L’incredibile ragione per cui potreste iniziare a vedere spille da balia ovunque

Il risveglio post-elezione di Trump è stato sicuramente traumatico per quei gruppi e categorie prese di mira in campagna elettorale: donne, afroamericani, musulmani…

Trump dichiarò di voler espellere tutti i musulmani dagli Stati Uniti, ha fatto commenti sessisti sulle donne e razzisti sulle persone di colore, il nuovo presidente rappresenta una prospettiva spaventosa per quegli americani che non lo ritengono all’altezza del ruolo appena assunto.

Per questo mentre imperversa la protesta tra le strade del paese, un movimento sta usando un simbolo semplice e allo stesso tempo potente per mostrare supporto a chiunque si senta spaventato da ciò che avverrà nei prossimi tempi.

Molti americani stanno indossando una spilla da balia sui loro vestiti, mostrando così la loro vicinanza con quei gruppi offesi in qualche modo da Trump, un gesto per far arrivare la propria solidarietà a chi si sente spaventato.

Dalle notizie degli ultimi giorni pare che questi timori non siano ingiustificati. Persone di tutto il paese stanno condividendo sui social storie di violenza e odio, sono apparse scritte razziste per tutto lo stato, si sono moltiplicati i casi di molestie contro le minoranze. Tutto questo dopo la vittoria di Donald Trump.

Queste storie di timore per quest’onda di intolleranza sono state riportate con l’hashtag #safetypin, un’idea ispirata a quanto avvenne dopo la Brexit in Gran Bretagna. Un piccolo gesto che però sta avendo un grande seguito, assicurando la gente che nessuno è solo.

Il movimento ha preso piede. Gli americani stanno postando continuamente selfie sui social media dichiarando se stessi come “safe places”, zone sicure, e mostrano supporto alle donne, alle persone di colore e a tutti quei gruppi marginalizzati.

#safetypin

Una foto pubblicata da @shanadanger in data:

Safety for all. #safetypin #solidarity #lovenothate

Una foto pubblicata da @tamaraberg in data:


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Matteo Renzi mette la veste anti-establishment. “Vogliamo cambiare Italia e Ue”. Trump? “Da presidente sarà diverso”

Interpretare il cambiamento. Questa la strada che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca, questa la figura che Matteo Renzi prova a interpretare per vincere il referendum, dopo il quale l’Italia “tornerà protagonista nel mondo”, e per riformare l’Europa.

“Penso che Donald Trump abbia interpretato il cambiamento in maniera più radicale rispetto a Hillary Clinton – afferma Matteo Renzi a Che Tempo Che Fa, su Raitre – C’è l’ansia di cambiare, di poter entrare nel futuro, con tutte le inquietudini di un futuro che fa anche paura. Io comprendo che ci sia un bisogno di cambiare, ma mi domando chi rappresenti in Europa o in Italia questo cambiamento, chi sia davvero anti-establishment. Io da due anni sono al governo di questo paese. Sto cercando un passettino alla volta di cambiare le cose. Cosa chiedono i cittadini che andranno a votare? Secondo me chiedono di voltare pagina e questa riforma è un treno che ripassa tra 20 anni, se ripassa, abbiamo fatto una fatica pazzesca ad arrivare fino a qua”. L’uomo del cambiamento, come Renzi prova a descriversi, è anche quello che non accetta la palude: “Se si deve Stare nel pantano è bene che ci vada qualcun altro”. dice, “vengano altri, i professionisti del galleggiamento”. Una frase che lascia intendere che in caso di vittoria del No confermerà quanto detto mesi fa, che lascerà Palazzo Chigi.

Renzi è pronto a collaborare con Donald Trump, ma aspetta di capire come si comporterà alla Casa Bianca. “La vittoria di Trump non era attesa, ora è difficile capire che presidente sarà, ma io credo che il Trump presidente sarà diverso dal Trump candidato”. Si sono sentiti al telefono, “ci siamo salutati con un ciao alla fine. Sono molto ottimista sul fatto che Italia e Stati Uniti istituzionalmente continueranno a lavorare bene, anche se poi ognuno ha le sue opinioni e valutazioni”.

Trump resta però un caso a parte. “Vedo molti politici italiani che si sono specializzati in commenti elettorali. Vedo Salvini – prosegue Renzi – che sembra che abbia vinto lui. Gli ricordo che le ultime vittorie elettorali della Lega sono a Gallarate e Cascina, non in Michigan e Wisconsin. Non è che quello che accade negli Usa si traduce nella vittoria della Le Pen in Francia o di Grillo in Italia”. I sondaggi spesso sbagliano, “spero anche in Italia, visto quello che dicono sul referendum” chiosa il premier.

