A dodici giorni dalla fatidica ora X del 4 dicembre Matteo Renzi, come in una mano di poker, cala sul tavolo l’all in: “Non sarò della partita nel caso in cui le cose vadano male, dico no agli inciuci”. Piatto. Torna cioè la grande politicizzazione del referendum, come quando disse, “se perdo lascio la politica”, frase che aveva fatto sobbalzare i fautori del sì mite alla Giorgio Napolitano, o pezzi di renzismo di governo. E li fa sobbalzare ancora.
Proprio tra il premier e il presidente emerito la diversità di approccio è totale. Sentite Napolitano, ospite di Porta a Porta: “È diventata una sfida aberrante. Non votiamo al referendum per giudicare Matteo Renzi, per quello ci sono le elezioni politiche. Si vota quello che è scritto nella legge. Si vota su quello, non sulle motivazioni di Renzi”. Il premier aveva appena finito di spiegare, e così farà nei prossimi giorni, che il destino del governo è invece appeso al referendum: “Se volete una classe politica aggrappata alla poltrona e che non cambi mai prendetela, perché io non sto cosi. Io sto qui se posso cambiare le cose. Non sto qui aggrappato al mantenimento di una carriera. Non ho niente da aggiungere al curriculum vitae”. (Leggi qui il disappunto di Napolitano sulla linea plebiscitaria di Renzi).
L’opposto, appunto, del confronto oggettivo e di merito, invocato da Napolitano, critico anche sul grillismo di una campagna tutta giocata sui costi della politica. Personalizzazione, politicizzazione, l’ora e mezzo di #Matteorisponde su facebook diventa un corpo a corpo contro “l’accozzaglia”. Sarà il mantra degli ultimi giorni, fino al gran finale, per cui ha già dato l’ordine di riempire una piazza nella sua Firenze. Un’impostazione che riflette, innanzitutto, l’indole. E che rottama tutti consigli. Sia quelli di Napolitano, fautore di un confronto nel merito sia quelli di Farinetti, che suggeriva di essere più simpatici. Né pacatezza né simpatia: il premier è convinto che solo il corpo a corpo sposti gli indecisi: “A questo punto – spiega uno dei suoi – chi si doveva fare un’idea di merito, se l’è già fatta. Gli informati sono informati. Ora si mobilita sul messaggio ‘meglio io degli altri”.
Ecco una raffica di attacchi, battute ad effetto, contro la cosiddetta “accozzaglia” e i suoi protagonisti: “l vero pasticcio rischiano di farlo loro il giorno dopo”, “stanno cercando dio fregarvi sulla riforma, ci raccontano balle, sentiamo il rumore di unghie che si aggrappano agli specchi”. I bersagli preferiti sono “D’Alema, De Mita, Monti, Brunetta, Grillo” che “pensano che con questo voto si possa tornare a un sistema con cui si fanno inciuci in Parlamento”. L’Innominato è Silvio Berlusconi, il cui faccione non a caso non compariva nella famosa foto dell’accozzaglia. Perché è chiaro che il premier punta al voto di Forza Italia e quel voto si conquista evocando parole d’ordine berlusconiane o rendendo plastico, nei confronti tv, che i nemici del sì sono gli stessi nemici di Berlusconi, da Travaglio a Landini. Ed è chiaro anche che, dal mondo berlusconiano, non arrivano segnali di particolare ostilità (leggi qui), dal no “tiepido” del Cavaliere alla riforma, fino al sostegno delle reti Mediaset.
Scamiciato, nel suo studio di palazzo Chigi dove sono tornate le bandiere europee, linguaggio che non ha nulla di istituzionale, il premier piccona i Cinque stelle, da Beppe Grillo a Rocco Casalino: “Casalino mi sta simpatico, non lo conosco personalmente e io al Grande fratello ero più per Taricone, ma Casalino è passato dalla casa del ‘Grande fratello’ alla casa del grande Senato”. Parla di poltrone, di Casta, in un evidente tentativo di rivolgersi all’elettorato pentastellato minando la credibilità dei suoi dirigenti: “Dico agli elettori M5s: volete continuare a pagare i fondi del Senato perché quelli della comunicazione abbiano i rimborsi delle bollette? Amici come prima, ma poi non vi lamentate della casta”.
“Il treno non ripassa”, “tornano instabilità e galleggiamento”, “col sì stessa assistenza sanitaria per tutti”, “quando votate pensate ai vostri figli”. Palazzo Chigi è più il super comitato del sì che la regia del governo. E sarà così, fino alla fine, a colpi di 5 iniziative al giorno, trasmissioni, tg. Nei momenti di pausa, dal cellulare del premier parte anche il training autogeno ai suoi: “Vinciamo noi, sono sicuro” è l’sms mandato a parecchi in questi giorni.
Insomma, all inn. Con una differenza rispetto all’inizio. E cioè che il premier non ha alcuna intenzione di lasciare la politica. Anzi, questa mobilitazione, in caso di sconfitta, ha già dentro la strategia per il dopo: “Prende il 49, il 48? – prosegue il fedelissimo – Bene, quello è tutto suo, mentre l’ammucchiata sta nel 51. A quel punto dirà: lascio palazzo Chigi e voglio vedere cosa riuscite a fare, mentre girerà il paese da capo del Pd scagliandosi contro i nemici del cambiamento”. Lo schema è tre mesi di governo per la legge elettorale e nuovo all inn. Almeno questo è quel che spifferano a 12 giorni dal voto, forse anche per esorcizzare la paura che, mai come in questo caso, la sconfitta avrebbe un solo padre. E alla mano successiva, inevitabilmente, ci sarebbero meno fish da puntare.
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