Scissione Pd, lavori in corso. Il pranzo di Bersani coi suoi, le telefonate dalle federazioni: “Se non accade niente di serio, sabato l’annuncio”

La scissione è servita. Ristorante Mario, via della Vite, pieno centro di Roma. Cucina toscana, vino rosso al centro del tavolo. Attorno, a ora di pranzo, si siedono Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza, Nico Stumpo, Davide Zoggia, Massimo Paolucci. Il ragionamento condiviso, nel primo lunghissimo giorno di quello che pare un lungo addio al Pd, è: “Se non accade niente di serio, domenica non andiamo all’assemblea del Pd”. La scissione, appunto. La tappa successiva: nuovi gruppi parlamentari.

Qualche abboccamento c’è stato. Tra i commensali c’è chi ha sentito Orlando, dopo la direzione: “Ha detto Andrea che anche nella maggioranza ci sono molti pieni di dubbi”. C’è chi ha sentito Franceschini: “Sta provando a dare segnali su un congresso a maggio, per far vedere che non si vota a giugno”. Tutti gli scenari sono sul tavolo, con annesse variabili. A partire dalla variabile Orlando, il protagonista di uno smarcamento alla direzione. Qualche tempo fa, gli era stato suggerito da Bersani di non entrare nel governo, dopo la vittoria del no, come segnale di “discontinuità”. Il che avrebbe aperto un dialogo in vista del congresso. Ora pare complicata, perché il guardasigilli è contrariato, molto contrariato, ma ha parecchi dei suoi che lo frenano. È chiaro che una sua candidatura sarebbe un fatto nuovo, perché apre una frattura nella maggioranza che sostiene Renzi.

Al momento l’ipotesi non c’è. C’è un po’ di gioco sulle date, giorno più giorno meno, nulla di più. Bersani, tornato col piglio del segretario, ha tagliato corto: nulla di serio, perché settimana più, settimana meno, non cambia la questione di fondo. E cioè che sia apra una discussione politica sul futuro del paese, sul governo, sulla legge elettorale, sul partito. È solo un modo per spostare il plebiscito dai primi giorni della primavera a primavera inoltrata: “In questa situazione – è l’analisi condivisa – il Pd diventa il partito di Renzi e noi facciamo un’altra cosa senza perdite di tempo. Un pezzo del nostro popolo la scissione l’ha già fatta”.

Un’altra e cosa in tempi brevi, senza partecipare al congresso. L’idea, se non si apre una trattativa vera, è di partecipare sabato all’iniziativa di Enrico Rossi, a Roma, quartiere Testaccio, ed annunciare lì la non partecipazione all’assemblea del Pd di domenica. Lì Bersani e Emiliano dichiareranno la la “presa d’atto” che c’è una chiusura di fronte alla richiesta di un altro percorso. Poi, i gruppi parlamentari. Parecchi sono i parlamentari perplessi, timorosi: “Ma se nasce un altro gruppo, come fa a durare il governo?”; altri si chiedono: “Come spieghiamo alla nostra gente che rompiamo sul calendario”. Pare il dilemma del prigioniero: se partecipiamo al congresso, è finita, perché è chiaro dagli articoli molto informati sull’ex premier quale sia lo spirito con cui si predispone al congresso (li seppellirò con le loro regole); se usciamo abbiamo un problema a spiegarlo.

In questa dinamica, contrariamente a parecchie rappresentazioni, Bersani è particolarmente determinato. Non è un caso che è tornato a dichiarare in prima persona, con frasi forti, determinate. Eccolo attraversare il Transatlantico, col parlamentare torinese Giacomo Portas, che ha una lista I Moderati e parecchi voti in Piemonte: “Guarda che ci sono le condizioni per fare noi il centrosinistra vero. Mica andiamo a fare una roba minoritaria”. Poi si ferma di fronte ai cronisti: “Non siamo un gregge, è impossibile andare avanti così. Io voglio bene al Pd, fino a quando è il Pd, ma se diventa il PdR, il partito di Renzi, non gli voglio più bene”. E ancora: “Non so se andremo domenica all’assemblea”. Posizione pubblica che lascia aperta la via di una trattativa, qualora Renzi volesse, ma che in caso contrario significa: siamo pronti.

