”Ciociaria Oggi” compie trent’anni e li festeggia alla grande ripercorrendoli passo dopo passo.

La storia di un giornale che per arrivare fin qui è dovuto passare attraverso tante burrasche ma che continua ad essere un preciso punto di riferimento per il "suo" territorio. 

Il Grand Hotel "Palazzo della Fonte" è stato il palcoscenico ideale per la grande festa che, giustamente, "Ciociaria Oggi" si è voluta concedere per ripercorrere, passo passo, gli ultimi tre decenni che l’hanno vista protagonista nella provincia di Frosinone.

 

Una festa per ribadire la sua presenza sul territorio, una piccola gioiosa pausa prima di ripartire alla conquista dei prossimi trent’anni; eh sì, come tutti i giornali di carta anche "Ciociaria Oggi" dovrà fare i conti con la concorrenza del web però, grazie ad un imprenditore visionario, ma anche molto pragmatico, potrà farlo avendo a disposizione i mezzi necessari per gestire la non facile transizione.

Tre anni fa le cose non stavano andando molto bene per i giornale che nel 1988 fu fortemente voluto da Giuseppe Ciarrapico (in qualità di gestore delle terme di Fiuggi veniva chiamato il re delle acque) la leggenda narra che l’idea di una testata locale gli venne a New York constatando che un giornale cittadino riusciva a vendere molto pur trovandosi nella roccaforte del "New York Times".
Ciarrapico, che fu poi anche senatore del PDL, profuse tutto il suo impegno e mise in campo molte risorse per portare al successo "Ciociaria Oggi".

 

Nel 2015, dopo circa 10 anni in cui la testata si era trovata costretta a navigare a vista, un altro uomo, parimenti innamorato della Ciociaria, Valter Lozza, dopo aver verificato che il giornale poteva contare su una squadra collaudata di professionisti dell’informazione, decise di tentarne il rilancio per restituirgli un ruolo di primo piano nella provincia di Frosinone e non solo.

I numeri attuali, presentati nel corso della festa dei trent’anni, dimostrano che "Ciociaria Oggi", potendo disporre dei mezzi necessari, di nuove tecnologie e adeguati piani di marketing, è tornato ad assumere un ruolo di primo nel suo territorio di riferimento.

 

Come detto i tempi non sono facili per nessun giornale cartaceo e lo sanno bene le più importanti testate nazionali che hanno dovuto fortemente ridimensionarsi a causa della drastica riduzione delle copie vendute, oggi fino al 70% in meno rispetto a 10 anni fa; solo pochissime hanno saputo recuperare una parte dei lettori persi con gli abbonamenti online.

Tuttavia, e questo è confortante, ci sono delle realtà come "Ciociaria Oggi" che sembrano essere riuscite ad invertire la tendenza ma, essendo consapevoli che questo "limbo" non potrà durare a lungo, stanno mettendo in campo sia risorse che professionalità di livello, quali quella, nello specifico, di Massimo Pizzuti, editore che sa il fatto suo.

 

Auguri dunque a "Ciociaria Oggi" e a tutti i colleghi che vi lavorano con entusiasmo, senza il quale, è bene ribadirlo, non si sarebbero potuti conseguire i risultati attuali.

 

Nella foto: da sinistra Massimo Pizzuti e Valter Lozza

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David alla carriera a Roberto Benigni: “La vita è bella me lo ha detto il cinema. Questo premio è di Nicoletta”

“La vita è bella me lo ha detto il cinema. Il premio è di Nicoletta”. Standing ovation per il regista e attore Premio Oscar Roberto Benigni, vincitore del David di Donatello alla Carriera. A consegnarglielo, tra gli applausi scroscianti della platea, il regista Giuliano Montaldo, presidente ad interim dell’Accademia del Cinema Italiano.