Renzi pronta a presentarsi come l’uomo del cambiamento dell’Italia, tramite le riforme costituzionali, e dell’Europa. Il referendum è un’occasione storica, dice, “io ho 41 anni e vedo la fatica che si fa a cambiare le cose. Da qui a 20 giorni gli italiani decidono il loro futuro”. Cambia “la semplicità di fare investimenti, la velocità di fare le leggi”. Dopo, “se superiamo l’ostacolo saremo protagonisti in Europa e nel mondo” assicura Renzi. La novità politica è il suo sostegno al documento del Pd sulla legge elettorale, per spazzare via lo spettro del combinato disposto dell’Italicum con la riforma costituzionale. “Ma questo referendum non è il congresso del Pd, chi vuole farlo deve aspettare il 5 dicembre. Speriamo che li facciano anche gli altri, invece di stare su un blog o di far decidere tutto a uno”.

La battaglia europea prosegue, Renzi torna a minacciare di porre il veto sul bilancio. “L’Europa che conosco io non mi impedisce di mettere a posto le scuole, la stabilità dei burocrati a Bruxelles è meno importante della stabilità dei nostri ragazzi nelle scuole. Se c’è bisogno si mette il veto e l’anno prossimo faranno fatica a chiuderlo senza di noi. Se vogliono fare dei muri, non li faranno con i nostri soldi. Il sogno europeo è la pace e abbattere i muri”.

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Donald Trump, “social network determinanti per la mia vittoria”. Userà Twitter anche da presidente, “ma sarò misurato”

Donald Trump continuerà ad usare Twitter anche quando si insedierà alla Casa Bianca come presidente degli Stati Uniti, ma “sarò molto misurato”. Lo afferma il presidente eletto in un’intervista alla Cbs che andrà in onda oggi.

Durante la campagna elettorale il tycoon ha usato Twitter come un’arma offensiva elettoralmente molto efficace ma politicamente controversa, ricorrendo spesso a dichiarazioni forti e provocatorie. Il New York Times ha scritto pochi giorni prima delle elezioni che il suo staff riteneva controproducente l’uso che Donald Trump faceva del suo account Twitter al punto da sottrargli la gestione. Trump oggi può però affermare che i social media sono una “moderna forma di comunicazione” che ha svolto un ruolo chiave nella sua vittoria elettorale.

Trump dice che Twitter, Facebook e Instagram, con un combinato di 28 milioni di followers, lo hanno aiutato a vincere le primarie prima e le elezioni generali poi, malgrado i suoi rivali avessero “speso molti più soldi di me”. “Ho vinto – dice ancora Trump – e penso che i social network abbiamo più potere dei soldi che gli altri hanno speso, penso in una certa misura di averlo dimostrato”.

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La sinistra dibatte cosa sarà dopo il referendum. Consapevole di avere tanti padri nobili, ma che le manca un figlio

Se a sinistra c’è vita bisogna rimettere insieme i pezzi, perché quella che un giorno era chiamata “plurale”, oggi è sparpagliata. Il referendum è lo spartiacque. Qualcuno ci crede, come l’associazione “Alternative” che a Roma ha messo in piedi tre giorni di dibattiti, dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris a Gianni Cuperlo, passando per Massimo D’Alema e Massimiliano Smeriglio. Ma soprattutto i movimenti e l’associazionismo romano che non rinuncia a farsi soggetto politico diffuso.

Il No al referendum come base per ricostruire qualcosa di diverso “fuori dai recinti”, come ci dicono gli organizzatori che scuotono la testa ai tentativi che ruotano intorno a Sel e al suo prossimo superamento. L’idea che porta De Magistris è carica di suggestione, quel municipalismo che mette radici anche all’estero e vuole addirittura superare il concetto di sinistra. “Andrò a Parma da Pizzarotti ma solo per raccontare l’esperienza napoletana” ci dice, non credendo all’ipotesi di un partito dei sindaci. Intorno ai cinque anni della Milano di Giuliano Pisapia, al cagliaritano Massimo Zedda (né col Pd né con Sel che lo ha eletto), vicino a esperienze come quelle della Regione Lazio: sono tutti terreni di confronto dai quali Alternative vuole ripartire senza identificare un punto d’arrivo.

