Corea del Sud, impeachment per la presidente Park dopo lo scandalo corruzione: “Chiedo scusa”

Il Parlamento della Corea del Sud ha votato a favore dell’impeachment per la presidente Park Geun-hye, in relazione a uno scandalo di corruzione, sospendendo i suoi poteri. La Corte costituzionale deciderà se confermare la mozione e rimuovere Park dall’incarico o respingerla e reintegrare il capo di Stato in servizio. Park Geun-hye ha rinnovato le scuse al Paese e ha sollecitato tutti i ministri a “minimizzare il più possibile” il vuoto di governo stabilizzando e a stabilizzare “il sostentamento della popolazione”.

Il via libera all’impeachment è giunto ad ampia maggioranza, con 234 voti a favore e 56 contrari, il che significa che anche decine di membri del partito conservatore Saenuri della presidente hanno sostenuto la mozione per rimuoverla dall’incarico. Perché il testo passasse era necessario il sì di almeno 200 deputati sui 300 seggi da cui è composto il Parlamento. Sette voti sono risultati nulli, due persone si sono astenute e un parlamentare non ha partecipato alla votazione. Per decidere, la Corte costituzionale ha 180 giorni di tempo, e intanto i poteri di Park vengono assunti immediatamente ad interim dal primo ministro in carica, Hwang Kyo-ahn.

Park, 64 anni, è accusata di collusione con un’amica ed ex collaboratrice per fare pressioni su grandi imprese affinché facessero donazioni a due fondazioni messe in piedi per sostenere le sue iniziative politiche. Rischia di essere accusata, fra le altre cose, di abuso di potere e corruzione. Il mandato di Park, che dura cinque anni, doveva scadere a febbraio del 2018. La presidente ha negato di avere commesso reati, ma si è scusata per quella che ha definito disattenzione nei rapporti con l’amica Choi Soon-sil. Park è da settimane sotto pressione affinché si dimetta, ma questa settimana ha detto che avrebbe aspettato il pronunciamento della Corte sul voto di impeachment. Nelle ultime sei settimane manifestazioni di massa si sono tenute nella capitale Seul ogni sabato per spingerla a lasciare e i sondaggi mostrano grande sostegno dell’opinione pubblica al suo impeachment. Esiste un precedente nella storia della Corea del Sud: nel 2004 il Parlamento approvò l’impeachment per l’allora presidente Roh Moo-hyun; i suoi poteri furono sospesi per 63 giorni, ma poi la Corte costituzionale ribaltò la decisione dell’aula.


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Il peso delle discordie Pd sulle consultazioni di Mattarella. Nella macchina delle correnti, pressing su Renzi, Franceschini in movimento

Al Quirinale confidano che entro domenica le consultazioni possano diradare le nebbie nel campo renziano, a partire dallo stesso premier. E che non sarà necessario un secondo giro. Sarebbe auspicabile, perché in tal modo l’Italia avrebbe un governo nel pieno delle sue funzioni che la rappresenti al Consiglio europeo del 15 dicembre.

Le nebbie sono quelle che avvolgono il campo del Pd. Perché le pressioni su Matteo Renzi, affinché resti a palazzo Chigi, sono forti tra i suoi. E perché la macchina infernale delle correnti si è messa in moto. E c’è un motivo se Dario Franceschini ha risposto a parecchie telefonate con una battuta sarcastica: “Non posso parlare, sono ad Arcore a chiudere l’accordo con Silvio…”. La battuta rivela un certo fastidio per la ridda di voci sui sospetti del premier in relazione alla sue presunte trame per approdare a palazzo Chigi.

Voci che rivelano ansie, paure, sospetti nel giglio magico. “Non puoi lasciare”, “se molli a palazzo Chigi non torni più”, “se indichi un altro, poi non lo controlli”: frasi come queste Renzi le ha ascoltate decine di volte in questi giorni, da parte dei uomini più fidati. Alcune volte sono sembrate consigli strategici lucidi, altre spie dell’incertezza da perdita del potere, altre ancora preoccupazioni per i destini personali, a tutti i livelli, anche di staff e collaboratori costretti a lasciare le stanze vellutate del governo per tornare (forse) in quelle austere e poco sfarzose del Nazareno.

Nell’ultimo colloquio al Colle è sembrato che il premier pensi, però, che rimanere equivarrebbe a perdere la faccia e a dare l’impressione di essere attaccato alla poltrona, dopo l’annuncio urbi et orbi del “me ne vado, perché diverso dagli altri”. Il me ne vado però non è accompagnato da una indicazione su quel “percorso ordinato” che ha in mente il capo dello Stato e condiviso, nel primo giorno delle consultazioni, dai presidenti delle due Camere, Boldrini e Grasso, e dal presidente emerito Giorgio Napolitano: consentire la nascita di un nuovo governo che duri tutto il tempo necessario ad approvare una nuova legge elettorale, mettere in sicurezza i conti e le banche, non far sfigurare l’Italia al G7 che si svolgerà a maggio in Sicilia.