“È un premio che mi scalda il cuore e in una serata come questa, con una platea che neanche il Papa a San Siro, mi inorgoglisce ancora di più”, ha detto il comico toscano. “Il cinema rende il mondo meno estraneo e nemico, è l’arte della vicinanza”, ha ricordato nel suo speach che è stato un vero e proprio inno alla Settima Arte e all’amore. Dopo aver ricordato che “la vita è bella- me lo ha detto il cinema” e che “il cinema italiano è il più grande del mondo”, Benigni, visibilmente emozionato, ha voluto dedicare il premio a sua moglie, Nicoletta Braschi. “Il premio appartiene a lei, perché è da sempre al mio fianco, e mi piacerebbe che sia lei a dedicarlo a me”.
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Legge elettorale, nuovo rinvio alla Camera. I lavori in commissione procedono a rilento e l’approdo in aula slitta ancora

Nulla da fare per la riforma della legge elettorale, che registra l’ennesimo rinvio alla Camera. L’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, infatti, ha preso atto che l’esame della riforma non potrà terminare entro lunedì 27 marzo, data in cui è calendarizzata in aula, e ha concordato di inviare una lettera alla presidente della Camera, Laura Boldrini, per comunicare l’impossibilità dell’approdo in aula la settimana prossima.

Il presidente della commissione, Andrea Mazziotti, ha auspicato che a partire da domani, “ci sia un dibattito concreto” sulla riforma e non “solo sulle rispettive proposte di bandiera”, in modo da arrivare “al più presto” a un testo base che consenta di fissare la data per la presentazione degli emendamenti. Durante la seduta del pomeriggio, Mazziotti ha concluso l’illustrazione sulle proposte di riforma, che intanto sono arrivate a 29: oggi si sono aggiunte quelle a firma Valiante, La russa, Lupi e Costantino.

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Ivanka Trump avrà un ufficio alla Casa Bianca e potrà accedere a diverse informazioni riservate

Il ruolo di Ivanka Trump nell’amministrazione di suo padre sta diventando sempre più importante. Sebbene non abbia alcun incarico pubblico ufficiale, la figlia del presidente sta allestendo un nuovo ufficio personale nell’Ala ovest della Casa Bianca.

Secondo quanto riporta Politico la figlia più grande di Trump, non soltanto avrà un nuovo ufficio nella “West Wing”ma presto potrà anche accedere a diverse informazioni riservate. Inoltre Ivanka avrà a disposizione alcuni dispositivi di sicurezza tra cui computer e cellulari rilasciati dal governo statunitense. Questo farà di lei sostanzialmente un membro a tempo pieno dello staff di suo padre anche se non percepirà uno stipendio.

Un’altra indiscrezione lanciata dal New York Times sostiene che Ivanka si stia preparando per un nuovo ruolo alla Casa Bianca e avrebbe così deciso di cedere il controllo del suo marchio di moda a Abigal Kleim , attualmente presidente dell’azienda, e di intestare il patrimonio ad alcuni parenti di suo marito così da evitare potenziali conflitti di interesse.

Da quando Donald Trump si è insediato il ruolo di Ivanka alla Casa Bianca è sempre stato un grande punto interrogativo, suo marito Jared Kushner è consigliere ufficiale del presidente e la primogenita del presidente ha partecipato a diversi incontri ufficiali compreso quello di pochi giorni fa con la cancelliera tedesca Angela Merkel.

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Space X invierà due turisti spaziali attorno alla luna a fine 2018. Elon Musk: “Hanno già pagato parte del viaggio”

Elon Musk accelera sul turismo spaziale. Il miliardario visionario fondatore di Tesla e SpaceX invierà nello spazio, intorno alla Luna, due privati cittadini nel 2018. I due turisti spaziali si faranno carico delle spese e hanno già lasciato un “deposito significativo”, afferma Musk senza scendere nel dettaglio sui costi. Sono “simili”, si limita a dire, a quelli di una missione con equipaggio all’International Space Station.

I preparativi per i due, di cui non sono stati diffusi i nomi, inizieranno più avanti nel corso di quest’anno, con le visite mediche e l’addestramento necessario per un viaggio di una settimana nello spazio, per un totale fino a 682.000 chilometri da percorrere.

La missione ‘privata’ apre una nuova frontiera nel turismo spaziale e riaccende l’attenzione sulla Nasa. Alcuni osservatori mettono in evidenza i rischi a cui si espone Musk con l’accelerazione. Altri esperti invece ritengono l’annuncio tempestivo. Fra questi ultimi c’è Phil Larson, ex consigliere per le politiche dello spazio di Barack Obama. Con l’amministrazione Trump che deve decidere cosa fare della Nasa e del suo programma, l’annuncio di Musk “mostra che l’industria spaziale commerciale americana è pronta ad andare oltre l’orbita bassa della terra non in dieci anni ma ora” afferma Larson.