“Se vince il No per il centrosinistra si apre una speranza” dice Massimo D’Alema che vuole portare avanti “solo” questa battaglia referendaria, per poi tornare alla sua fondazione di studi socialisti a Bruxelles. Un’idea però ce l’ha e non è quella che porta a una sinistra che si guarda allo specchio, residuale, “perché stare in minoranza non mi ha mai appassionato”. Elezioni americane, i nuovi populismi, la debolezza dell’Europa: per questi pezzi di sinistra sono terreni di sfide cruciali ma “nessuna scorciatoia nazionalista potrà servire a recuperare terreno” dice Smeriglio. Sul punto, la critica dura a Renzi che togliendo la bandiera europea ha solo fatto “un giochino di marketing politico di bassa lega”, una trumpizzazione solo in funzione della campagna referendaria. D’Alema lo segue avvertendo che l’Italia “non ha nessun interesse a indebolire l’Europa” e la risposta di Jean Claude Juncker a Trump è stata “dignitosa”.

Si torna al referendum ma al solo pensiero che con una nuova legge elettorale la riforma renziana si possa digerire, richiama il sarcasmo dalemiano . “Ci dovrebbero essere dei limiti costituzionali all’ingenuità” dice riferendosi al documento firmato da Gianni Cuperlo, “un fogliettino di cose senza senso perché, se vince, Renzi va alle elezioni, chiaro come il sole”. Più volte scatta l’applauso, ci sono alcune centinaia di persone, molte delle quali politicamente orfane, a cui D’Alema ricorda che il partito di Renzi ha estromesso un bel pezzo di sinistra. Tuttavia sfugge anche solo all’idea di poter essere un punto di riferimento per ciò che a sinistra spunterà dopo il 4 dicembre. Anche perché in sala si sente dire che la sinistra di padri nobili ne ha molti. Forse è un figlio quello che le manca.
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Fuga di consiglieri, cade la giunta leghista di Massimo Bitonci a Padova. Arriva il commissario fino al voto

È caduta la giunta comunale di Padova, guidata dal sindaco leghista Massimo Bitonci. Verso la mezzanotte sono arrivate le dimissioni presentate da 17 dei 32 consiglieri di Palazzo Moroni, che hanno così certificato la sfiducia al sindaco.

Davanti ad un notaio si sono presentati per sottoscrivere l’atto formale i consiglieri di Pd, M5S, Forza Italia, Padova 2020, e altri che dai gruppi della maggioranza erano già passati al gruppo misto. L’epilogo è arrivato al termine di un lungo scontro interno alla maggioranza, soprattutto tra Lega e Fi. “Abbiamo preso atto dell’implosione della maggioranza del sindaco Bitonci – ha spiegato il segretario provinciale del Pd Massimo Bettin – era evidente che nonostante i suo disperati tentativi era impossibile proseguire in una guida dignitosa, efficace e svolta nell’interesse collettivo”. Ora vi sarà la nomina di un commissario prefettizio che traghetterà l’amministrazione fino alle nuove elezioni.

Su Twitter si susseguono i commenti ironici del Pd, che riguardano più Matteo Salvini, oggi impegnato in piazza a Firenze, che il sindaco Bitonci.


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Trump-Europa, niente luna di miele. Juncker: “Equilibri a rischio”. Obama avvertito dallo staff di Donald: non persegua sua agenda in politica estera

I due presidenti dell’Unione Europea, Donald Tusk e Jean Claude Juncker, hanno provato a usare ‘le buone maniere’ con Donald Trump il giorno dell’elezione alla Casa Bianca. Gli hanno scritto una lettera di congratulazioni, invitandolo a un vertice Usa-Ue al più presto. Nessuna risposta. Anzi, come prima mossa politica del suo mandato che ancora non è iniziato ufficialmente, Trump ha chiamato la premier britannica Theresa May invitandola a Washington “soon”. Il magnate Trump chiama Brexit per un’inedita alleanza di ‘nazionalismi pur internazionali’. A Bruxelles, ancora impegnata a gestire (o meglio subire) la partita post Brexit, è scattato l’allarme. E il fumantino Juncker si è accollato il compito di attaccare, di dire ciò che i preoccupatissimi capi di Stato e di governo europei non possono dire a Trump per motivi diplomatici. Finita la fase del fairplay con il nuovo presidente degli Usa.