Un “percorso ordinato” che il capo dello Stato vuole avviare con consultazioni ordinate. Per questo si confida molto, tra le alte cariche, che questo fine settimana aiuti a ritrovare serenità. E porti sabato la delegazione del Pd a collaborare al percorso. E non a iniziare un gioco teso a far fallire questa o quella possibilità di arrivare a un governo, per accusare le altre forze politiche di irresponsabilità e tornare alla casella iniziale, cioè che si vada avanti con questa maggioranza – che non è mai stata sfiduciata – e con Renzi. Un (ex) ministro del Pd che ha consuetudine con ambienti del Quirinale spiega: “Il punto è che Renzi, di qui a sabato, è davanti a una scelta. Il Quirinale ha fatto capire che serve un governo per mettere mano alla legge elettorale. E gli ha fatto capire la sostanza della questione: se vuoi una soluzione faccelo sapere. Può rimanere lui, può indicare un altro. Di fatto stiamo parlando di un governo fino a primavera. Se vuoi lo sfascio te ne assumi la responsabilità. E confida che questi due giorni facciano maturare una consapevolezza”.

L’importante, al Colle, sono consultazioni ordinate per un governo ordinato. Nel disordine del Pd, per tutto il giorno, dal campo renziano è filtrato il nome di Paolo Gentiloni, la best option del giglio magico dopo Renzi perché “è uno dei nostri”. E la sua presenza assicurerebbe un minimo di continuità a palazzo Chigi. Della continuità farebbe parte anche la permanenza di Luca Lotti, nel ruolo di sottosegretario. Postazione strategica, perché nel 2017 ci sono in agenda nomine che rappresentano il cemento di qualunque governo. Già si parla, per i primi mesi del prossimo anno, di un cambio dei vertici Rai e del direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via. E poi in primavera si passa ad Enel, Eni, Poste, Finmeccanica, Terna e tanti altri consigli di amministrazione. Le vecchie volpi del Palazzo però scommettono che, in questo quadro, “se indichi uno del Pd, in questo quadro di scontro interno, la quadra non la trovi, anzi aumenti la balcanizzazione del Pd”. Mentre Grasso e Padoan garantirebbero un clima più sereno, consentendo lo svolgimento del congresso del Pd nelle forme e nei modi opportuni, non sulla pelle del governo e del paese.
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Un biglietto d’amore per la moglie ogni mattina: così il padre di Hud ha commosso il figlio e, poi, il web intero

“Da quando ne ho memoria, mio padre si è alzato ogni mattina alle 05:00 per preparare il caffè a mia madre e lasciarle un messaggio d’amore”. È questo il post che Hud (@EhrichHudson) ha pubblicato su Twitter nel mese di ottobre, riscuotendo un successo probabilmente inaspettato per lui.

Il post dell’adolescente, accompagnato dalle foto dei post-it nelle tazzine del caffè e sparsi sui tavoli, da allora continua ad essere virale, tra commenti e retweet di chi ha apprezzato il bel gesto dell’uomo.

Il web non è rimasto indifferente di fronte ai tanti messaggini scritti su bigliettini a forma di stelle e cuoricini per la sua Alona e in molti devono aver invidiato quei risvegli così dolci.


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La resistenza di Matteo Renzi in direzione Pd: “Governo di tutti o voto”. E medita l’alleanza con Pisapia

“Se le altre forze politiche vogliono andare a votare subito dopo la sentenza della Consulta sulla legge elettorale, lo dicano chiaramente. Il Pd non ha paura della democrazia. Se invece vogliono un nuovo governo che affronti la legge elettorale e gli appuntamenti internazionali del 2017, il Pd si assume questa responsabilità, ma non può essere il solo. Abbiamo pagato già un prezzo per la responsabilità nazionale”. Canto del cigno o rilancio? Si vedrà. Matteo Renzi lascia la sua proposta sul tavolo della direzione del Pd e sale al Quirinale per dimettersi da premier. Un primo capitolo di questa crisi si chiude. Si apre quello incerto della nascita di un nuovo esecutivo e della certa resa dei conti nel Pd. “Il passaggio interno al partito sarà duro, ma prima viene la crisi di governo”, annuncia il segretario, col sorriso come lama tagliente nella sala gremita al Nazareno.

Il suo è l’inizio della resistenza dentro il partito che in questi giorni gli si è mosso contro. E’ la reazione alle mosse della sua (ex) maggioranza, da Franceschini a Orlando fino a Delrio, che ieri lo hanno costretto a rivedere la relazione per la direzione. Avrebbe voluto fare il Renzi e dire “al voto, al voto subito”, magari già a febbraio subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum, che i renziani considerano auto-applicativa, cioè valida anche senza un intervento del Parlamento. Invece ha dovuto rivedere tutto, toni e merito. Ne è uscita una semi-morbida alternativa: voto o unità nazionale. Ma almeno si riserva il diritto di tracciare un percorso minato: il tempo dirà chi salterà per aria, anche perché i tempi di questa crisi appaiono lunghi a tutti gli attori in campo.