La missione di SpaceX nel 2018 potrebbe arrivare prima che la Nasa abbia una nuova chance di andare sulla Luna. La Nasa sta considerando la possibilità di accelerare lo sviluppo del Space Launch System e di Orion, valutando l’introduzione di astronauti nel primo lancio. Con Donald Trump alla Casa Bianca l’agenzia spaziale americana potrebbe muoversi più velocemente che in passato: il presidente ha infatti espresso il proprio appoggio a un programma spaziale più ambizioso, dicendosi pronto a “essere pronto a liberare i misteri dello spazio”.

Fra SpaceX e la Nasa, che hanno un contratto che le lega, non c’è però alcuna competizione, mette in evidenza Musk. “Siamo a favore di qualsiasi cosa favorisca l’esplorazione dello spazio. Quello che è importante e avanzare l’esplorazione e superare quanto raggiunto dal programma Apollo nel 1969, e avere un futuro nello spazio che possa ispirare”.
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Lo stress ferma ancora Virginia Raggi, ricoverata. Poi va alla riunione sullo stadio. Verso accordo su Tor di Valle

Si va verso la chiusura dell’accordo: lo Stadio della Roma si farà a Tor di Valle. Campidoglio e società sarebbero arrivati a un punto d’incontro per un taglio di circa il 50% delle cubature previste e una riduzione proporzionale delle operte pubbliche. La società a questo punto potrebbe però chiedere il rinvio della conferenza dei servizi aperta presso la Regione di un mese per la definizione dei dettagli del progetto. Al tavolo con l’amministrazione capitolina siedono il costruttore Luca Parnasi e il ds della Roma Mauro Baldissoni, in rappresentanza del presidente James Pallotta.

La giornata è stata di quelle tormentate. Proprio nella giornata clou, quella in cui era attesa alla sua grande prova sullo Stadio della Roma, Virginia Raggi è stata e per tante ore si è pensato anche che potesse restare ricoverata all’ospedale San Filippo Neri dove è arrivata questa mattina intorno alle nove. L’incontro con la società, con i proponenti, si fa o non si fa? La domanda è rimbalzata per tutto il giorno. “Voglio essere presente alla riunione e dovrà essere oggi come stabilito”, andava ripetendo il sindaco di Roma mentre i medici hanno controllato per nove ore il suo stato di salute.

Si è trattato di un malore improvviso, forse dovuto allo stress. E non è il primo per Virginia Raggi, che già una volta in questi mesi si era recata in ospedale per accertamenti ed è svenuta durante l’interrogatorio, davanti ai pm, nell’ambito dell’inchiesta sulle nomine. “Sono stati eseguiti gli accertamenti clinici e diagnostici necessari e non sono state riscontrate alterazioni significative”, hanno sottolineato i medici nel bollettino. Adesso “le condizioni cliniche appaiono in netto miglioramento. Il Sindaco verrà mantenuto regolarmente in osservazione per valutare la sua dimissibilità nelle prossime ore”.

Questo intorno all’ora di pranzo. Poi il Campidoglio contatta i proponenti dello stadio per chiedere di spostare la riunione dalla 16 alle 19, segno che la sindaca vuole essere presente e che è fuori pericolo. Infatti intorno alle 18 Raggi viene dimessa e lascia l’ospedale insieme al suo vice Luca Bergamo che intanto l’ha raggiunta per decidere la linea da tenere con la società durante la riunione. Tra l’altro è lo stesso ex marito della sindaca, che è andato a trovarla, ad annunciare ai cronisti che il sindaco avrebbe con ogni probabilità partecipato all’incontro: “Sicuramente non è una vita facile questa, però piano piano si sta riprendendo. È un po’ magra, dovrebbe mangiare di più”.

Arrivata a Palazzo Senatorio il sindaco si chiude in una riunione fiume con i consiglieri mentre la società aspetta di incontrarla. Sul fronte dei proponenti, resta sul tavolo la contrarietà a ogni ipotesi di ubicazione alternativa dello stadio, rispetto al progetto approvato dalla giunta Marino, protocollato come di pubblica utilità e approdato in quanto tale in conferenza dei servizi. Nelle ultime ore, la diplomazia ha incessantemente lavorato a un compromesso sulla cubatura delle ormai famose torri di Libeskind, cercando di non pensare alle frasi con cui, in sostanza, Beppe Grillo ha accolto le tesi dall’ala ortodossa del Movimento, contraria in toto al progetto attualmente sul tavolo della sindaca Raggi.