Pronti a fare un nuovo partito. Questa è la seconda parte della discussione. Dopo il “quando”, il “che cosa”. E il che cosa non è una cosa rossa, minoritaria e di testimonianza, ma una costituente di centrosinistra, ulivista, con i moderati dentro. Da far nascere prima delle amministrative, con l’obiettivo poi di raccogliere dopo i cocci del Pd. Insomma, un’Opa sullo scontento che c’è in giro nel partito, dopo anni di renzismo. Torino, Roma, Napoli. Il cellulare di Stumpo ha ripreso a suonare come quando era responsabile dell’organizzazione della Ditta. Dice un big: “Renzi ha fatto due errori. Ha sottovalutato Bersani e la sua capacità di rottura scambiando buon senso con arrendevolezza, e pensando che prevalessero i vecchi rancori comunisti tra lui e D’Alema. Ha pensato che Rossi non si sarebbe candidato. Ha sottovalutato Emiliano”. Ora la scissione è servita. Quattro giorni per evitarla. Altrimenti sarà annunciata sabato, a Testaccio, core di Roma.
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Dario Franceschini in campo tra Renzi e Bersani: “No agli strappi. E non si dica ‘voto’ senza legge”. Calenda isolato nel governo

Quando nel Pd il gioco si fa duro, quando volano gli stracci e tutto sembra crollare, scende in campo Dario Franceschini. Il ministro dei Beni Culturali media tra Matteo Renzi e Pierluigi Bersani, tra l’opzione ‘voto a tutti i costi entro giugno’ e l’opzione ‘prima il congresso e poi il voto nel 2018’. Franceschini non parla di date. Dice che soprattutto bisogna pensare a “come” si arriva al voto. E non si può dire “voto” senza prima aver compiuto tutti i passaggi fondamentali per arrivarci per bene: la legge elettorale e il cammino più consono all’unità nel Pd.

Tutto questo Franceschini lo spiega al Corriere della Sera in un’intervista che esce domani, a 24 ore da quella del ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda, convinto sostenitore del no al voto anticipato. Ecco, una cosa per ora è chiara: Calenda è isolato nel governo. Nemmeno Franceschini gli dà sponda. Tantomeno Graziano Delrio, uno dei ministri rimasti ancorati fino in fondo alla linea del segretario del Pd. “E’ vero che ci sono delle emergenze, Calenda ha ragione, ma un governo come questo può affrontare queste emergenze? – dice Delrio ospite di Bianca Berlinguer su Raitre – Serve un governo legittimato per questo e le elezioni fanno parte delle democrazie”.

Franceschini non è così ‘schiacciato’ su Renzi. E ci tiene anche a togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Pensa che sia un successo essere riusciti a “parlamentarizzare” la discussione sulla legge elettorale dopo la sentenza della Consulta sull’Italicum. Un successo, visto che invece la prima reazione del segretario del Pd è stata “andiamo al voto, la legge c’è”. Non c’è ancora, sostiene Franceschini, convinto in questo di avere un forte assist al Colle da Sergio Mattarella. E dunque bisogna che il Parlamento ci lavori: partenza il 27 febbraio alla Camera, c’è un mese di tempo per farsi trovare pronti all’appuntamento.

Insomma, non si può parlare di voto senza prima aver effettuato questi passaggi, è il ragionamento di Franceschini. E’ questa la stoccata a Renzi, il freno all’ansia del segretario di correre alle urne. Un freno che sia Franceschini che Orlando si sono premurati di comunicare a Renzi negli incontri di questi giorni.

L’obiettivo è stabilire una tregua nel Pd, intanto. “Procedere senza strappi”, dice Franceschini nel tentativo di riacchiappare sia Bersani e le sue minacce di scissione che Renzi e la sua fissazione di andare al voto entro giugno, costi quel che costi.