Ed eccola la prima mina. Se nascesse un nuovo governo, avverte Renzi, “sarebbe il quarto non votato dal popolo, dopo il colpo di stato del 2011, figlio di un parlamento illegittimo e del trasformismo di Alfano e Verdini”. Al Parlamento e al Pd la scelta. Al M5s i capi di accusa. Se Renzi potesse scegliere da solo, si metterebbe dalla parte dei capi di accusa.

La seconda mina è per la minoranza che ha votato no. “Pisapia solleva questioni non banali”, dice Renzi all’inizio del suo breve discorso. Pier Luigi Bersani è lì con i suoi. Massimo D’Alema non c’è. Per tutti loro il messaggio è questo: Renzi sta valutando intese con quella che definisce “la sinistra non ideologica”, quella dell’ex sindaco di Milano che si è schierato per il sì al referendum e ora offre a Renzi un’alleanza a patto che molli Alfano e Verdini. “Perché no?”, spiega un renzianissimo. “Se si va al voto, non ci interessa né di Alfano, né di Verdini”. E probabilmente nemmeno di Bersani e D’Alema. Perché si andrebbe al voto col proporzionale. E Renzi sta già mettendo sul piatto le sue chance. Sono scenari che non escludono niente. Nessuno vuole la scissione del Pd, ma un sistema non più maggioritario apre un ventaglio di ipotesi, nessuna esclusa.

La terza mina è di fatto la prima in ordine temporale. Di fatto Renzi parla alla direzione dopo aver già raccontato tutto nella sua enews, uscita da Palazzo Chigi calda calda per il web mezz’ora prima della riunione al Nazareno. E’ il suo schiaffo alla direzione che gli ha voltato le spalle. Renzi parla ai milioni di sì di domenica, voti che considera suoi. Non lesina chicche amare per la minoranza: “Qualcuno ha festeggiato la sconfitta, lo stile è come il coraggio di don Abbondio, ma non giudico e non biasimo, osservo e se possibile rilancio. Alzo anch’io il calice perché quando vieni indicato e designato dal Pd e hai la possibilità di governare, non hai il diritto di mettere il broncio. Chi fa politica col broncio e il vittimismo fa un danno a se stesso e non agli altri”.

Rimanda il dibattito in direzione a “dopo le consultazioni al Quirinale”, come spiega il presidente Matteo Orfini al senatore Walter Tocci che vorrebbe intervenire. La direzione è convocata in modo “permanente per consentire alla delegazione che va al Colle di riferire le novità”, spiega Renzi. Forse ci sarà una nuova riunione lunedì. La minoranza non gradisce. “Sono senza parole – dice il bersaniano Davide Zoggia – Il maggior partito del Paese non apre una discussione su quello che è successo. Capisco le esigenze istituzionali delle dimissioni del presidente del Consiglio, ma il partito deve discutere, analizzare”. Ma questo è solo l’inizio di uno scontro che non farà prigionieri.

Tra i renziani nella sala del Nazareno circola l’idea di presentare una legge elettorale in modo da anticipare e vanificare la sentenza della Consulta sull’Italicum. Magari un Mattarellum, la legge firmata dal presidente della Repubblica: chi potrebbe dire di no? Per ora esplicitamente ne parla il segretario dei Radicali Riccardo Magi: “Renzi ci ascolti e accolga la nostra proposta di una legge elettorale maggioritaria con collegi uninominali”. Magi è lo stesso che a luglio propose lo spacchettamento del voto referendario in più quesiti. “Probabilmente oggi Renzi rimpiange di non averci ascoltato allora”, dice. Il punto è che servirebbe un governo, Renzi ormai si è dimesso e a sera sembra tramontata anche l’ipotesi di un reincarico. A meno che non si riesca a sciogliere le Camere a fine gennaio, dicono dal quartier generale dell’ex premier.

Ma è lo stesso Renzi che ormai non esclude che possa nascere un governo di larghe intese. Per dire che le mine che ha piazzato in direzione sono tutt’altro che sicure per lui. Sa che al Senato, per dire, pezzi di Forza Italia, si sono proposti per sostenere un governo Franceschini. Anche se il ministro dei Beni Culturali uscente continua a opporsi all’idea di guidare un governo di scopo. Sa che nascerebbe contro il segretario del Pd, che sarebbe costretto ad appoggiare. Per poi bombardarlo da fuori, come con Enrico Letta. Mattarella è il primo a voler evitare uno scenario del genere. Troppo rischioso. Sul campo resta l’ipotesi di un esecutivo guidato da Paolo Gentiloni, personalità che Renzi considera più fedele. Mentre sembra tramontata la carta Grasso e anche quella Padoan, dietro la quale Renzi teme un pericoloso attivismo dalemiano.

