Terremoto, forte scossa nel centro Italia. Ingv: magnitudo 5,3, epicentro tra l’Aquila e Rieti

Torna a tremare il centro-Italia. Una scossa di terremoto è stata avvertita a Roma, nelle Marche e in Abruzzo intorno alle 10,25. Secondo l’Ingv è avvenuta a 10 km di profondità e ha avuto una magnitudo di 5.3 Gradi richter e l’epicentro sarebbe tra L’Aquila e Rieti.


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Parlamento Ue, Antonio Tajani eletto presidente, a Strasburgo vince l’equilibrio pro-tedesco

Antonio Tajani, 63 anni, eurodeputato del Ppe, monarchico in gioventù, berlusconiano in età matura, ex commissario europeo nell’era Barroso: è lui il successore del socialista Martin Schulz alla presidenza del Parlamento Europeo. A Strasburgo si cambia segno. E così cambia segno tutta la legislatura europea nata nel 2014 o quello che ne rimane. Si passa dalla spinta anti-austerity, che da Roma aveva contato molto sul sostegno di Juncker, alle pulsioni anti-flessibilità dei tedeschi impegnati nella loro campagna elettorale per le legislative di fine anno.

Il responso arriva intorno alle 21, in quarta votazione. Tajani fa il pieno di 351 voti, contro i 282 del candidato socialista Gianni Pittella. Oltre ai Popolari, per il berlusconiano votano i liberali di Guy Verhofstadt, rocambolesco cerimoniere dell’accordo per Tajani dopo aver fallito con il M5s, e i Conservatori di Helga Stevens. Per Tajani vota anche chi non sta più con Berlusconi in Italia: come Raffaele Fitto, eurodeputato del gruppo dei Conservatori che comprendono anche i Tories di David Cameron. Non vota per Tajani invece Matteo Salvini con i suoi 4 leghisti eletti, almeno non nelle dichiarazioni ufficiali. E non toccano palla né Nigel Farage, né Marine Le Pen, che si tengono lontanissimi dalla contesa tra i due partiti tradizionali.

Mentre in aula scorrono per tutta la giornata gli scrutinii sul nuovo presidente, mentre nei corridoi continuano le riunioni e le trattative tra i gruppi sui voti, mentre si compie la disfatta del candidato socialista Gianni Pittella, la voce insistente dice che la regìa di questa nuova presidenza sta fuori da questo palazzo: a Bruxelles. Precisamente a metà strada tra gli uffici del presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker e i socialisti tedeschi. Obiettivo comune: garantire la stabilità in Parlamento, frenare l’assalto all’austerity.

Nel pomeriggio, al briefing con i giornalisti a Strasburgo, il portavoce della Commissione Margaritis Schinas smentisce le voci. “Ciò che sta avvenendo qui riguarda solo il Parlamento, noi non abbiamo un ruolo. Ma siamo interessati a che ci sia una maggioranza qui con cui lavorare e per questo vediamo tre punti di riferimento: Pittella, Tajani, Verhofstadt. Siamo fiduciosi nel fatto che una maggioranza ci sarà”.

Naturalmente nemmeno Schinas smentisce l’obiettivo principale di Juncker: garantire la stabilità dopo la fine del patto tra socialisti e popolari che finora gli ha garantito il governo della Commissione. E’ questo che si intende per ‘regìa’ di Juncker sulla nuova presidenza del Parlamento. Ed è per questo che, mesi fa, il presidente della Commissione veniva dato, insieme a Schulz, come il vero artefice della candidatura di Verhofstadt, poi ritiratosi dalla corsa a favore di Tajani. Nel loro schema, Verhofstadt era il tentativo di mantenere in vita la coalizione tra Pse e Ppe. Schema fallito, perché Pittella lancia la sua candidatura anti-austerity. Ma grazie a Verhofstadt la stabilità viene comunque trovata, a spese di equilibri politici che risultano completamente ribaltati.

