diplomazia, cerca consensi alla posizione.

Partita aperta, tutta politica. Previsioni impossibili: “L’ambiente della Corte – prosegue la fonte – è molto particolare. C’entra la politica, ma ogni testa è un tribunale e l’attivismo non sempre produce i risultati sperati”. Certo è che la pressione è destinata ad aumentare. La camera di consiglio è l’11 gennaio. Il 10 Giuliano Poletti, il ministro del jobs act sarà a palazzo Madama per una “informativa”, trascinato dalle opposizione dopo le sue gaffe sui giovani italiani all’estero che “è meglio non avere tra i piedi”. Il giorno dopo, i titoloni dei giornali, con le opposizioni alla carica: una bocciatura dei quesiti sarebbe letta come un mossa dell’establishment per negare che si esprima la volontà popolare. Comunque vada la mina rischia di esplodere.
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Matteo Renzi alla ricerca della pax referendaria. Mano tesa a: Cgil, agricoltori, destra, Bersani… Solo con D’Alema e Di Maio…

“Siccome oggi è il compleanno di Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani facciamo un applauso a tutti e due. Sono nati nello stesso giorno. E siccome ieri abbiamo chiuso il primo accordo sulle pensioni, mi voglio allargare: oggi è anche il compleanno della Cgil. Compie 110 anni”. Sì, è Matteo Renzi che parla, ma quello ‘buono’: il lato (inedito) che ha deciso di utilizzare per cercare la pax referendaria in vista del fatidico 4 dicembre.

Passata l’estate, la strategia inclusiva pensata già a luglio diventa realtà. Il premier si tuffa nella campagna referendaria per il sì, pancia a terra e giri per le città, gesti studiati anche a Palazzo Chigi e annunci che cercano una cosa sola: pace e voti in vista del 4 dicembre. Renzi ha deciso di sfrondare l’albero dei nemici storici. Magistrati e sindacalisti in primis. Non li attacca più. Anzi li ‘abbraccia’ ogni volta che può per legarli al sì nel giorno che stabilirà il destino della sua carriera politica.

Nel mirino, che ormai serve solo a lanciare fiori metaforici e giammai cannonate al vetriolo, c’è persino lei: la vituperata Cgil. Già due mesi fa, il premier ha pianificato la sua strategia di ‘corteggiamento’, annunciando già allora la nuova e inedita fase di concertazione con i sindacati sulle pensioni. “Ma poi decide il governo”, diceva allora. Frase puntuta, nei mesi arrotondata, fino a svanire. Non a caso.

Ieri è arrivato l’accordo sulle pensioni, oggi Renzi se lo rivende ricordando da galantuomo il compleanno della Cgil a Perugia, in una delle ormai numerosissime tappe di campagna elettorale. Vero è che a luglio con i suoi non pensava che la Cgil si sarebbe schierata per il no al referendum, cosa che invece è successa. Ma poco importa. Con l’estensione della quattordicesima, il premier pensa di aver conquistato una buona fetta di pensionati, il grosso degli iscritti alla Cgil.

Con i magistrati la storia è un po’ diversa, ma il filo strategico è lo stesso. Martedì sera, in conferenza stampa dopo il consiglio dei ministri, Renzi parla del disegno di legge sul processo penale, quello che accorcia i tempi di prescrizione di reati come la corruzione. Testo fermo da tempo al Senato, eppure il premier non è ancora convinto di metterci la fiducia. “Noi abbiamo fatto delle regole che secondo me sono buone – dice – ma io ci penso su due volte a mettere la fiducia su una cosa che Davigo definisce provvedimenti dannosi o inutili, su atti della giustizia che vogliono aiutare i magistrati, con i magistrati che dicono che sono dannosi. Tendenzialmente escludiamo il voto di fiducia”. Vero è che il presidente dell’Anm ha espresso critiche sul testo. Ma è vero anche che il testo è fermo in Senato per le critiche dei centristi di Verdini e di Alfano. Tuttavia, il premier prova comunque a fare bella figura con i magistrati. Ci prova.

E poi c’è il resto. Oggi per dire è andato alla giornata nazionale dell’extravergine italiano organizzata dalla Coldiretti a Firenze. E annuncia: “Nel quadro economico del Def a cui seguirà la legge di stabilità del 15 ottobre abbiamo previsto che la parte di Irpef agricola che pagate sia cancellata a partire dal 2017″. Chissà se la platea si convince. Si direbbe di no, a giudicare dai fischi partiti all’indirizzo del palco quando il segretario generale Vincenzo Gesmundo schiera l’associazione sul sì al referendum. Però Renzi ci prova.

Come ha provato a incontrare gli ambientalisti e varie categorie professionali subito dopo il terremoto per esporre il piano di prevenzione anti-sismica ‘Casa Italia’. Un’intera giornata di ‘udienze’ a Palazzo Chigi, insieme al project manager Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano. Dovevano rivedersi entro la fine di settembre, però. Ma ancora non c’è traccia dei nuovi incontri.

E poi Renzi prova ad adescare l’elettorato di destra con la storia del Ponte sullo stretto. E’ la destra degli imprenditori che ha in mente. Tenta di riportarli alla sua ragione dopo aver perso la scommessa con i moderati alle scorse amministrative, quando si è scoperto che da destra molti voti sono andati al M5s. Ad ogni modo oggi difende la scelta. A Perugia dice: “I voti di destra? Chi non li prende resta minoranza…”.

Quelli che proprio lo fanno imbestialire, quelli con i quali non tenta strategie di seduzione, anzi continua a usare tattiche di attacco, sono Massimo D’Alema e Luigi Di Maio, evidentemente persi alla causa. “D’Alema – dice a Perugia – sui punti della riforma, per storia personale, è totalmente d’accordo. Ma siccome ha come obiettivo la distruzione di una persona e di un’esperienza, fa la sua battaglia. Auguri. D’Alema è un esperto di lotta fratricida in casa. Citofonare Romano Prodi e Walter Veltroni per sapere di che stiamo parlando. Se si fosse impegnato a combattere il centrodestra quanto ha combattuto i suoi compagni di partito, questo Paese sarebbe diverso”.

Quanto a Di Maio, la prende dal no alle Olimpiadi, sancito oggi dal voto dell’assemblea capitolina. Ma non attacca Virginia Raggi, fedele alla scelta di non attaccare un “sindaco eletto” che i renziani considerano in crisi nei rapporti con il movimento. Renzi invece attacca Di Maio: “Qualcuno dice che i soldi delle Olimpiadi li destineranno alle periferie. Mi auguro che ci sia qualcuno che li aiuti e li riporti alla ragionevolezza perché i soldi delle Olimpiadi, per definizione, vanno dove si fanno le Olimpiadi. Non è difficile. Anche senza email, questo basta un sms e si capisce”. Il riferimento è all’email della Raggi sulle indagini giudiziarie a carico dell’assessore capitolino Muraro, che Di Maio dice di non aver letto bene.

Domani sera negli studi di Enrico Mentana su La7, Renzi terrà l’atteso faccia a faccia con il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, alfiere del comitato del no. Ma con lui l’intento non è l’attacco, bensì il merito della riforma. Avanti così in una inedita tattica diplomatica fino al 4 dicembre. Passando per l’appuntamento clou della campagna del sì: la Leopolda edizione 2016, fissata nel weekend 18-20 novembre, a due settimane esatte dal referendum.
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