Ad ogni modo, pur rimanendo impostato sulla linea del voto a primavera nel discorso pubblico, Renzi si è mostrato più morbido con il presidente emerito Giorgio Napolitano al telefono poco prima della direzione. Sa che stavolta potrebbe perdere, i gruppi parlamentari premono per un governo che li garantisca almeno fino a ottobre, quando avranno maturato la pensione. L’unica carta che Renzi ha di certo a disposizione per tutto l’anno prossimo sono le candidature nelle liste delle prossime elezioni. Ad ogni modo non sarà lui a salire al Colle per le consultazioni. Per il Pd ci vanno il vicesegretario Guerini, il presidente Orfini e i due capigruppo Zanda e Rosato. Domani Renzi se ne va a Firenze “a festeggiare gli 86 anni della nonna e giocare alla playstation con mio figlio”. Lontano da Roma per farsi curare le ferite.
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Deborah accusa i medici: “Hanno rovinato mio figlio, chiedo giustizia”

“Mio figlio è stato rovinato dai medici. Per lui chiedo giustizia”. Sono queste le parole di Deborah, madre del piccolo Benedetto, nato con gravi problemi dopo un parto molto difficile. La donna racconta la sua storia al quotidiano la Repubblica.

“Era ora”. Nella sua casa del piccolo paese alle pendici dell’Etna, Deborah accoglie così la notizia della sospensione di quelle tre ginecologhe che, nel giorno più brutto della sua vita, l’hanno costretta a partorire con grande ritardo mentre il bimbo che portava in grembo, perfettamente sano fino a quel momento, soffocava stretto dal cordone ombelicale senza ossigeno per chissà quanto tempo. Quello stesso bambino che ora, a un anno e cinque mesi, non parla e non cammina come tutti i suoi coetanei e trova pace solo cullato tra le braccia della mamma che non lo abbandona un attimo.

Deborah Percolla, 26enne impiegata delle Poste, e suo marito in cerca di un lavoro vivono dal 2 luglio dell’anno scorso questa tragedia con grande forza d’animo sorretti e protetti dalle famiglie e dagli amici. E non hanno alcuna voglia di pubblicità. Per questo hanno deciso d bloccare i profili Facebook e di parlare per il tramite del legale a cui hanno chiesto, subito dopo il parto, di presentare un esposto denunciando i medici del reparto di ginecologia dell’ospedale Santo Bambino che — stando alla ricostruzione della Procura — si sarebbero rifiutati di effettuare il parto cesareo che probabilmente avrebbe salvato il piccolo solo per evitare di andare oltre l’orario di lavoro. E per di più senza avvertire della situazione i colleghi subentranti in turno e falsificando le cartelle cliniche.

«L’unica cosa che voglio — dice la giovane mamma attraverso l’avvocato Gianluca Firrone — è che venga fatta chiarezza e accertate e punite le responsabilità senza sconti per nessuno. È inaudito che, soprattutto in un ospedale pubblico che deve garantire la massima sicurezza a madri e figli, avvenga un fatto del genere. Non deve capitare più a nessuno di entrare sani e felici e uscire devastati come è successo a noi».

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E Renzi e Mattarella vanno in rotta di collisione: il Colle frena sul voto, il premier non gradisce

La vera novità arriva a due giorni dal voto referendario che ha bocciato la riforma costituzionale Boschi, alla vigilia della direzione nazionale del Pd e della ufficializzazione delle dimissioni di Matteo Renzi dal governo. Ed è questa: Sergio Mattarella e Matteo Renzi entrano in rotta di collisione. Diretta: prima vera crepa tra il rottamatore e il presidente. La tensione è palpabile tra Palazzo Chigi e Quirinale, a sera.

Al termine cioè di una giornata di contatti tra il Colle e i propri interlocutori diretti nei gruppi parlamentari del Pd, a cominciare dal ministro Dario Franceschini. Obiettivo: frenare l’ansia di Renzi di tornare al voto al più presto possibile, tirarlo via dal treno ad alta velocità che ha preso subito dopo la sconfitta e farlo salire su un convoglio intercity che gestisca tutto in maniera ordinata. O almeno farci salire il grosso dei gruppi parlamentari e della direzione Pd. E’ per questo che a metà pomeriggio il capo dello Stato fa sapere a chiare lettere che lui è contrario alle elezioni immediate, pensa che vada formato un governo solido e che sia necessario mettere mano alla legge elettorale. Per garantire la formazione di un esecutivo dopo le elezioni. E per evitare salti nel buio. Da Palazzo Chigi, Renzi la prende come un pugno sui denti.