Pur senza annunci ufficiali, Juncker e Schulz sono sempre stati dalla stessa parte della barricata in questa tornata. Altrimenti non si spiegherebbe la decisione di Schulz di dimettersi dalla presidenza dell’Europarlamento a dicembre, a sorpresa, senza aver prima avvertito il gruppo o il capogruppo Pittella, informato solo la sera prima. Il cambio di segno a favore di equilibri pro-tedeschi inizia da lì.

Da quel punto in poi, Schulz è il candidato per le prossime legislative in Germania, probabile ministro di un nuovo governo di coalizione con la Merkel. Un risultato al quale i socialisti tedeschi contano di arrivare non certo con una campagna elettorale anti-austerity. Nell’elettorato tedesco infatti la flessibilità non è argomento popolare. Nel frattempo, Matteo Renzi perde il referendum costituzionale, si dimette e sbiadisce il 40 per cento incassato dal Pd alle europee: unica benzina per le spinte socialiste anti-austerity contro una tornata elettorale europea vinta in massa dai popolari e dagli euroscettici nel 2014.

Ora, un presidente del Parlamento appartenente al Ppe nell’ottica tedesca è più funzionale rispetto a un presidente socialista e per giunta italiano. Proveniente cioè da un paese che è finito di nuovo nel mirino della commissione Ue sui conti pubblici. Si doveva scegliere e l’Europa ha scelto Berlino. Il che conviene anche a Juncker, che conserva la presidenza senza spasmi.

Da questa storia, pare che i liberali abbiano guadagnato una vicepresidenza della Commissione Europea. I rumors vogliono che Juncker stia per assegnare a un esponente dell’Alde l’incarico lasciato dalla bulgara Kristallina Georgieva, che a inizio anno ha traslocato alla Banca Mondiale. I Conservatori invece entrano di fatto nella stanza dei bottoni del Parlamento insieme a Tajani e soprattutto insieme a Verhofstadt, nominato da Schulz capo negoziatore di Strasburgo sulla Brexit e confermato da Tajani. Insomma, un asso in più nella manica per gli eurodeputati Tories.

Ne fanno le spese i socialisti. Si indebolisce il grido di battaglia sulla flessibilità che negli ultimi anni – obtorto collo – era diventata una bandiera anche per Juncker. Ora i falchi passano all’incasso. Secondo alcuni rumors, persino i Verdi tedeschi avevano difficoltà a votare Pittella perché interessati a stringere un accordo di grande coalizione con la Merkel in Germania.

Pittella comunque ottiene il grosso dei voti dei Verdi e quelli del Gue. Ma non basta. La sinistra finisce in minoranza. La famiglia socialista è così debole da non riuscire nemmeno a ipotizzare un attacco sul fatto che ora il Ppe ha praticamente occupato tutte le alte cariche europee: dalla Commissione al Consiglio passando per il Parlamento. Piuttosto, ora parte lo psicodramma tra i socialisti. “E’ tutto aperto”, allarga le braccia una parlamentare del Pse.
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Istat su commercio estero: salgono export (+2,2%) e import (+1,7%)

A novembre 2016 si registra un aumento sia per le esportazioni (+2,2%) sia per le importazioni (+1,7%) rispetto ad ottobre. Il surplus commerciale è di 4,2 miliardi (+4,0 miliardi a novembre 2015). L’aumento congiunturale dell’export è trainato dalle vendite verso i mercati extra Ue (+3,4%) e in misura minore da quelle verso l’area Ue (+1,2%). Tutti i principali raggruppamenti di industrie sono in espansione a eccezione dei beni di consumo durevoli (-0,9%), che registrano un leggero calo.