Il quadro sembra così ricomposto. Per ora. Time out per i pasdaran di entrambi i fronti. Anche Paolo Gentiloni isola Calenda: “Posizione personale”. Pur sottolineando che “non sono io a decidere la durata della legislatura: spetta al Parlamento, al presidente della Repubblica, alla dialettica tra le forze politiche alle quali guardo con il massimo rispetto”, specifica il premier.

Ma Calenda lascia una scia. I bersaniani guardano a lui come possibile nuovo leader. Più volte Bersani ha espresso apprezzamenti sul ministro, i contatti tra Calenda e l’ex segretario hanno finito per rovinare i rapporti con Renzi. Ma soprattutto tra i parlamentari Pd prevale la convinzione che dietro Calenda e il suo no al voto anticipato ci sia un pezzo di mondo imprenditoriale. Nello specifico il capo di Confindustria Vincenzo Boccia.

Del resto Calenda viene da lì, creatura di Luca Cordero di Montezemolo, arrivato in politica con Monti e Scelta civica, promosso da Renzi ambasciatore nell’Ue e poi ministro al posto della Guidi. Poi la fine dell’idillio. E ora i bersaniani lo ‘pesano’ come possibile ‘nuovo Prodi’. Già prima del referendum costituzionale, il suo nome girava come possibile premier dopo Renzi in caso di sconfitta. I renziani invece approfondiscono i propri sospetti su di lui. Per niente sorpresi dalla sua intervista al Corriere, ora però si chiedono se dietro non ci siano anche quei poteri europei che chiedono all’Italia una manovra correttiva e che quindi non vedono di buon occhio il voto anticipato.
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Matteo Renzi alla ricerca della pax referendaria. Mano tesa a: Cgil, agricoltori, destra, Bersani… Solo con D’Alema e Di Maio…

“Siccome oggi è il compleanno di Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani facciamo un applauso a tutti e due. Sono nati nello stesso giorno. E siccome ieri abbiamo chiuso il primo accordo sulle pensioni, mi voglio allargare: oggi è anche il compleanno della Cgil. Compie 110 anni”. Sì, è Matteo Renzi che parla, ma quello ‘buono’: il lato (inedito) che ha deciso di utilizzare per cercare la pax referendaria in vista del fatidico 4 dicembre.

Passata l’estate, la strategia inclusiva pensata già a luglio diventa realtà. Il premier si tuffa nella campagna referendaria per il sì, pancia a terra e giri per le città, gesti studiati anche a Palazzo Chigi e annunci che cercano una cosa sola: pace e voti in vista del 4 dicembre. Renzi ha deciso di sfrondare l’albero dei nemici storici. Magistrati e sindacalisti in primis. Non li attacca più. Anzi li ‘abbraccia’ ogni volta che può per legarli al sì nel giorno che stabilirà il destino della sua carriera politica.

Nel mirino, che ormai serve solo a lanciare fiori metaforici e giammai cannonate al vetriolo, c’è persino lei: la vituperata Cgil. Già due mesi fa, il premier ha pianificato la sua strategia di ‘corteggiamento’, annunciando già allora la nuova e inedita fase di concertazione con i sindacati sulle pensioni. “Ma poi decide il governo”, diceva allora. Frase puntuta, nei mesi arrotondata, fino a svanire. Non a caso.

Ieri è arrivato l’accordo sulle pensioni, oggi Renzi se lo rivende ricordando da galantuomo il compleanno della Cgil a Perugia, in una delle ormai numerosissime tappe di campagna elettorale. Vero è che a luglio con i suoi non pensava che la Cgil si sarebbe schierata per il no al referendum, cosa che invece è successa. Ma poco importa. Con l’estensione della quattordicesima, il premier pensa di aver conquistato una buona fetta di pensionati, il grosso degli iscritti alla Cgil.