La carta giocata oggi dalla As Roma e dal costruttore Parnasi, oltre al “controsondaggio”, è stata quella di chiamare a raccolta i tifosi organizzati facenti capo all’Unione Tifosi Romanisti (non gli ultrà, quindi), che si sono dati appuntamento (non moltissimi) in piazza del Campidoglio per intensificare il pressing sulla Giunta nel senso del sì allo stadio, intonando slogan a favore del progetto e contro la sindaca. Una manifestazione, tra l’altro, che è finita nei radar della Digos, che starebbe procedendo all’identificazione dei partecipanti attraverso le riprese a circuito chiuso, poiché a quanto pare non vi era stata alcuna richiesta di autorizzazione. Anche Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera e consigliere comunale Pd, era presente: “Mi autodenuncio per aver partecipato alla manifestazione non autorizzata dei tifosi della Roma oggi in Campidoglio. Farebbe ridere, se non fosse avvilente, leggere che – niente di meno – la Digos sia stata mobilitata per la manifestazione pacifica e non violenta dei tifosi romanisti a piazza del Campidoglio per chiedere all’amministrazione di interrompere il balletto sul progetto dello stadio”.

Un confronto difficile ed estenuante, dunque, che ormai si sta svolgendo su due piani paralleli: quello formale fatto di cifre, dati, percentuali, coordinate e quello, per ora sottaciuto, delle carte bollate, dei dossier che gli uffici legali di entrambi le parti dovrebbero avere già messo a punto per l’inevitabile guerra legale in caso di rottura.
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Michele Emiliano: “Abbiamo convinto Renzi a sostenere Gentiloni fino alla fine”

“Adesso che abbiamo convinto Renzi a sostenere Gentiloni fino alla fine della legislatura senza fargli brutti scherzi, possiamo darci il tempo di riconciliarci e trovare le ragioni per stare ancora insieme”. Lo scrive su Facebook il presidente della Puglia Michele Emiliano. E lo fa a pochi minuti dall’inizio della manifestazione della minoranza Pd a Roma, dove parleranno sul palco i tre leader anti-Renzi: Roberto Speranza, Enrico Rossi e, appunto, Michele Emiliano. Un post mattutino, quello del governatore pugliese, che può essere interpretato come un tentativo di tenere ancora aperta la trattativa fino all’ultimo con l’ex premier per evitare la scissione e, in seconda battuta, smarcarsi dalla posizione più oltranzista di Massimo D’Alema.

Ecco il post integrale:

Ieri ho detto a Renzi che basterebbe fare una conferenza programmatica a maggio e le primarie congressuali a settembre per ricomporre un clima di rispetto reciproco e salvare il PD.
Adesso che lo abbiamo convinto a sostenere Gentiloni fino alla fine della legislatura senza fargli brutti scherzi, possiamo darci il tempo di riconciliarci e trovare le ragioni per stare ancora insieme.
Questo è il lavoro che deve fare il segretario. Rimettere insieme i cocci di anni difficili per ripartire insieme.
Senza questo lavoro le distanze politiche tra noi sono troppo grandi e non basterebbe una conta per evitare anche a breve nuovi dissensi e nuovi rischi di conflitto.
Diamoci una possibilità.

Intanto Emiliano non è il solo a pensare che la scissione sia ancora evitabile. “I margini per una trattativa ci
sono”: lo ha detto il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini ai cronisti, entrando al Palazzo dei congressi a Firenze per consegnare un premio a Piero Angela.
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Donald Trump vago sul conflitto israeliano-palestinese. Stop alla soluzione dei “due Stati”, ma freno ai coloni

Il presidente americano ha gettato a mare decenni di politica estera americana dicendo che per la soluzione del conflitto israelo-palestinese gli stanno bene sia la soluzione dei “due stati per due popoli” che la confluenza dei palestinesi in uno stato unico con Israele ma ha insistito, guardando in faccia Netanyahu, che per arrivare a un accordo “è evidente” che gli uni e gli altri “dovranno accettare compromessi”.

