Asse Trump-May all’ombra di Churchill: “Ridiamo prosperità ai nostri popoli”

Chissà cosa direbbe il povero Winston Churchill a vedere il suo busto lì, sullo sfondo delle foto che immortalano l’incontro tra il presidente Usa Donald Trump e la premier britannica Theresa May. Chissà cosa direbbe nel vedere i due leader stringersi la mano e lanciare un nuovo atlantismo di fronte al suo volto di pietra, appropriandosi di quella “special relationship” fino a distorcerla e farle cambiare completamente segno. Già, perché c’è del paradossale nell’usare come simbolo di questo patto proprio l’uomo che guidò il Regno Unito nella Seconda guerra mondiale per salvare l’Europa ed estendere i valori democratici oltre i confini del proprio Paese.

Così, nell’epoca della post verità e dei “fatti alternativi”, Churchill si ritrova addirittura raddoppiato nella Casa Bianca di Donald Trump: oltre al busto originale che il neo presidente ha voluto riportare nello Studio Ovale il giorno del suo insediamento, c’è un secondo busto che May ha consegnato – in prestito – a Trump per suggellare il nuovo giro di walzer della “speciale relazione” tra Washington e Londra. Peccato che, nell’ottica di Churchill, quella relazione aveva ben altri orizzonti rispetto ai nazionalismi e alle chiusure su cui oggi i due leader convergono. Il neo atlantismo che interessa a Trump e May non ha nulla di quei valori e quegli ideali, e a noi non resta che solidarizzare con il povero Churchill, che si ritrova tirato per la giacca in un quadretto da cui si sarebbe verosimilmente sfilato.

Dopo le strette di mano, la conferenza stampa, la prima di Donald Trump dal giorno del suo insediamento. Si parte dalla “relazione tra Stati Uniti e Regno Unito”, che “non è mai stata così forte”. Il Regno Unito – scandisce Trump – “ha diritto all’autodeterminazione. Il popolo britannico indipendente è un fatto positivo per il mondo”. La Brexit? Trump si dice certo che “sarà una cosa fantastica per il Regno Unito”. Davanti a noi e ai nostri popoli ci sono giorni grandiosi”, assicura. La sintonia tra il presidente Usa e la premier britannica passa anche dal colore: per il loro primo incontro alla Casa Bianca entrambi scelgono il rosso fiammante, quasi a voler sottolineare anche dal punto di vista cromatico il carattere deciso delle loro politiche. Politiche il cui imperativo è lo stesso: “ridare prosperità ai nostri popoli”, dichiarano durante la conferenza stampa congiunta.

Entrambi i leader esprimono la volontà di stringere accordi commerciali bilaterali, pur sapendo che non potranno essere avviati fino a quando non sarà finalizzata l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Sui rapporti commerciali, May evidenzia “l’ambizione” di dare prospettive alle rispettive economie facilitando il commercio tra le aziende dei due Paesi e di “approfondire” la relazione tra Uk-Usa specialmente ora che il Regno Unito sta lasciando l’Unione Europea.

La premier Tory sembra venuta a Washington anche ad attutire qualcuno degli acuti di Trump, proponendosi in cambio di intercedere ancora presso i partner europei. Così sulla Nato da una parte rassicura che Trump le ha confermato di essere “al 100% a favore dell’Alleanza”. E dall’altra promette la prima linea nell’esortare i partner atlantici a far fronte alle proprie responsabilità finanziarie, rispettando il 2% della spesa per la difesa.

Lotta all’Isis, Siria, Russia e rafforzamento delle relazioni commerciali tra Regno Unito e Stati Uniti. Questi i temi toccati nel corso del vertice, culminato in una conferenza stampa brevissima rispetto all’era Obama. Sulle sanzioni a Mosca May ribadisce che per sollevarle la precondizione è la piena attuazione degli accordi di Minsk sulla crisi ucraina, seguita dall’ammissione di Trump che è “troppo presto per parlarne con la Russia”.