Nel trimestre settembre-novembre 2016, rispetto al trimestre precedente, l’aumento dell’export (+0,9%) coinvolge entrambe le principali aree di sbocco, con una crescita più intensa per i paesi extra Ue (+1,7%), rispetto all’area Ue (+0,4%). Le importazioni (+1,2%) crescono in misura lievemente più ampia delle esportazioni. A novembre 2016 la crescita tendenziale dell’export (+5,7%) riguarda con analoga intensità sia l’area Ue (+5,7%) sia quella extra Ue (+5,6%); l’incremento dell’import (+5,6%) è principalmente determinato dall’area Ue (+8,1%).

Le vendite di mezzi di trasporto, autoveicoli esclusi (+18,4%), di autoveicoli (+13,7%) e di sostanze e prodotti chimici (+13,4%) sono in forte aumento. Dal lato dell’import, aumenti rilevanti riguardano gli autoveicoli (+27,8%), i mezzi di trasporto, autoveicoli esclusi (+12,3%) e i macchinari e apparecchi n.c.a. (+11,6%). A novembre 2016 le esportazioni verso Stati Uniti (+15,3%), Giappone (+14,1%) e Cina (+12,8%) registrano una marcata crescita tendenziale. Si segnala anche, tra i paesi dell’area Ue, la crescita delle vendite verso Repubblica ceca (+12,7%), Romania (+9,1%) e Germania (+7,0%).

Nei primi undici mesi dell’anno l’avanzo commerciale raggiunge 45,8 miliardi, con un incremento di 9,6 miliardi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+69,5 miliardi al netto dei prodotti energetici, con una crescita di 1,9 miliardi rispetto al 2015); gli andamenti tendenziali dei flussi sono pari a +0,7% in valore e +1,0% in volume per l’export e, rispettivamente, -2,0% e +3,1% per l’import.

A novembre 2016 l’indice dei prezzi all’importazione dei prodotti industriali rimane invariato rispetto al mese precedente, aumentando dello 0,2% al netto dei prodotti energetici. Su base tendenziale si confermano invece tendenze deflazionistiche (-0,3% nei confronti di novembre 2015), che risultano tuttavia sempre meno intense.

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Attacco all’eredità di Matteo Renzi: Commissione Ue, Fmi e Berlino sul Dieselgate. Il governo resiste, Renzi punta al voto

La Commissione Europea chiede all’Italia una manovra aggiuntiva di 3,4 miliardi di euro. Il Fondo Monetario Internazionale taglia le stime di crescita del Belpaese. Il ministro dei trasporti tedesco Alexander Dobrindt chiede all’Ue di garantire che i modelli Fca Fiat500, Doblò e Jeep-Renegade siano ritirate dal mercato per violazioni delle norme sulle emissioni. E’ un attacco concentrico al cuore di ciò che Matteo Renzi ha lasciato nel momento in cui ha mollato Palazzo Chigi dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre.

L’eredità dell’ex premier è presa d’assalto. Prima di tutto dalla Commissione Europea, che prima del referendum aveva di fatto sospeso il giudizio su una legge di stabilità fatta anche quest’anno di sforamenti rispetto ai vincoli dell’austerity, per via delle spese per migranti e sicurezza. Eccolo qui, un primo giudizio è arrivato: l’Italia deve varare una manovra correttiva del valore di 3,4 miliardi di euro, fanno sapere da Palazzo Berlaymont.

E’ una doccia gelata per Roma, in un inverno già alquanto rigido. Già in mattinata, Padoan si riunisce per un’ora con il premier Paolo Gentiloni. Dal Tesoro insistono a dire che ancora dalla Commissione non è arrivata alcuna lettera ufficiale e che il confronto, mai interrotto con il commissario all’Economia Pierre Moscovici, continua. Al governo decidono di resistere all’attacco. Ma non è Gentiloni a parlare.

Per l’esecutivo parla il ministro Pier Carlo Padoan e per ora non cede. “Vedremo se sarà il caso di prendere misure ulteriori per rispettare gli obiettivi – dice – Ma la via maestra per abbattere il debito è la crescita: e questa resta la priorità del governo”.