Ma andiamo con ordine. Già ieri sera, quando negli studi di ‘Porta a Porta’ il ministro dell’Interno Angelino Alfano scommette sulle elezioni a febbraio, al Colle i conti cominciano a sballarsi. Al fianco di Alfano, il capogruppo Dem alla Camera Ettore Rosato pure accompagnava il ritornello del voto subito. E qui qualcosa ha cominciato a non tornare anche in casa Franceschini, visto che Rosato è esponente di Areadem, uomo vicino al ministro dei Beni Culturali ma in tv ha fatto il renziano doc. Come se la sconfitta di domenica non ci fosse stata. Qualcuno nel Pd racconta che è stato il ministro stesso a fargli una sfuriata al telefono per riportarlo sulla ‘retta via’. Fatto sta che oggi la linea del Pd è cambiata. Non più voto subito, come dicevano i falchi renziani ieri. Bensì: governo istituzionale sostenuto da tutti, non solo dal Pd e comunque non dalla maggioranza dell’attuale governo dimissionario. Cosa è successo?

Quella del “governo istituzionale sostenuto da tutti” è la carta che Renzi si giocherà in direzione domani. E’ il suo contrattacco alla mossa di accerchiamento apparecchiata da Franceschini, il ministro Orlando, ma anche Delrio: tutti con l’appoggio di Mattarella. Accerchiamento per frenarlo dalla smania di elezioni. Pare che qualcuno volesse addirittura raccogliere le firme per mostrare al segretario, nero su bianco, che non avrebbe avuto la maggioranza in direzione se avesse forzato. Ma forse non è stato necessario. Con gran parte dei leader di maggioranza schierati con la minoranza bersaniana che ha votato no (“Sconsiglio di sfidare il paese…”, dice Pier Luigi Bersani), Renzi ha capito che era il caso di cambiare tattica. E’ la prima volta che è costretto a farlo da quando è segretario del Pd. Anche questa è una novità che fa il paio con la tensione con Mattarella.

E’ a questo punto che nasce la contromossa. Alle consultazioni dei partiti con il capo dello Stato per la formazione di un nuovo governo, che presumibilmente inizieranno giovedì, “il Pd proporrà la formazione di un esecutivo istituzionale sostenuto da tutti”. Questo dirà Renzi in direzione. Non parlerà di voto immediato. “Poi, se la maggioranza delle forze politiche si assesteranno sulla linea del voto, il Pd non ha paura delle elezioni”, dice oggi anche Rosato. Ma la vera scommessa del premier è un’altra. E’ che questo governo non nascerà. Non ci sono all’orizzonte forze di opposizione che si prestino al gioco. E per ora sembrerebbe che Renzi non abbia torto.

Nota la contrarietà del M5s e Lega a dare sostegno ai “governicchi”, il primo indiziato sarebbe Silvio Berlusconi. Ma, da quanto trapela dal pranzo dell’ex Cavaliere con i suoi oggi ad Arcore, la disponibilità di Forza Italia a sostenere un governo istituzionale non c’è. C’è quella a sedersi al tavolo della nuova legge elettorale. Insomma l’ex premier vuole vedere le carte. E Renzi vede la partita ancora aperta. La sua nuova e pericolosa partita col Pd e con il Colle.

“Mica possiamo assumercela solo e sempre noi la responsabilità. Se la devono assumere anche gli altri”, dice in Transatlantico la fedelissima renziana Alessia Morani. E’ il nuovo verbo del premier, fedele alla linea che ha voluto dettare la sera della sconfitta: “Oneri e onori dei vincitori: spetta a loro trovare una nuova legge elettorale…”. Proprio questa drammatizzazione non è piaciuta al Colle. Questo modo tutto renziano di saltare alle conclusioni, tra annunci di dimissioni e voglia di voto immediato. Basta: hanno cominciato a dirgli anche dal Pd, da Franceschini a Orlando. Ora questa accelerazione va gestita: frenando con prudenza, dicono dal Quirinale.

L’udienza della Corte Costituzionale sui ricorsi sull’Italicum fissata al 24 gennaio è già un poderoso freno: è un’udienza, non una sentenza. Potrebbe non sciogliere il nodo su cosa non va della legge elettorale a livello costituzionale. E questo inevitabilmente allunga i tempi del voto, a meno che il Parlamento non decida prima. Improbabile.

Ma oltre a scommettere che il governo istituzionale non nascerà, della serie ‘non esistono altri governi al di fuori di me’, Renzi fa anche un altro tipo di ragionamento. “Loro non capiscono cos’è il consenso”, dice uno dei suoi commentando le indiscrezioni del Colle. “Il paese vuole andare a votare”. E in questo schema, è la convinzione, Renzi si posiziona dalla parte ‘giusta’, con Grillo, Salvini e tutti coloro che chiedono elezioni al più presto. Mentre chi frena sul voto si mette “dalla parte dei parlamentari che vogliono aspettare di maturare la pensione a ottobre prima dello scioglimento delle Camere”, è l’altro pezzo di ragionamento. E ancora: “Hanno paura che Renzi li escluda dalle liste del prossimo parlamento”.

