Sole 24 ore, lo scandalo del Sole è lo specchio della crisi del capitalismo italiano e della perdita di credibilità delle élite

E poi si dice: “Oh, il populismo!”. Con lo spirito e lo stupore di chi evoca l’invasione delle cavallette. Eppure a spiegare come l’onda populista, o come si dice oggi, anti-establishment, nasce e cresce, basta questa grande storia. Uno delle architravi del sistema del paese, il giornale economico e finanziario che per decenni dalle sue pagine ha indicato (con non poca supponenza) la strada della correttezza economica, delle regole, del bene comune, si ritrova al centro di una sorta di “scandalo delle tre carte”: vedo non vedo, vendo non vendo, recupero e intasco. Parliamo della crisi del Sole24Ore, ma magari fosse solo la crisi di un giornale. In verità si tratta della punta di un iceberg del declino di Confindustria e più in generale del capitalismo italiano, o meglio di una crisi che fa emergere nuovi rapporti e la marginalizzazione del settore del business.

Il 10 novembre 2011, nel famoso numero titolato (a nove colonne) Fate presto, scriveva il direttore Roberto Napoletano, richiamandosi alla lezione di Pertini, Einaudi, Ciampi e Giorgio Napolitano: “Cari deputati e cari senatori, cade sulle vostre spalle la responsabilità politica (dico politica) di garantire all’Italia un governo di emergenza guidato da uomini credibili che sappiano dare all’Italia e agli italiani la cura necessaria ma sappiano imporre anche al mondo il rispetto e la fiducia nell’Italia”. Poi arrivò l’auspicio di altri governi di emergenza, la retorica della stabilità, all’insegna del rigorismo europeo mentre nel paese il “boom” dei Cinque Stelle non evocava affatto l’altro “boom”, ovvero il miracolo economico degli anni Cinquanta, fino a Renzi e a Sì al referendum, diventata la crociata del presidente di Confindustria Boccia, con tanto di previsioni apocalittiche del centro studi in caso di vittoria del No.

Più che una linea fondata su una visione del paese, la posizione di una lobby, culturalmente “romana” e “ministeriale”, che nel rapporto con la politica cerca di coprire la propria fragilità. Che è la fragilità di un capitalismo con poche idee, progetti, capacità di rischio e di innovazione. Una lobby “romana” che cozza col dinamismo rimasto nelle associazioni territoriali degli industriali che, proprio mentre Boccia era impegnato nella sua campagna per il Sì, firmavano il nuovo contratto dei metalmeccanici con Landini. “Padroni” duri, si sarebbe detto una volta, come nel caso di Assolombarda, ma più concentrati sulle fabbriche che sulle compensazioni ministeriali. “Confindustria? È desaparecida” ha detto qualche giorno fa il segretario della Cgil Susanna Camusso. Perché, al netto della cortesia col governo di turno, si è sostanzialmente eclissata dal dibattito pubblico, dalla crisi delle banche all’assalto di Vivendi a Mediaset e, soprattutto, alla crisi industriale del paese.

Lo scandalo editorial-finanziario si inserisce in questo “scomparsa” di ruolo. Il Sole-24 Ore, fiore all’occhiello e principale posta del bilancio di Confindustria (circa un quarto), ha manipolato per anni i bilanci, come era facile osservare per chi si fosse soffermato sul fatto che le vendite schizzavano verso l’alto, mentre i ricavi scendevano. Il tutto nel silenzio di presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati, direttori sfiduciati, assemblee. E in tutti questi anni hanno taciuto le Marcegaglia, i Montezemolo, il vecchio padre nobile Abete, quelli per i quali Gianni Agnelli inventò la definizione di “professionisti della Confindustria. Proprio mentre, da consumati “professionisti” della politica gli stessi hanno occupato – grazie al rapporto con la stanza dei bottoni – le postazioni chiave, come Montezemolo in Alitalia ed Emma Marcegaglia all’Eni, all’ombra di quel conflitto di interessi che già avvolse la sua presidenza di Confindustria, come emerge dalle inchieste che la riguardano.

Montezemolo, Marcegaglia, Boccia. La retorica sulla crisi di rappresentanza “sindacale”, amplificata dallo spostamento di ciò che resta del voto operaio a destra negli anni Novanta – i famosi iscritti alla Cgil che votano Lega – e verso i Cinque Stelle oggi – col rifiuto della rappresentanza sindacale e il voto “contro” – ha coperto una analoga, e altrettanto profonda crisi di rappresentanza di Confindustria, che non solo non è più quella di un tempo, ma è una associazione in crisi di un capitalismo in crisi. La verità è che, finita la fase della concertazione e del grande patto per entrare in Europa, e dopo la “svolta” liberista di D’Amato Confindustria si è rintanata nel fare lobby, più che nel fare “sistema” mentre la struttura imprenditoriale entrava in difficoltà in un mondo globalizzato. Nel frattempo Marchionne e la grande distribuzione se ne vanno perché hanno bisogno di nuove di regole per contrattare mentre gli imprenditori emergenti che esportano non entrano perché considerano burocratica e ministeriale l’associazione di viale dell’Astronomia.

Il Sole era il fiore all’occhiello, la prova di una classe imprenditoriale che sente di poter dare lezioni, anche nell’industria editoriale, a differenza delle omologhe associazioni di categoria europee – in Francia e Germania ad esempio – che non hanno un quotidiano. Adesso si scopre che il fiore era appassito. E, con esso, rischia di appassire il suo presidente, che fino all’ultimo ha difeso il direttore uscente e Confindustria, come confidano parecchi associati anche se in pubblico tacciono.

In questa storia c’è tutto lo iato tra percezione di sé e la realtà, tra ruolo che si attribuisce un pezzo delle elite e rapporto reale con l’opinione pubblica e col paese. E se nella polemica instaurata tra la leadership populistica di Trump e la bibbia del Nyt si ricorre alla categoria di “post verità”, per spiegare il caso nostrano – quante volte nelle redazioni si è detto: “certo che è vera questa cosa, lo dice il Sole” – basta ricorrere alla più semplice categoria di “perdita della credibilità”. E non c’è da stupirsi se, domani o domani l’altro, Beppe Grillo o Luigi Di Maio proporranno di abolire Confindustria o di non leggere più quel giornale, perché proprio questo è il senso della storia: non uno scandalo di quattro furbetti, ma pezzo di crisi dell’elite.
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