Troppo presto per dire se siamo di fronte ad un nuovo braccio di ferro con l’Ue. Ma certo gli indizi ci sono tutti. Dal governo fanno sapere che non se ne parla di nuove tasse per riparare il debito. E comunque si parte da una trattativa con la Commissione per cercare di ridurre l’impatto dell’eventuale nuova manovra. E poi, questo è il secondo elemento di reazione del governo, a Roma non la chiamano ‘manovra correttiva’. Piuttosto, dice il viceministro all’Economia Enrico Morando si tratta di “misure di aggiustamento, ma senza penalizzare la crescita e senza ostacolare il contrasto alla povertà e all’eccesso di disuguaglianze”.

Insomma, anche con l’uso delle parole si cerca di attutire l’impatto dell’attacco all’eredità di Renzi. Padoan poi si dice “stupito” per la decisione dell’Fmi. “Le ragioni addotte per dire che la crescita sarà più bassa sono: che ci sarà più incertezza politica, che secondo me è difficile da argomentare perché il nuovo governo è in continuità con il precedente, e ci saranno problemi con le banche. Anche qui il governo ha preso importanti misure proprio per fronteggiare situazioni che non sono preoccupanti”.

Il punto è che, off the record, sono proprio il premier e i suoi a dirsi certi che “se avesse vinto il sì al referendum, questo attacco non ci sarebbe stato”. E’ questo il commento a caldo che trapela nei contatti tra Roma e Pontassieve, tra Palazzo Chigi e il quartier generale provvisorio del segretario Pd. “Monti ha votato no al referendum costituzionale: facciamoci una domanda, diamoci una risposta”, dice il renziano David Ermini. Insomma, dice un altro fedelissimo dell’ex premier, “non mi figuro uno scenario con Renzi ancora a Palazzo Chigi, vittorioso al referendum, e la Commissione che chiede una manovra correttiva…”.

Colpa di Gentiloni? “No, è che la voce grossa con l’Europa la si poteva fare dopo il 40 per cento preso alle europee. Adesso l’Italia potrà tornare ad avere voce nel capitolo europeo solo con nuove elezioni, legittimità popolare e un Pd che vinca…”, aggiunge un renziano della prima ora.

Commenti a denti stretti, con tanta amarezza e consapevolezza che di armi a disposizione non ce ne sono molte. Una cosa è certezza: di fronte all’attacco, Renzi e il suo successore a Palazzo Chigi cercano una stessa risposta. Tanto che nel pomeriggio a un certo punto si diffonde addirittura la voce di una nuova enews da parte dell’ex premier, la prima nel ruolo di segretario Pd. Poi ci ripensa.

Ma per lui lo scenario resta lo stesso: andare al voto al più presto. A maggior ragione di fronte al nuovo attacco straniero, che per ora conosce tre piste: Commissione, Fmi, la Germania che quest’anno ha la sua campagna elettorale per le politiche. “Fattore da non dimenticare – dicono i Dem a Bruxelles – useranno l’argomento Italia ai fini del voto…”.

Intanto a sera l’argomento lo usa Graziano Delrio, tornando ad attaccare Berlino sul Dieselgate. “Non accettiamo imposizioni per le campagne elettorali o le tensioni interne ad un paese – dice il ministro al Tg1 – La proposta tedesca è irricevibile: non si danno ordini a un paese sovrano come l’Italia, l’autorità di omologazione italiana è quella deputata a stabilire la correttezza dei dispositivi e noi l’abbiamo stabilito esattamente come loro hanno stabilito le irregolarità sulla Volkswagen. Queste sono le relazioni tra buoni vicini che si rispettano, noi non abbiamo niente da nascondere, per questo i dati sono a disposizione della commissione europea che ha messo in piedi una camera di mediazione”.
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Aereo Turkish Airlines si schianta in Kirghizistan: almeno 37 morti. Probabile errore dei piloti

Secondo fonti dell’aeroporto di Manas, in Kirghizistan, e secondo il governo del Paese, i piloti dell’aereo cargo che si è schiantato vicino allo scalo non sarebbero riusciti ad atterrare sulla pista a causa della fitta nebbia.