Trump ha accolto alla Casa Bianca il premier israeliano in una giornata turbolenta per la politica americana: le dimissioni forzate del Consigliere per la sicurezza nazionale, sotto accusa per i suoi contatti con personaggi russi legati all’Intelligence di Mosca durante la campagna elettorale e nelle settimane successive al voto di novembre, hanno in qualche modo relegato in secondo piano la visita di Netanyahu ma il cerimoniale è stato modificato per soddisfare le necessità d’immagine dell’ospite. Non si era mai visto, infatti, una conferenza stampa congiunta prima dei colloqui bilaterali. La diretta, trasmessa in Israele all’ora di punta tv, voleva rafforzare Netanyahu che rischia un’incriminazione per corruzione e che appare indebolito all’interno della coalizione di estrema destra.

Trump ha ribadito il rapporto privilegiato che esiste tra Usa e Israele, ha criticato l’Onu per le sue posizioni “troppo filo-palestinesi”, e ha ripetuto la sua intenzione di arrivare a una soluzione del conflitto israelo-palestinese come aveva dichiarato più volte durante la campagna elettorale. Come? E’ la domanda che si sono chiesti molti in questi mesi. Netanyahu ha sorpreso lo stesso Trump annunciando che la Casa Bianca sta studiando un “approccio regionale” al conflitto. Ossia non più un negoziato bilaterale, peraltro fermo da anni, ma qualcosa di non specificato con la collaborazione di stati arabi mediorientali che si sono avvicinati a Israele. L’Egitto sarebbe uno di questi. L’altro, probabilmente, l’Arabia Saudita con a fianco gli emirati del Golfo. Sono paesi sunniti, alleati degli Usa che si sono avvicinati a Israele in virtù del loro comune odio per l’Iran sciita, odio condiviso da Trump sempre critico dell’accordo con Teheran sul nucleare firmato dal suo predecessore Obama. Non una parola, nella conferenza stampa, su come il presidente vede la fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est cominciata nel giugno 1967, quasi 50 anni fa.

Donald Trump subisce l’influenza di suo genero molto vicino agli ambienti dei coloni e che ha nominato consigliere speciale per il dialogo israelo-palestinese. È possibile, ascoltate le sue dichiarazioni per ora vaghe, che il presidente stia pensando a una di due delle formule avanzate dalla destra israeliana. Una vede prevede la trasformazione di Israele, con l’annessione delle Cisgiordania per creare uno stato unico dal Mediterraneo al fiume Giordano: i suoi promotori ritengono che secondo proiezioni demografiche gli arabi palestinesi resterebbero in minoranza. Proprio in queste ore, Saed Erekat, il principale negoziatore palestinese, si è detto non contrario a uno “stato unico democratico” se agli arabi venissero riconosciuto i “medesimi diritti” degli israeliani. Un’altra idea, non nuova, vede una complessa formula di confederazione tra Israele, la Cisgiordania occupata e la Giordania. Netanyahu non si è sbilanciato e, forse per paura delle reazioni negative di chi nella sua coalizione è ancora più a destra, si è rifiutato di pronunciare la frase “due stati per due popoli” che era, almeno formalmente, parte della sua piattaforma politica-diplomatica.
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Banche, l’agenzia Dbrs taglia il rating dell’Italia. Ora per gli istituti sarà più costoso chiedere soldi alla Bce

I nuovi guai per le banche italiane arrivano da Toronto e passano da una lettera, la A, che si è trasformata in una tripla B, conferita dall’agenzia canadese Dbrs al rating del debito pubblico italiano. Un declassamento che avrà un effetto immediato molto oneroso per gli istituti di credito dell’Italia: chiedere prestiti alla Banca centrale europea diventerà, infatti, più dispendioso.