Attacchi che scommettono sull’impopolarità dei freni sul voto. Ma che svelano comunque un certo nervosismo, alla vigilia di una direzione Dem che si annuncia tesissima. Per la prima volta, Renzi non dà le carte. Almeno non tutte. E nel giro di 48 ore dal referendum che lo ha travolto, è costretto a inseguire e scommettere per sopravvivere come segretario del Pd.
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Le 10 ricette di zuppe e minestre perfette per il freddo

«È una gran cosa sapere che pioggia o vento, da qualche parte c’è un piatto di minestra calda che ti aspetta». Anche il bandito Tuco, il brutto de “Il buono, il brutto, il cattivo” assegnava alla minestra il valore di quiete casalinga e di porto sicuro in una giornata di freddo. Con l’arrivo dell’inverno non c’è niente di meglio di qualcosa di liquido e caldo per pranzo o per cena, e zuppe e minestre sono uno degli elementi immancabili nelle tradizioni culinarie di tutto il mondo.

Ma intanto, qual è la differenza tra zuppa e minestra? L’elemento distintivo è la presenza di pasta o riso, quando c’è si parla di minestra, quando non c’è si parla di zuppa. Nella zuppa possono accompagnarsi, in caso pezzi di pane più o meno grandi. La presenza del pane nella zuppa ce la conferma anche la sua etimologia: zuppa viene dal gotico suppa, cioè fetta di pane inzuppata.

Le zuppe possono essere semplicissime o molto elaborate. Non esistono solo minestre di gallina e minestroni di verdure: il mondo del cucchiaio è un universo tutto da esplorare. Ecco qui di seguito 10 zuppe e minestre da tutto il mondo da provare una volta nella vita.


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Referendum. Al Nazareno e senza snack, il racconto della notte della sconfitta del Giglio Magico

Persino la macchinetta delle bevande e degli snack di conforto a un certo punto dice: No. Maledetta. Notte elettorale del 4 dicembre 2016 a Largo del Nazareno. Il secondo round di exit poll ha già buttato i presenti nello sconforto più inconsolabile. Maria Elena Boschi, chiusa nella stanza del segretario Matteo Renzi – che nel frattempo è a Palazzo Chigi – con Luca Lotti, Francesco Bonifazi e altri che vanno e vengono, ha il viso tiratissimo e ha anche pianto un po’. Marianna Madia è vestita di nero, a lutto, preparata ad una sconfitta che era nell’aria ma che non si annunciava così funesta. I nervi sono tesissimi. Si abbattono anche sulla povera macchinetta automatica: che infatti si inceppa, lasciando tutti a secco. C’è ancora quella del caffè che sputa tazzine di continuo, anche se qui nessuno avrebbe bisogno di caffeina. Eppure, ci si aggrappa. A quello che c’è.

Notte da fine dell’impero per i Leopoldini toscani sbarcati a Roma con belle speranze, arrivati all’apice del potere senza nemmeno sapere come e deposti con altrettanta velocità. Supersonica. Cosa si fa? Come si reagisce al ko che nessuno di loro aveva previsto di queste dimensioni? Al Nazareno la domanda fa il giro delle stanze, sbatte contro i muri e ritorna in circolo. Da Palazzo Chigi è arrivata notizia dello sfogo di Renzi: “Mollo tutto, basta con la politica, basta con il Pd. Mollo il governo e anche il Pd”. Poi sarà Dario Franceschini a convincerlo a restare, come farà nella direzione nazionale Dem convocata dopodomani. Ma sulle prime sono tutti atterriti. Ma non increduli. Tanto che quando il premier prende la parola dalla sala dei Galeoni di Palazzo Chigi per dire delle sue dimissioni dal governo, appena finita la conferenza stampa, nei corridoi del Nazareno echeggia l’inizio di un applauso. Qualcuno insomma prende l’iniziativa di battere le mani al premier nel momento più buio della sua storia al governo. Il punto è che nessuno lo segue e il battimani si perde nell’aria. Clap, clap. Stop.

In quel momento, al secondo piano del palazzone del Pd a Largo del Nazareno ci sono circa 150 persone, tra dirigenti e staff. Oltre a Boschi, arrivata al partito intorno alle 22 direttamente dalla sua Laterina, oltre a Lotti e il portavoce di Renzi, Filippo Sensi, che invece arrivano da Palazzo Chigi dove hanno trascorso il pomeriggio con il premier, ci sono anche Dario Franceschini, Gianni Cuperlo, Pina Picierno e Francesco Nicodemo, Lorenzo Guerini, Debora Serracchiani. C’è la deputata Anna Ascani terrorizzata perché poco dopo deve andare in tv. Ed è dura andarci da sconfitti, mandati a casa da quasi il 70 per cento dell’elettorato. Ma al partito a un certo punto arriva anche Luigi Berlinguer, lui che renziano di osservanza non è ma che si è battuto tantissimo nella campagna del sì. “Sono qui per festeggiare…”. Tutti lo guardano sbigottiti: sei pazzo? “…per festeggiare la grande partecipazione… che è democrazia”. Ah sì, vabbè. I visi tirati non si sciolgono in sorriso. Nessuna consolazione per il partito di Renzi.