Le cause dello schianto del volo della compagnia turca Avia Cargo Turkish sono ancora ignote, ma le autorità hanno scartato le ipotesi di un attacco terroristico e ritengono probabile si tratti di un errore umano. “Secondo le informazioni preliminari, la versione di un attentato terroristico è scartata.

La cosa più probabile è che l’incidente sia dovuto a un errore dei piloti”, ha affermato il vicepremier kirghizo, Mujammetkaliy Abulgaziyev. La procura generale del Paese ha aperto una indagine sulla tragedia, in cui sono morte almeno 37 persone.

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Appello per 2 Stati in Medio Oriente ma non passa monito a Trump

Una conferenza di pace senza i due protagonisti quella voluta dalla Francia a Parigi, oltre 70 Paesi presenti e un risultato che – secondo il capo del Quai d’Orsay, Jean-Marc Ayrault – rappresenta “una mano tesa”. Esce rafforzata l’ipotesi della “soluzione a due Stati” e si raggiunge una dichiarazione finale. Ma sulla sala delle conferenze incombe l’avvento di Trump alla Casa Bianca e la sua minaccia di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Hanno insistito con decisione molti dei paesi arabi presenti affinché nella dichiarazione finale fosse inserito anche soltanto un accenno di censura alla possibilità che il presidente americano eletto, che si insedierà fra soli 5 giorni, possa rendere operativa la sua idea di considerare di fatto Gerusalemme capitale di Israele. Alla fine, secondo quanto si è appreso da fonti presenti al negoziato, gli arabi si sono convinti a cedere, ma Ayrault ha dovuto fare qualche sforzo in più esponendo diplomaticamente la Francia: “Sarebbe una decisione molto gravida di conseguenze”, ha detto il capo della diplomazia francese, aggiungendo che se ci fosse una decisione del genere si tratterebbe di “una provocazione”.

Lo stesso Ayrault ha parlato di una dichiarazione che rappresenta una “mano tesa” ai due governi, quello di Benyamin Netanyahu – che ha accusato questa conferenza di rappresentare “un passo indietro” e di essere “futile” – e quello di Abu Mazen, che era invece più che disponibile a partecipare ma che, per non irritare ulteriormente il governo israeliano, si è fatto in modo che non fosse presente nei locali del centro conferenze del Quai d’Orsay bensì in un altro edificio. La dichiarazione finale ricalca, grosso modo, quella stilata il 6 gennaio scorso in una preconferenza con alti funzionari e sherpa. E immaginata lo scorso giugno, in una prima edizione di questa conferenza, con un numero molto inferiore di partecipanti.

Oggi, all’ultimo momento, è saltata anche la presenza del nuovo segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che si è fatto rappresentare dall’inviato speciale Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov. Presenti invece sia il segretario di Stato Usa uscente, John Kerry, sia l’alto rappresentante per la politica estera Ue, Federica Mogherini. Alfano ha insistito sul ruolo dell’Italia, determinante con il suo “contributo” per l’inserimento nella dichiarazione finale di almeno due elementi precisi: le violenze, l’incitamento al terrorismo, le parole ‘che infiammano’, tutti elementi dai quali vengono messe in guardia le due parti. E l’impossibilità di sostituire, in qualsiasi modo, “il negoziato diretto fra le due parti”, elemento indispensabile per ogni passo avanti. E’ emersa “una posizione equilibrata grazie anche al nostro contributo”, ha sottolineato il titolare della Farnesina, secondo il quale il problema del Medio Oriente non può ridursi agli insediamenti israeliani: “C’è il tema di chi incita alla violenza e chi considera eroi o martiri i terroristi. Finché sarà così, non ci sarà pace e sicurezza in Israele”.