L’Italia perde l’ultima A, pesano il No al referendum e l’addio di Renzi
Il rating del debito italiano è stato tagliato da A a BBB con trend stabile. Un giudizio, quello dell’agenzia canadese, che è dovuto a “una combinazione di fattori inclusa l’incertezza rispetto alla abilità politica di sostenere gli sforzi per riforme strutturali e la continua debolezza del sistema bancario, in un periodo di fragilità della crescita”. Cosa ha pesato nel giudizio? La vittoria del No al referendum costituzionale e la caduta del governo Renzi. “Dbrs – si legge in una nota – ritiene che, in seguito al referendum bocciato sulle modifiche costituzionali che avrebbe potuto fornire una maggiore stabilità di governo e la successiva dimissioni del primo ministro Renzi, il nuovo governo ad interim può avere meno spazio per passare ulteriori misure, limitando così il rialzo delle prospettive economiche”. Con il declassamento di Dbrs, l’Italia perde l’ultimo giudizio in area A espresso delle principali agenzie di rating mondiali.

Anche le debolezze del sistema bancario dietro la retrocessione in serie B
Nel giudizio di Dbrs pesa anche “la persistente debolezza del sistema bancario in un periodo di crescita fragile”. L’agenzia di rating accende un faro sul livello dei crediti deteriorati che rimane “molto elevato” tale da “compromettere la capacità del settore bancario di agire come intermediario finanziario per sostenere l’economia”. Pesano, inoltre, il rischio di elezioni anticipate e una crescita della produttività “fragile”.

Perché la A persa metterà le banche italiane in difficoltà
La Banca centrale europea concede prestiti di liquidità alle banche che ne fanno richiesta (e tra queste figurano anche quelle italiane) chiedendo tuttavia delle garanzie. Gli istituti italiani forniscono come garanzia, tra gli altri strumenti, anche i Bot e i Btp, cioè i titoli di Stato. C’è una trattenuta sul prestito e il valore di questa trattenuta, il cosiddetto haircut, dipende dal rating del Paese che emette i titoli di Stato. Basta una sola A tra le quattro agenzie di rating che l’Eurotower prende in considerazione (Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch e Dbrs) per applicare il minor taglio possibile sul prestito. Le altre tre agenzie avevano già declassato l’Italia in serie B: ora che anche l’agenzia di rating canadese ha trasformato la A in B, per le banche italiane il costo per chiedere soldi alla Bce in prestito aumenterà appunto in termini di garanzie.

Quanto costa alle banche perdere la A
Prendendo come riferimento uno studio di Rabobank, i prestiti che le banche italiane hanno chiesto alla Bce ammontano a un totale di 142 miliardi di euro. Per mantenere inalterato questo valore, le garanzie dovrebbero aumentare di circa 10 miliardi di euro. Dando in garanzia un Bot, ad esempio, in caso di scenario con rating A, la Bce trattiene solo lo 0,5 per cento, mentre in uno scenario con rating B la quota sale al 6%. Ancora più oneroso il Btp: si passa da una trattenuta del 6% a una del 13 per cento.

Il Tesoro: Nessun impatto rilevante sul debito
Fonti del Tesoro sottolineano che la decisione di Dbrs “non avrà impatti rilevanti sulla spesa per interessi sul debito pubblico”. “Potrebbero esserci degli effetti sui titoli più a breve, ma si potrà dire soltanto nei prossimi mesi”, aggiungono le stesse fonti.

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Jobs act: il lodo Amato in Consulta smina il referendum e allunga la vita alla legislatura

Passa il “lodo Amato”, che stabilizza il governo Gentiloni. Due quesiti ammessi, uno – quello sull’articolo 18, l’esplosivo vero – bocciato. Sotto la regia del dottor Sottile viene tutelato – almeno questo è l’intento – il percorso ordinato del capo dello Stato: legge elettorale e voto, senza incidenti e tensioni. Un’operazione, come anticipato dall’HuffPost nei giorni scorsi, da “artificieri” per togliere la prima mina, che avrebbe consentito a Matteo Renzi di far saltare la legislatura pur di evitare il referendum della Cgil sul jobs act.