Parlando agli studenti della Corte di Giustizia del Lussemburgo, in una conferenza su ‘I costruttori dell’Europa’, Juncker non usa mezzi termini. “E’ vero che l’elezione di Trump comporta dei rischi di vedere gli equilibri intercontinentali disturbati sui fondamentali e sulla struttura”, stabilisce. Il presidente della Commissione non si concede nemmeno il beneficio dell’attesa: aspettare per vedere se gli annunci di campagna elettorale rispecchieranno le azioni di Trump. “Ho una lunga vita politica – dice – ho lavorato con quattro presidenti Usa e ho constatato che tutto quello che si dice in campagna elettorale è vero un pò per tutti purtroppo”.

E ancora: “Gli americani in generale non prestano attenzione all’Europa. Trump ha detto in campagna elettorale che il Belgio è un villaggio da qualche parte nel nostro continente… In breve dobbiamo spiegare cos’è l’Europa. La mia idea francamente? Con Trump perderemo due anni, il tempo che impiegherà per fare il giro del mondo che non conosce”. E poi: Trump “ha delle attitudini nei confronti dei migranti e degli statunitensi non bianchi che non rispettano le convinzioni e i sentimenti europei”.

Pesante. Dichiarazioni incendiarie che gettano benzina sul fuoco peraltro già acceso da Trump dall’altra parte dell’oceano. Oggi il presidente neoeletto ha avuto il ‘buon gusto’ di avvertire Barack Obama a “non compiere passi rilevanti”, nella sua prossima visita in Europa. Il presidente uscente infatti è atteso venerdì prossimo a Berlino, per un vertice con Angela Merkel, Francois Hollande, Theresa May, il premier italiano Matteo Renzi, lo spagnolo Mariano Rajoy. Il rischio per Trump è di “mandare segnali contrastanti”, dice una fonte vicina al tycoon parlando al sito ‘Politico’. “Sulle questioni grandi, trasformative in cui il presidente Obama e il presidente eletto Trump non sono allineati, non penso che sia nello spirito della transizione tentare di far passare punti dell’agenda contrari alle posizioni” di Trump, è l’avvertimento.

Con Trump alla Casa Bianca tutto cambia nelle relazioni transatlantiche, a ritmo forsennato, con l’Europa sull’orlo di una crisi di nervi. Preoccupata per il disinteresse del nuovo presidente per i confini baltici, l’Ucraina, i paesi ex sovietici ora nell’Ue e il suo interesse invece a stabilire relazioni solide con Vladimir Putin. L’Ue rischia di essere al minimo ininfluente nei nuovi equilibri mondiali, messa in difficoltà dal rapporto privilegiato della nuova Casa Bianca con i britannici, cioè coloro che con la Brexit hanno concluso il primo atto di una crisi già avviata. Una Unione che annaspa nelle sue divisioni, la crisi dei migranti, il peso di un rapporto privilegiato tra Washington e Mosca rischia di opprimerla.

Di questo parla Juncker nel suo attacco che supera le cautele del capi di Stato e di governo. Merkel e anche Hollande hanno avuto il loro primo approccio telefonico con Trump soltanto oggi, dopo Matteo Renzi che ci ha parlato ieri sera. A sottolineare che persino il ruolo della Germania e della Francia, l’asse storico franco-tedesco che è da sempre cuore dell’Ue, viene ridimensionato da ‘The Donald’, schiacciato. La Cancelliera gli ha promesso “collaborazione” sulla base dei rapporti tradizionalmente molto buoni e amichevoli fra i due paesi”, ha detto il viceportavoce del governo, Georg Streiter, e l’ha invitato in Germania “al più tardi per il vertice del G20 dell’anno prossimo”. Pure Hollande si è mantenuto su canali diplomatici: 7-8 minuti di colloquio, “volontà di lavorare insieme”.

Ma intanto venerdì a Berlino sia Merkel che Hollande saluteranno Obama, per il suo ultimo viaggio presidenziale. E ci saranno anche Renzi, Rajoy e May. Rischia di essere la foto dei ‘rottamati’ da Trump, se non fosse per la presenza della premier britannica. Comunque vada sarà la foto di un passato asfaltato dall’ascesa politica e istituzionale del miliardario americano.
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Dopo 19 anni di matrimonio, arriva il giorno dell’ufficializzazione del divorzio. Ma lui continua a mandarle fiori

Nelle sue brutte giornate, il marito era solito mandarle dei fiori. Il giorno dell’ufficializzazione del loro divorzio ha mantenuto questa consuetudine, lasciando che un biglietto accompagnasse i suoi fiori preferiti, “Always gonna be you” (Sarai sempre tu).