Con i magistrati la storia è un po’ diversa, ma il filo strategico è lo stesso. Martedì sera, in conferenza stampa dopo il consiglio dei ministri, Renzi parla del disegno di legge sul processo penale, quello che accorcia i tempi di prescrizione di reati come la corruzione. Testo fermo da tempo al Senato, eppure il premier non è ancora convinto di metterci la fiducia. “Noi abbiamo fatto delle regole che secondo me sono buone – dice – ma io ci penso su due volte a mettere la fiducia su una cosa che Davigo definisce provvedimenti dannosi o inutili, su atti della giustizia che vogliono aiutare i magistrati, con i magistrati che dicono che sono dannosi. Tendenzialmente escludiamo il voto di fiducia”. Vero è che il presidente dell’Anm ha espresso critiche sul testo. Ma è vero anche che il testo è fermo in Senato per le critiche dei centristi di Verdini e di Alfano. Tuttavia, il premier prova comunque a fare bella figura con i magistrati. Ci prova.

E poi c’è il resto. Oggi per dire è andato alla giornata nazionale dell’extravergine italiano organizzata dalla Coldiretti a Firenze. E annuncia: “Nel quadro economico del Def a cui seguirà la legge di stabilità del 15 ottobre abbiamo previsto che la parte di Irpef agricola che pagate sia cancellata a partire dal 2017″. Chissà se la platea si convince. Si direbbe di no, a giudicare dai fischi partiti all’indirizzo del palco quando il segretario generale Vincenzo Gesmundo schiera l’associazione sul sì al referendum. Però Renzi ci prova.

Come ha provato a incontrare gli ambientalisti e varie categorie professionali subito dopo il terremoto per esporre il piano di prevenzione anti-sismica ‘Casa Italia’. Un’intera giornata di ‘udienze’ a Palazzo Chigi, insieme al project manager Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano. Dovevano rivedersi entro la fine di settembre, però. Ma ancora non c’è traccia dei nuovi incontri.

E poi Renzi prova ad adescare l’elettorato di destra con la storia del Ponte sullo stretto. E’ la destra degli imprenditori che ha in mente. Tenta di riportarli alla sua ragione dopo aver perso la scommessa con i moderati alle scorse amministrative, quando si è scoperto che da destra molti voti sono andati al M5s. Ad ogni modo oggi difende la scelta. A Perugia dice: “I voti di destra? Chi non li prende resta minoranza…”.

Quelli che proprio lo fanno imbestialire, quelli con i quali non tenta strategie di seduzione, anzi continua a usare tattiche di attacco, sono Massimo D’Alema e Luigi Di Maio, evidentemente persi alla causa. “D’Alema – dice a Perugia – sui punti della riforma, per storia personale, è totalmente d’accordo. Ma siccome ha come obiettivo la distruzione di una persona e di un’esperienza, fa la sua battaglia. Auguri. D’Alema è un esperto di lotta fratricida in casa. Citofonare Romano Prodi e Walter Veltroni per sapere di che stiamo parlando. Se si fosse impegnato a combattere il centrodestra quanto ha combattuto i suoi compagni di partito, questo Paese sarebbe diverso”.

Quanto a Di Maio, la prende dal no alle Olimpiadi, sancito oggi dal voto dell’assemblea capitolina. Ma non attacca Virginia Raggi, fedele alla scelta di non attaccare un “sindaco eletto” che i renziani considerano in crisi nei rapporti con il movimento. Renzi invece attacca Di Maio: “Qualcuno dice che i soldi delle Olimpiadi li destineranno alle periferie. Mi auguro che ci sia qualcuno che li aiuti e li riporti alla ragionevolezza perché i soldi delle Olimpiadi, per definizione, vanno dove si fanno le Olimpiadi. Non è difficile. Anche senza email, questo basta un sms e si capisce”. Il riferimento è all’email della Raggi sulle indagini giudiziarie a carico dell’assessore capitolino Muraro, che Di Maio dice di non aver letto bene.

Domani sera negli studi di Enrico Mentana su La7, Renzi terrà l’atteso faccia a faccia con il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, alfiere del comitato del no. Ma con lui l’intento non è l’attacco, bensì il merito della riforma. Avanti così in una inedita tattica diplomatica fino al 4 dicembre. Passando per l’appuntamento clou della campagna del sì: la Leopolda edizione 2016, fissata nel weekend 18-20 novembre, a due settimane esatte dal referendum.
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