Ci sono dei giorni in cui tutti gli elementi di una storia si compongono come in un mosaico perfetto. Squarciano il velo sul passato e spalancano le porte sull’ignoto, in questo caso al giglio magico. Chi ha avuto contatti con l’ex premier racconta che, per la prima volta e a dispetto degli spin, la preoccupazione è tangibile: “Se si dimette Lotti, salta tutto”, sussurra la fonte. Al momento la linea è fare quadrato, respingendo ogni accusa (leggi qui post di Lotti su facebook) e attaccando i Cinque Stelle che presenteranno la mozione di sfiducia, in attesa degli sviluppi dell’inchiesta Consip. E al momento la linea è “le primarie si faranno il 30 aprile”. Ovvero, non saranno rinviate, né Renzi ha intenzione di intestarsi una “mossa” di conciliazione interna, né tantomeno di fare “passi indietro”.
Il solo fatto che, tra ministri e nella war room dell’ex premier, si facciano questi ragionamenti, unito al silenzio inquieto e teso di un ceto politico solitamente ciarliero su ogni mezzo di comunicazione, tutto questo dà il senso di come il momento sia vissuto come una sorta di tentativo di Idi di marzo, politiche e giudiziarie. Diverse volte, nella storia d’Italia, le inchieste hanno dato il colpo di grazia a leader già indeboliti politicamente, come accadde prima con Craxi e poi con Berlusconi. E non è sfuggito, dalle parti dell’ex premier, il modo in cui stia leggendo la fase Giorgio Napolitano, uno che ai tempi del primo era presidente della Camera e ai tempi del secondo da capo dello Stato esercitò un forte ruolo di indirizzo politico. In un’intervista a Concita Sannino su Repubblica è proprio Alfredo Mazzei, un suo amico storico napoletano, migliorista, collaboratore della sua fondazione, a raccontare la famosa cena in una “bettola” tra Romeo e il papà di Renzi. E non è un mistero che tutto il mondo di Napolitano, da Violante a Macaluso, abbia fortemente invitato Orlando a candidarsi, poco prima che deflagrasse l’inchiesta e quando l’unica alternativa era Emiliano, troppo “grillino” per affidargli il Pd.
Ecco perché fa davvero paura l’inchiesta Consip che, tra l’altro, dopo il 4 dicembre ha avuto un salto di qualità, con l’acquisizione di nuovi elementi probatori, a partire dalle confessioni di Marco Gasparri. Perché è evidente, sussurrano le stesse fonti, che il “babbo” di Renzi era indagato per traffico di influenza e ora l’attività della procura è volta a verificare se ci sono le condizioni per un’accusa di corruzione. E che investigatori e inquirenti, che venerdì interrogheranno Tiziano Renzi, sono a caccia di prove del fatto che si facesse pagare per la sua mediazione.
Il “babbo”, ma anche “il Lotti”, e “Denis”: il processo Consip suona come un processo al sistema di potere costruito negli sfavillanti mille giorni di governo, che illumina la struttura materiale di quel potere scevra della sovrastruttura narrativa. L’inchiesta dell’Espresso (leggi qui) su “pressioni e ricatti” che avrebbe subito l’ad di Consip Marroni dall’imprenditore Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi, spiega questi anni di sodalizio inscalfibile tra Verdini, l’ex plenipotenziario di Berlusconi, e Lotti: l’asse inscalfibile, la stampella al governo, anche senza posti, perché, a leggere le carte, non era il governo il vero interesse del sodalizio. E spiega quelle frasi pronunciate da Bersani sulla mutazione genetica del Pd, “parla più con Verdini che con Speranza”, “questa non è più casa mia”.
Ci sono giorni, solitamente i più neri, in cui come si dice in gergo “arrivano tutte assieme”, ed arriva anche l’ennesima medaglia al valor giudiziario di Denis Verdini: la condanna a 9 anni (nell’ambito del processo per il crac del Credito cooperativo fiorentino.
Tutto questo quadro, fatto di accuse a uomini che, a partire da Lotti, solitamente non agivano a insaputa del premier, ha già cambiato tutto, al netto delle dichiarazioni ufficiali. Ha già spostato il terreno di confronto delle primarie, tanto che più di un big ha suggerito di spostarle, ricevendo come risposta: “Sarebbe come ammettere la colpa”. E a quel punto “non la riprendi più” come è emerso lunedì sera, alla riunione dei franceschiniani, piuttosto mossa. Un competitor di Renzi è un magistrato che, nel processo, sarà ascoltato come testimone per la vicenda degli sms. L’altro è il ministro della Giustizia, che abita un Palazzo dove l’aria che tira si può sentire meglio che altrove. E che, se mai qualche ultrà del renzismo dovesse chiedere di mandare ispettori in qualche esuberante procura, avrebbe il potere di dire di no. Pare un mosaico perfetto, il passato nelle carte, il futuro del giglio magico come una porta sull’ignoto.
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