Intorno all’una meno un quarto sono tutti ammutoliti. Il premier ha parlato, in una conferenza stampa peraltro decisa già nel pomeriggio. Da mezzogiorno infatti gli instant poll del Pd parlano chiaro: pollice verso. Comunque, a notte non tanto fonda le dimissioni di Renzi dal governo sono sul tavolo, anche i sondaggisti hanno detto la loro. Il fedelissimo Sensi li ha consultati per tutta la sera. Piepoli, Masia, Ghisleri: giri di telefonate per capire come avrebbero aggiornato i dati alla luce della maxi-affluenza alle urne, totalmente inaspettata. Ansia inutile o comunque mal ripagata: ci pensano le prime proiezioni a suonare il de profundis. A quel punto, al Nazareno, oltre alla macchinetta dell’acqua, anche le chiacchiere dicono: No. Bla, bla. Stop.

Nessuno ha più voglia di parlare, commentare, arrabbiarsi. Tutto è già accaduto. Boschi, Lotti, anche Sensi sono tutti lì con la testa china sugli smart phone a digerire la sconfitta a colpi di sms. Automi, compulsivi, quasi non alzano la testa per salutare chi arriva. Al massimo un “Ciao”. Poi si lasciano andare a qualche commento sulle roccaforti del sì: Firenze, Bologna, Milano. Ma già chiamarle roccaforti suona strano. Guardano la cartina del voto: le tre città del nord che hanno dato ragione a Renzi sono tre isolette in un mare di no. Non c’è speranza.

Fa freddo in questa notte di dicembre. Dopo la conferenza stampa di Renzi, il gruppo del Nazareno si disperde. Lotti però torna a Palazzo Chigi. Da un premier preso a pugni da una realtà che non aveva considerato. Eppure, racconta chi lo vede ogni giorno al palazzo del governo, gliel’avevano detto. Lo avevano avvertito che si andava a sbattere. Nell’ultima settimana al suo quartier generale tutti sapevano della sconfitta più che probabile. Lui un po’ ci credeva, un po’ ha fatto leva su quell’ottimismo della volontà che mai gli è mancato. Certo non si aspettava la debacle. E ora?

La reazione prende forma all’indomani del voto. Renzi accetta di restare al governo per l’approvazione della legge di stabilità. Poi, dimissioni. A metà giornata in piazza Colonna, sollevando lo sguardo verso Palazzo Chigi, Antonio Funiciello, un dei suoi fedelissimi, dice: “Ce ne dobbiamo andare da qui prima possibile”. Dove? Direzione voto in primavera. E’ ciò che Renzi chiede a Mattarella. In 24 ore infatti si è rialzato dal ko tecnico e ha deciso di restare alla guida del Pd. Lo sfogo della notte ha avuto effetto. Franceschini non è l’unico a chiedergli di restare. L’invito arriva anche dai Giovani Turchi. Nello specifico da Matteo Orfini. Nonostante che il guardasigilli Andrea Orlando sia in gelo con Renzi per la storia della mancata fiducia sul ddl sul processo penale, rimasto sul binario morto in Senato. Insomma avanti con Renzi, che dopodomani in direzione non mancherà di affondare contro la minoranza Dem che ha detto no, spaccando il partito. Tutto tranquillo nel Pd?

No, Renzi sa che non è così. Ma per ora si fida della sua maggioranza. Anche Delrio gli ha assicurato sostegno. Sì ma a cosa, ora che l’impero è caduto? L’idea è di appoggiare un governo a tempo per andare al voto a primavera. Magari un governo Padoan, l’unico che a differenza di ogni altro candidato non avrebbe ambizioni politiche e che quindi non avrebbe problemi a stringere un accordo e rimanere a Palazzo Chigi solo fino a marzo. Tanto sarebbe sempre lui il ministro dell’Economia, se Renzi dovesse tornare al governo. Ad ogni modo, questo è il piano di un Renzi che non esce di scena. E conta di potersi poggiare sulla richiesta di elezioni anticipate che arriva anche dal M5s, dalla Lega, da buona parte del fronte del no. Tranne la minoranza Dem, contraria anche ad anticipare il congresso.