La Conferenza di Parigi era stata convocata per rianimare un processo di pace che, agli occhi di Parigi, sta stagnando, e al quale farebbe ombra soprattutto la situazione siriana e quella più in generale dei territori in mano all’Isis. Il timore di Israele e Stati Uniti – stavolta concordi nella contrarietà ad inserire nella dichiarazione finale il nodo di Gerusalemme, Kerry si è opposto in modo piuttosto netto – era che un documento troppo sbilanciato diventasse la base di discussione domani a Bruxelles del Consiglio dei ministri degli Esteri Ue (al quale Alfano si recherà direttamente da Parigi); e soprattutto che desse sostanza a un’ipotetica ‘dichiarazione’ dell’altrettanto imminente riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che avrebbe potuto fare proprio il documento uscito dalla conferenza di oggi. Un’eventualità che la diplomazia ha dovuto sventare, a cinque giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, un evento che ha pesato in modo determinante su un appuntamento già considerato soltanto simbolico come quello di Parigi.
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Matteo Renzi fa autocritica sul referendum. Ma difende il suo operato da Banca Etruria a Mps, passando per la Rai

“Le nuove polarità sono esclusi e inclusi, innovazione e identità, paura e speranza. Gli esclusi sono la vera nuova faccia delle disuguaglianze, dobbiamo farli sentire rappresentati. L’identità è ciò che noi siamo, senza muri e barriere, e non dobbiamo lasciarla alla destra. Quanto all’innovazione, è indispensabile per non finire ai margini, ma ne ho parlato in termini troppo entusiastici, bisogna pensare anche ai posti di lavoro che fa saltare. Insomma, c’è un gran da fare per la sinistra”. È quanto afferma l’ex premier Matteo Renzi in una lunga intervista a Repubblica in cui spiega come intenda, a partire dai suoi “errori”, rilanciare il Pd.

“Ho fatto tante riforme senza capire – ammette – che serviva più cuore e meno slide”, “credo nel Pd, lo rilanceremo con facce nuove e valori forti. Non ho fretta di votare – aggiunge – ma evitiamo un bis del 2013”. “Continuo a pensare – dice Renzi sulla legge elettorale – che il ballottaggio sia il modo migliore di evitare inciuci. Se la Consulta lo boccerà, c’è il Mattarellum. Con il proporzionale si torna alla Dc”. Sugli istituti di credito l’ex premier rivendica: “abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, l’errore l’ha fatto Monti sulla bad bank. Il caso di Boschi padre ci è costato molto. Dissi che Mps era un affare? C’erano le condizioni”.

Sul cosiddetto Giglio magico, Renzi nega favoritismi: “Mai scelto le persone in base alla fedeltà. L’inchiesta su Luca Lotti? sono sicuro di lui, bene le indagini ma i pm facciano in fretta”. Sulla vicenda Consip, Renzi ribadisce: “La mia linea è sempre una sola: si vada a sentenza. Noi chiediamo ai giudici di fare presto, sempre”, “ovviamente non ho alcun dubbio sulla totale correttezza dei carabinieri e dei membri del governo in questa vicenda”. Renzi parla anche dei Cinque stelle e del leader Beppe Grillo: “Lui vince se denuncia il male. Non se prova a cambiare.

Quei ragazzi sono già divisi, si odiano tra gruppi dirigenti, fanno carte e firme false per farsi la guerra. Ma sono un algoritmo, non un partito. Lui è il Capo di un sistema che ripete ai seguaci solo quello che vogliono sentirsi dire, raccogliendo la schiuma dell’onda del web. Dovremmo fare una colletta per liberare la Raggi e i parlamentari europei dalle orrende manette incostituzionali che multano l’infedeltà al partito, ogni ribellione o autonomia. Ma quelli che vedevano la deriva autoritaria nella riforma costituzionale, su questo tacciono”.