La Corte è un campo di battaglia. Con la relatrice, Silvana Sciarra, che finisce in minoranza sull’articolo 18 e, alla fine, si dimette dal ruolo di “redattrice” della sentenza, ruolo che viene affidato al vicepresidente. La Sciarra aveva sostenuto che il referendum della Cgil andava ammesso perché lineare, abrogativo e “non manipolativo” e soprattutto sostenuto da precedenti della Corte, come il referendum del 2003. Otto a cinque, la conta finale. Con otto giudici che, di fatto, hanno accolto il parere dell’Avvocatura dello Stato sul quesito “manipolativo”. Ovvero che il quesito non si limita a cancellare le restrizioni sul reintegro ma introduce una norma ex novo. Sugli altri quesiti, voucher e appalti, nessuna tensione. Quesiti che nel Palazzo non vengono vissuti come “mine”. In questo caso l’artificiere però è il Parlamento. Perché il modo per far saltare il referendum è legiferare sui voucher. Spiega una fonte vicina al dossier: “Non è facile, ma è possibile. Il quesito della Cgil è abrogativo di tutta la norma sui voucher, dunque non basta qualche modifica. Occorre una legge dunque che abroghi la norma attuale e costruisca un altro quadro normativo, che cambi nome e disciplini quelle forme di lavoro”. Tradotto: se sul punto si torna alla legge Biagi – ci sono già proposte in commissione di Cesare Damiano – il referendum sui voucher è disinnescato.

Tornando alla Consulta, dove nella seduta odierna mancavano due giudici. Uno, Giuseppe Frigo, si è dimesso. E proprio oggi il Parlamento si è riunito in seduta comune – anche se invano – per sostituirlo. L’altro assente Alessandro Criscuolo, per ragioni di salute. Qualche giudice, favorevole alla bocciatura, si mostra infastidito per la tesi delle “pressioni politiche” sulla Consulta, che dopo la sentenza diventa l’accusa principale del segretario della Cgil Susanna Camusso. Sotto la sapiente regia di Amato otto giudici smontano l’ottavo comma di un quesito lunghissimo, sottolineando gli effetti manipolativi. Sullo sfondo la logica giuridica, secondo l’idea che la democrazia diretta non può prevaricare sulla democrazia rappresentativa con quesiti ritagliati in modo spregiudicato e con effetti sulle maxi riforme che spetterebbero alle Camere. Detta in modo grezzo: il quesito non sarebbe “abrogativo” ma “propositivo” perché l’articolo 18, per come uscirebbe dal quesito della Cgil, verrebbe esteso alle imprese con più di cinque dipendenti.

Per la Sciarra il riferimento per l’ammissibilità è la sentenza numero 41 del 2003 che dichiarò ammissibile il referendum che ampliava l’applicabilità della tutela dell’articolo 18 al di sotto dei 16 dipendenti e lo estendeva addirittura all’impresa con un solo dipendente. Identica per materia al quesito del 2016. Non solo. Entrando ancora di più nel dettaglio. Tradizionalmente l’articolo 18, ovvero la reintegra per licenziamento ingiustificato, si fermava di fronte a due soglie: quella dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali e quella inferiore a cinque per le imprese agricole. Il quesito del referendum (ammesso) nel 2003 proponeva di abolire entrambe le soglie cosicché tutte le imprese – commerciali, industriali ed agricole – anche con un solo dipendente sarebbero divenute soggette all’articolo 18. Il quesito discusso oggi fa saltare solo un limite, quello dei 15 dipendenti per le imprese commerciali e industriali, e dunque il limite sarebbe solo di 5 dipendenti come per le agricole. Ecco l’argomentazione della relatrice, finita in minoranza: che senso ha dire che quello del 2003 era abrogativo – infatti il referendum si celebrò – e questo è manipolativo? E ancora: se la Corte ha ritenuto ammissibile nel 2003 un quesito che abrogava tutti i limiti, perché non ammettere un quesito che ne elimina solo uno? Sarebbe come se la Corte smentisse se stessa.

“A nostra memoria non ci ricordiamo analoghe pressioni sulla Corte” denuncia il segretario della Cgil. “Sentenza animata da logiche politiche” dice un pezzo di sinistra fuori dal Pd. La sinistra dem, invece, invoca modifiche sulla normativa dei voucher “sennò votiamo sì al referendum”. Nella sostanza plaude al Lodo Amato perché non avrebbe portato risultati, ma avrebbe fatto saltare il governo. Lasciando anche i voucher come stanno.

Tra 15 giorni scarsi, altra sentenza della Corte sull’Italicum. Il baricentro della legislatura si è spostato in quei cento passi che uniscono palazzo Corte e Quirinale. Al voto con un percorso ordinato, aveva detto Mattarella. La prima mina è stata tolta.
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