Ed è questo il secondo punto del piano: elezioni anticipate a primavera, senza congresso. Con Renzi candidato premier e al massimo primarie con chi nel partito volesse sfidarlo. Come fece lui con Bersani nel 2012, quando perse. In questo scenario il congresso verrebbe celebrato a fine anno. E’ una mediazione anche con i Giovani Turchi, che vorrebbero candidare Orlando ma hanno bisogno di tempo per organizzarsi. E’ un modo per non mandare in frantumi quello che rimane nel Pd. Ed è il senso del tweet di Lotti:

Tanto alle elezioni si andrebbe con un sistema proporzionale, non con l’Italicum. E dunque la candidatura alla premiership potrebbe risultare meno appetibile. E’ un piano che porta un po’ di serenità dopo la notte del terrore. “Come abbiamo fatto a non pensare che questo referendum sarebbe finito come un ballottaggio del tutti contro Renzi?!”, allarga le braccia in Transatlantico un deputato renziano. Già. Come hanno fatto a decantare le lodi dell’Italicum? Errori di gioventù, arrivata a Roma con furore, detronizzata senza nemmeno sapere come.
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Dimissioni Matteo Renzi, Germania spaventata. Le Pen, Farage e Podemos esultano. L’establishment europeo lo ringrazia

Dalla preoccupazione all’esultanza per una nuova pagina da scrivere. I leader europei reagiscono così alla vittoria del No e le successive dimissioni di Matteo Renzi. Per la Germania parla per primo il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier che ha auspicato una rapida soluzione della crisi in Italia dicendo di guardare “con preoccupazione” l’esito del referendum. Intervenendo ad Atene dove è in visita ufficiale, Steinmeier ha detto che il risultato “non è certamente un contributo positivo in uno dei momenti più difficili per l’Europa”, come riportano diversi media tedeschi. Il ministro ha aggiunto di credere che Renzi “abbia fatto quanto giusto e necessario, ma per questo non è stato premiato dagli elettori”.

Chi invece gongola è Marine Le Pen, in Francia, che twitta: “Gli italiani hanno ripudiato l’Ue e Renzi. Bisogna ascoltare questa sete di libertà delle nazioni e di autodifesa!”.

Il presidente della Repubblica francese, Francois Hollande, che ha già dichiarato che non correrà alle presidenziali, “prende atto con rispetto della decisione del presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi di dimettersi in seguito al risultato negativo del referendum in Italia” e “rende omaggio al dinamismo” di Renzi e alle “sue qualità messe al servizio di riforme coraggiose per il suo paese”. E “condivide la sua volontà di orientare l’Europa verso la crescita e l’occupazione”, sottolineando che “Matteo Renzi è un protagonista impegnato per una relazione franco-italiana forte”. Hollande, conclude il comunicato, esprime “tutta la sua simpatia” al presidente dimissionario ed “auspica che l’Italia trovi in se stessa le risorse per superare questa situazione”

In Inghilterra esulta anche Farage. “Questo è un colpo di martello contro l’Euro e l’establishment pro-Ue che ha dato agli italiani più povertà, disoccupazione e meno sicurezza a causa dell’immigrazione di massa” dice il leader dell’Ukip, Nigel Farage e copresidente del gruppo Efdd con il M5S, sul risultato del referendum. “La Ue sta barcollando da una crisi all’altra: Rapide elezioni appaiono necessarie in modo che gli italiani abbiamo l’opportunità di liberarsi dell’establishment pro-Ue”

In Spagna si rallegra Podemos. “Occorre ora costruire l’Europa della gente” ha reagito su twitter il numero due del partito viola Inigo Errejon. Il leader della sinistra di Unidos Podemos Alberto Garzon ha detto che sono stati frenati in Austria l’estrema destra e in Italia i piani di Renzi: “Sono buone notizie, ma i problemi in Europa continuano”. Un altro leader di Podemos Pablo Bustinduy ha scritto che “Renzi ha aperto altre urne in Europa, e di nuovo ha perso l’establishment di Bruxelles”

“Siamo stati tutti toccati dall’esito del referendum, Renzi ha scelto di dimettersi, voglio dire che è stato un buon premier che ha fatto importanti riforme sociali ed economiche. Abbiamo fiducia nelle autorità italiane, è un Paese solido su cui possiamo contare” ha detto invece il commissario agli affari economici Pierre Moscovici entrando all’Eurogruppo.
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Referendum, Beppe Grillo al seggio: “Se vince il Sì rispetteremo il verdetto. Ma andare comunque alle elezioni”

“Abbiamo fatto un grande lavoro, quindi l’importante, se dovessimo perdere, è non dare colpe a nessuno, abbiamo lavorato tutti bene. Se gli italiani hanno scelto una cosa diversa noi la rispettiamo”. Lo ha detto il leader del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo dopo il voto al seggio di Sant’Ilario, dove è arrivato intorno alle 17.30.

“Io credo che qualunque sia il responso, noi siamo decisi ad andare a elezioni in modo che poi, se verrà confermata questa leadership, rispetteremo il verdetto”, ha poi detto Grillo. Sul futuro del M5S, Grillo ha detto che da martedì “cominceremo sulla rete a condividere il programma su energia, politica estera difesa: cominciamo a lavorare. Stiamo lavorando già sulle persone”. Il programma, ha spiegato Grillo, “integrerà le cose non dette nel 2013”. A scegliere, in caso di vittoria del No, l’eventuale squadra di governo, sarà la rete: “Non avete ancora capito? Sceglierà la rete le persone: sono tutte cose condivise”, ha assicurato Grillo.

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