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Beppe Grillo rilancia i sindaci M5s. Ma a Palermo è caos

Caos a Palermo per le comunarie in vista delle elezioni per il sindaco del capoluogo siciliano. “Il risultato” di ciò che sta
succedendo a Palermo secondo “gli articoli di stampa, è evidente che sia una clamorosa presa in giro per i palermitani, sia quelli che hanno seguito la graticola dal vivo, sia quelli che l’hanno seguita online” e per “quelli che credono nel M5S”. Lo scrive la deputata siciliana del M5S Chiara Di Benedetto in un post su Facebook sul caos liste a Palermo, rilanciato da Riccardo Nuti. “Questi atteggiamenti e giochetti non appartengano al M5S per come l’ho conosciuto”, attacca.

A risponderle per le rime è la deputata regionale Claudia La Rocca, che si è autosospesa dal M5S dopo l’indagine sulle presunte firme false nella lista dei Cinquestelle alle comunali del 2012. “È incredibile – scrive su facebook -. A noi non mancano di certo le attiviste donne, ma forse se loro avessero rispettato la volontà del meetup di fare la lista interna, invece di imporci le comunarie, non avremmo avuto tutti i problemi che si sono creati a seguire. Purtroppo diverse persone giovani e preparate non si sono potute candidare per mancanza della certificazione sul portale (magari c’è chi si attiva nei tavoli di lavoro senza correre ad iscriversi sul blog)”.

“Infatti – continua -, se ci sarà la possibilità di integrare, cosa in cui non ci trovo nulla di male, non definirei quelle persone dei ‘riempilista’ (ammesso che il termine sia negativo). Sembrano – aggiunge – dei bambini che sbattono i piedi a terra perché le cose non stanno andando per come loro le avevano pensate. Hanno voluto loro le comunarie, sapevano quali sono le poche e semplici regole per le candidature, mettere in cattiva luce chi proviene dalla società civile non ha senso”.

A pensarla come Di Benedetto, anche l’ex capogruppo del M5s alla Camera ed ex candidato a Palermo Riccardo Nuti, indagato nell’inchiesta sulle presunte firme false alle comunali del 2012 a Palermo. “#M5S La graticola? Una presa in
giro, stavano fingendo. Le donne? Deroghe e riempilista”.

Il riferimento sembrerebbe una risposta alle parole dell’ex capogruppo all’Ars Giancarlo Cancelleri, che in un’intervista all’edizione locale di Repubblica a proposito delle ultime defezioni in casa M5s ha dichiarato: “Le comunarie si faranno la prossima settimana, c’è un iter che è giunto a metà. Abbiamo fatto il primo turno, le graticole adesso aspettiamo la parte finale”.

Una dopo l’altra, nei giorni scorsi, si sono sfilate alcune donne in lizza: da Tiziana Di Pasquale, che era nella top five degli aspiranti candidati a sindaco del M5s a Palermo e si è ritirata a poche ore dalla graticola, a Ivana Cimo e Giovanna D’Agostino, candidabili al consiglio comunale. Tra le donne Giulia Argiroffi che resta in corsa per il consiglio comunale dopo esser ritirata dalle sindacarie. Per effetto della legge elettorale che impone la doppia preferenza di il numero di candidabili è sceso da 30 a 27. Ma Cancelleri minizza: “E’ già successo – spiega – nelle elezioni di altri comuni. Si farà scorrere la graduatoria dei più votati per quanto riguarda gli uomini, mentre si riaprirà la competizione per quanto riguarda la richiesta di altre candidature femminili”.

Sull’ipotesi che si tratti di una ‘strategia’ per far saltare la lista, figlia di dissapori all’interno del M5s locale taglia corto: “Non voglio parlare di questo. In ogni caso qualsiasi ipotetico tentativo di far saltare la lista in questo modo mi sembra vano”.

Una replica a Nuti arriva poi da Danilo Maniscalco, esponente della lista M5S per le Comunali di Palermo “Non intendo prendere lezioni di etica da chi, davanti un magistrato della Repubblica italiana, si è avvalso della facoltà di non rispondere Ogni comportamento contrario o di disturbo palese alle scelte democratiche della rete prese dallo scorso 28 dicembre ad oggi, a mio parere risulta semplicemente lesivo dell’immagine del Movimento stesso”.