Le divergenze certo non mancano. “Abbiamo parlato di molti temi, e continueremo a farlo in queste ore. Certo ci saranno delle divergenze su alcuni argomenti ma il punto importante nel rapporto che abbiamo è quello di avere un dialogo aperto e schietto”, afferma la premier. Rispondendo a una domanda su eventuali preoccupazioni in merito alle affermazioni di Trump in materia, ad esempio, di tortura o di aborto, May se la cava così: “Confermo che Trump mi ha ascoltato e io ho ascoltato lui, ed è questo lo scopo di un vertice bilaterale”. “Voglio essere chiara – assicura – ci sono molte questioni su cui Usa e Gb lavorano mano nella mano, ci sono molti punti di convergenza, ora possiamo partire per potenziare la nostra relazione, non solo negli interessi dei nostri Paesi ma di tutto il mondo”. Sotto lo sguardo di pietra di Churchill, le differenze si appianano e si pensa già al prossimo incontro. May, infatti, ha inviato ufficialmente la first couple a Londra per conto della regina Elisabetta II. La visita si terrà “più avanti entro il 2017”, quando il Regno Unito dovrebbe aver già avviato i negoziati per uscire dall’Ue. Allora sì che sarà più chiara l’influenza di questa “special relationship” su un’Europa che rischia di essere sempre più disgregata.

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Matteo Renzi apre la fase due: Mattarellum e voto subito con primarie di coalizione. Asse con Delrio

La “fase zen”, come la definisce lui stesso, è durata solo un paio di settimane. Solo due domeniche fa Matteo Renzi era furioso per la sconfitta referendaria, deluso e confuso. Oggi davanti all’assemblea nazionale del Pd ripete: “Abbiamo straperso”. I delegati salutano con applausi e standing ovation i passati mille giorni di governo, che finiranno in un “libro documento”, dice lui. Analisi della sconfitta qui e là, “abbiamo perso al sud, tra i giovani e sul web”, praticamente tutto. Ma il segretario, pur con volto provato e all’inizio anche un po’ dimesso, è qui all’Ergife di Roma per rilanciare. Come se fosse stato appena eletto leader del Pd, come se alle spalle non avesse una storia di 3 anni al governo che lo hanno portato dal 40,8 per cento delle europee del 2014 al collasso politico.

Ad ogni modo, basta con lo zen e niente congresso anticipato del Pd. Bensì urne anticipate alla primavera, massimo giugno. Con la nuova parola d’ordine: Mattarellum. Un obiettivo per il quale il segretario conta su un rinnovato asse: con Graziano Delrio.

Mentre Renzi parla, un’oretta di relazione che cambia verso al renzismo dalla vocazione maggioritaria all’ottica di coalizione, Paolo Gentiloni siede al tavolo della presidenza. Il segretario non lo dice chiaramente, ma la sua è una chiamata al “voto subito”. Il neo-premier lo sa. E comunque ci pensa Delrio a dirlo: “Trovo omissiva la tua relazione, Matteo: il voto di domenica 4 dicembre ha detto che gli italiani vogliono andare a votare presto…”.

Un gioco delle parti. Significa che i renziani ortodossi, categoria nella quale ora il segretario stesso ascrive Delrio addirittura come ‘capo’ di questa componente, si muovono per riportare il paese alle urne al più presto possibile. E’ la nuova fase di Renzi: il giglio magico Boschi-Lotti è saldamente piazzato al governo Gentiloni. Ma il nuovo corso si chiama Delrio. “Il Pd ha bisogno di una terza via tra capitalismo e populismo – dice il ministro parlando all’assemblea – Noi l’abbiamo studiata ma non abbiamo dato una risposta sufficiente. Grazie Matteo per aver detto di voler ripartire da un ‘Noi’. Benissimo la conferenza programmatica proposta da Epifani, che parte dal basso per essere in sintonia con la pancia del Paese non per assecondarla…”.

Dalla vocazione maggioritaria alla coalizione di centrosinistra. Mattarellum vuol dire questo. E per Renzi è un inedito assoluto. Tuttavia, dopo il fallimento delle riforme costituzionali e dell’Italicum con il suo premio di lista addirittura, il segretario Pd non si rassegna al proporzionale: vanificherebbe la sua leadership. Ed è convinto di incrociare un mood prevalente tra gli elettori: andare al voto subito ma non con un ritorno al ‘Pentapartito’. Lo dice: “Eravamo a un passo dalla terza repubblica, siamo tornati alla prima e senza la qualità della classe dirigente della prima….”.