A pubblicare su Twitter la foto dell’omaggio floreale e del biglietto è la figlia (@shorrtstackkk). “Dopo 19 anni di matrimonio, e dopo aver affrontato un divorzio, diventato oggi ufficiale, mio padre ha mandato a mia mamma i suoi fiori preferiti”, scrive la ragazza su Facebook.

“Era solito inviarle i suoi fiori preferiti quando aveva delle brutte giornate – scrive la figlia – Sapere che lo ha fatto anche oggi mi spezza il cuore”. E a spezzarle il cuore sono anche le quattro parole che il padre, Jason, ha scritto nel biglietto. “Always gonna be you” (Sarai sempre tu), titolo di un brano del cantautore country statunitense Kenny Chesney. “Non ho mai pianto così per quattro semplici parole”, aggiunge la ragazza in un commento.

La storia ha riscosso un notevole successo online, ricevendo commenti di stima per l’uomo e di vicinanza alla ragazza.

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Chi l’ha visto, una ragazza scappata scrive su Facebook: “La mia foto fa cag…”. E Federica Sciarelli le risponde

“Volevo avvisare tutte le persone che si sono preoccupate per me che sto benissimo, non voglio essere cercata e tornerò. La foto su ‘Chi l’ha visto’ fa veramente cag…”. Giorgia, una ragazza di 17 anni, la cui scomparsa era stata denunciata al programma, con un messaggio su Facebook ha pensato di rassicurare i familiari scrivendo un messaggio su Facebook. Nel post ha approfittato dell’occasione per esprimere anche una singolare lamentela sulla foto scelta dalla trasmissione.

Nel raccontare la vicenda, la conduttrice Federica Sciarelli ha risposto alla ragazza: “Se la fotografia non ti piace la cambiamo, daccene un’altra tu, però fatti viva con le persone che ti vogliono bene”.

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Il nuovo spot di Natale di John Lewis è comico: un cane prende possesso del regalo della bambina

L’atteso spot di Natale di John Lewis è finalmente uscito, ma quest’anno la famosa catena ha deciso di creare un video davvero speciale. L’ironica clip, già annunciata dal teaser, non è la solita pubblicità natalizia, ma ha qualche cosa in più.

Una bambina, che ha tanto desiderato il suo regalo di natale, riceve una inaspettata sorpresa: la mattina di Natale vede infatti il cane di casa prendere possesso del suo regalo. La scena è comica: l’animale salta soddisfatto su un tappeto elastico. “I regali che tutti ameranno” è la frase conclusiva dello spot, e sì anche il cane, e gli animali selvatici, ameranno il dono di natale della bambina.
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Donald Trump presidente degli Stati Uniti: il ruolo chiave della middle-class operaia nel Midwest dietro la vittoria del tycoon

La verità sta nel mezzo, “in the middle”. E, per essere precisi, nella middle-class del Midwest. Le ragioni che hanno portato Donald Trump a diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America non sono né politiche né tantomeno culturali. A poche ore dalla vittoria del tycoon newyorchese si vanno sempre più delineando, se si incrociano i voti ottenuti nei singoli Stati e i dati su economia e lavoro, i motivi che hanno spinto gli americani a credere che fosse The Donald l’uomo giusto per rendere l’America “great again”.

L’American dream, per realizzarsi di nuovo, ha bisogno di depurare il tessuto industriale ed economico dagli effetti della globalizzazione e della delocalizzazione e di rimettere al centro il lavoro del cittadino americano: è questo il messaggio che sembra uscire dalle urne. Per capire, però, gli squilibri economici che hanno reso il terreno fertile per la vittoria di Trump è necessario partire da alcuni dati.

Negli Stati Uniti i numeri ufficiali riportati dall’Ufficio delle Statistiche del lavoro parlano di un tasso di disoccupazione al 4,7%. Un numero che disegna un quadro occupazionale roseo ma che non rappresenta affatto la realtà. Non si tiene conto, infatti, dei cittadini americani che non partecipano al mercato del lavoro, i cosiddetti “not in labour force”: gli inattivi in America ammontano a circa 90 milioni di persone. Cifra considerevole che però scompare dalle stime ufficiali e che disegna una realtà dai contorni più foschi dello stato occupazionale Usa.