Con i suoi insiste: “Noi diciamo maggioritario. Chi vuole il proporzionale, lo dica, ma a viso aperto”. E’ una sfida al M5s e a Berlusconi, dal quale non si aspetta un sì convinto e subito. Mentre Salvini invece fa già sapere che a lui il Mattarellum piace: convincerebbe l’ex Cavaliere a fare l’alleanza con la Lega e a non giocare in proprio. Ma soprattutto quella di Renzi è una sfida anche nel partito. “Vogliamo giocarci l’ultima possibilità di maggioritario o scivoliamo nel proporzionale? Il Pd faccia chiarezza”.

Renzi resta guardingo mentre si susseguono gli interventi dal palco dell’Ergife. C’è Andrea Orlando che marca la distanza e critica un ritorno alle “soluzioni anni ’90”. C’è Dario Franceschini che dice sì al Mattarellum, ma in realtà immagina un orizzonte temporale più lungo per il governo Gentiloni. Cioè urne sì, ma non a primavera. C’è Gianni Cuperlo che preferirebbe “un congresso” prima di andare al voto. Francesco Boccia: “Dove l’abbiamo discusso il ritorno al Mattarellum? Si va al voto quando Mattarella lo riterrà”. Paradossalmente, l’unico sostegno senza subordinate al Mattarellum arriva dall’anti-renziano Roberto Speranza, poi attaccato con toni alquanto coloriti dal renziano Roberto Giachetti. Alla fine bersaniani e cuperliani non partecipano al voto, ma l’assemblea approva: 481 sì, 2 no e 10 astenuti.

Il grosso del Pd gli dice sì non per convinzione ma per mancanza di alternative. Secondo i sondaggi, infatti, Renzi è ancora l’unico leader del campo Dem. Ed è questo che gli dà la possibilità di immaginare già da ora la via del suo prossimo futuro: primarie nei gazebo per votare il premier del centrosinistra e tornare al voto al più presto.

Come convincerà il grosso dei gruppi parlamentari? Lui, dall’alto del suo ruolo di segretario ma non parlamentare e per questo senza stipendio, pensa di farlo battendo sul tasto vitalizi: maturano a settembre, non si vorrà mica alimentare il sospetto secondo cui i parlamentari Pd vogliono aspettare la pensione prima di sciogliere le Camere? “Banale ogni considerazione sul vitalizio dei parlamentari…”, sottolinea non a caso Renzi in assemblea: quasi un inciso, destinato a diventare un mantra se sarà il caso. Ad ogni modo con i gruppi ci sarà un primo momento di discussione il 28 gennaio, 4 giorni dopo l’udienza della Consulta sull’Italicum.

E poi, è l’altra sua argomentazione, con il caos sulla giunta Raggi, il M5s ora è ai minimi storici, debolissimo: meglio che il Pd approfitti e apra la corsa alle urne subito.

“Guardo con molto interesse a ciò che Giuliano Pisapia sta costruendo”, dice il segretario all’assemblea Dem. L’ex sindaco di Milano, schierato sul sì al referendum, è uno dei punti di riferimento della ‘costruenda’ coalizione che Renzi ha in mente. Pisapia come candidato alternativo a delle primarie che potrebbero anche includere un’altra personalità del Pd: esattamente come è successo quattro anni fa, quando fu Renzi a sfidare Bersani e perdere, nelle primarie cui parteciparono anche Vendola, Tabacci e Puppato.

La nuova fase è lanciata. I tre anni di governo sono già solo un ricordo sfocato. “Non ho visto la politicizzazione del referendum”, ripete Renzi. Per lui è questo il vero motivo della sconfitta: il referendum è andato perso perchè sigle diverse e opposte si sono coalizzate nell’anti-renzismo, pur senza avere una proposta politica comune. “Se voto politico è quel 59 per cento di no, non sottovalutino il voto politico del 41 per cento di sì con cui dovranno fare i conti…”, avverte. Sul perché si sia creata questa strana coalizione, solo accenni. Troppo “notabilato” al sud, sconfitta tra i “giovani disincantati”, nelle periferie: letture più che analisi.

Ma è quanto gli basta per lanciare l’appello all’unità del Pd: “Non siamo un club di correnti dove ciascuno si costruisce una strategia personale, non torneremo ai caminetti: siamo il Pd che, se si fa un selfie, si vede che ha preso una bella botta…”. Per ora il Pd non si scinde, intrappolato dalla leadership di Renzi.
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