Non è finita qui: come ha riportato Martin Wolf sulle pagine del Financial Times, l’incidenza della quota lavoro sul prodotto interno lordo americano è calato, dal 2001 al 2014, dal 64,6% al 60,4%. Si tratta di un dato che conferma come l’evoluzione dell’economia americana verso la finanziarizzazione e l’innovazione tecnologica lasci uno strascico pesante sui redditi delle famiglie. Redditi che sono aumentati del 5,2% tra il 2014 e il 2015 ma restano comunque al di sotto del livello pre-crisi Lehman Brothers.

Come ricorda il giornalista del Sole 24 Ore Vito Lops, inoltre, dal 2008 al 2016 i cittadini americani costretti a ricorrere ai food stamps (buoni alimentari) sono aumentati del 60%, passando da 28 a 45 milioni. E’ in questo contesto che si va ad inserire la vittoria di Donald Trump che ha fatto di tutto, durante la campagna elettorale, per accreditarsi come il vero oppositore dell’establishment e dello status quo, aiutato anche dalla debolezza della sua rivale Hillary Clinton, troppo legata nell’immaginario collettivo ai poteri forti di Wall Street e simbolo della continuità del potere.

La verità “in the middle”, si diceva. E in effetti è il caso di sottolineare il voto di alcuni Stati che rappresentano la spina dorsale della working class americana. Sono le roccaforti del Midwest: il Michigan, con la sua capitale Detroit un tempo centro nodale del modello fordista e oggi piegata dalla crisi industriale, il Wisconsin agricolo e manifatturiero e la Pennsylvania (più orientale ma comunque a trazione industriale) democratica dal 1992, con i suoi 20 Grandi Elettori. E poi il Nord e il Sud Dakota, Iowa e Kansas. Trump ha poi vinto in Ohio, uno degli swing states che con le sue due principali città, Columbus e Cleveland, è un bacino di voti operai impiegati in impianti siderurgici, meccanici, chimici e in particolare di gomma. Ha di certo contribuito, poi, la vittoria in Florida, altro grande stato attenzionato alla vigilia del voto con i suoi 29 Grandi Elettori. Ma, tornando al Midwest, la Clinton è riuscita a far breccia solo nel Minnesota e in Illinois.

Non è un caso: come fa notare il sito Fivethirtyeight fondato dal mago dei sondaggi Nate Silver, gli Stati del Midwest che Trump si è aggiudicato sono quelli più colpiti dalle importazioni di prodotti cinesi. Un’area identificata dall’economista David Autor del Mit come tra le più colpite dagli effetti della globalizzazione e dove le diseguaglianze hanno raggiunto la maggiore ampiezza nella forbice sociale, traducendosi nella perdita di due milioni di posti di lavoro tra il 1999 e il 2011.

Il 22 ottobre a Gettysburg, nella Pennsylvania che vive una profonda crisi in particolare nel settore siderurgico, Trump ha tenuto il suo discorso programmatico, stipulando un “Contratto con gli elettori americani”, e ha messo in chiaro alcuni punti centrali della Trumponomics: una nuova riforma fiscale che prevede l’abbassamento dell’aliquota fiscale per le aziende dal 35 al 15%; revisione o cancellazione di tutti i trattati commerciali e gli accordi di libero scambio, come il Nafta (per l’America del Nord), Tpp (con i paesi dell’Area pacifica tranne “l’odiata” Cina) e il Ttip che in Europa abbiamo già avuto modo di studiare; l’aumento dei dazi sulle merci importate; la dichiarazione di una “guerra commerciale” alla Cina che ha “stuprato” gli Stati Uniti facendosi artefice del “più grande furto della storia del mondo” grazie alla manipolazione della sua moneta, lo yuan. In sintesi, la transizione da un’economia liberista al protezionismo e all’isolazionismo.

Guerra commerciale alla Cina e ai frutti marci della delocalizzione da un lato, guerra alla finanza di Wall Street e ai lobbisti dall’altro. Così il magnate di New York è riuscito a diventare l’uomo giusto per la middle-class americana, diventando il terminale del sentimento di rivalsa del ceto operaio, rimasto indietro per via dei processi di globalizzazione che hanno favorito quei Paesi più forniti di manodopera a basso costo piegando il settore manifatturiero americano.

Con una propaganda forte e una ricetta economica estremista, Trump ora è chiamato a dar seguito alle promesse fatte nei mesi di campagna elettorale, conciliando il Donald politico con il Donald Presidente degli Stati Uniti. Dall’altra sponda dell’Atlantico arriva un voto che parla (anche) all’Europa, mostrando tutti i guasti prodotti da un modello economico che ha dimenticato il ruolo centrale delle forze lavoratrici. Il Re è nudo, l’Europa è avvisata.
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