Intanto in giornata Beppe Grillo ha elogiato il lavoro dei sindaci a 5 stelle in un tweet: “Quello che succede a Livorno con
Aamps è quello che succederà a Roma. Presto avremo grandi soddisfazioni anche lì #VoliamoAlto”. Il comico ha così rilanciato il salvataggio dell’azienda rifiuti livornese che ha visto protagonista il sindaco Filippo Nogarin.


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Jobs Act, Camusso spinge per togliere voucher ma i pensionati li usano e continueranno a usarli

“Certo, continueremo a usarli. Abbiamo rispettato la legge e anche la linea della Cgil. Non vedo perché dovremmo essere noi a cambiare idea”. Lo afferma sui voucher Ivan Pedretti, segretario dello Spi, la sigla che rappresenta i pensionati della Cgil. Intervistato dal Corriere della Sera, Pedretti si dice non pentito di averli utilizzati: “Neanche per sogno. Li abbiamo usati per consentire ai volontari di tenere aperte le sedi Cgil, in modo che il sindacato potesse fare il suo mestiere, ascoltare i lavoratori. Cosa dovevamo fare, pagarli in nero? La legge la rispettiamo, noi”.

Sul fatto di essere stati criticati sia da Susanna Camusso sia da Maurizio Landini, Pedretti afferma: “Mi aspettavo parole diverse. Finché c’è una legge possiamo usarla, anche se l’obiettivo è cambiarla. Ed è sbagliato non difendere una scelta del tutto in linea con la Cgil”. “Nella Carta dei diritti del lavoro – spiega infatti – presentata dalla Cgil un anno fa, vengono regolate anche le prestazioni occasionali, i lavoretti”, “la Carta è la risposta della Cgil al Jobs act. Dice che le prestazioni occasionali possono essere svolte da pensionati, studenti e disoccupati senza aiuti a patto che il compenso non superi i 2.500 euro l’anno. È proprio quello che abbiamo fatto noi: anziani con una pensione da 700 euro tenevano aperte le sedi due ore al giorno, incassando un centinaio di euro al mese in più”.

“Il referendum – afferma quindi – diventa superfluo se c’è una correzione radicale, se i voucher potranno essere usati solo per studenti, pensionati e disoccupati. Come abbiamo fatto noi. E come, ripeto, dice la Cgil”.

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Banche, l’agenzia Dbrs taglia il rating dell’Italia. Ora per gli istituti sarà più costoso chiedere soldi alla Bce

I nuovi guai per le banche italiane arrivano da Toronto e passano da una lettera, la A, che si è trasformata in una tripla B, conferita dall’agenzia canadese Dbrs al rating del debito pubblico italiano. Un declassamento che avrà un effetto immediato molto oneroso per gli istituti di credito dell’Italia: chiedere prestiti alla Banca centrale europea diventerà, infatti, più dispendioso.

L’Italia perde l’ultima A, pesano il No al referendum e l’addio di Renzi
Il rating del debito italiano è stato tagliato da A a BBB con trend stabile. Un giudizio, quello dell’agenzia canadese, che è dovuto a “una combinazione di fattori inclusa l’incertezza rispetto alla abilità politica di sostenere gli sforzi per riforme strutturali e la continua debolezza del sistema bancario, in un periodo di fragilità della crescita”. Cosa ha pesato nel giudizio? La vittoria del No al referendum costituzionale e la caduta del governo Renzi. “Dbrs – si legge in una nota – ritiene che, in seguito al referendum bocciato sulle modifiche costituzionali che avrebbe potuto fornire una maggiore stabilità di governo e la successiva dimissioni del primo ministro Renzi, il nuovo governo ad interim può avere meno spazio per passare ulteriori misure, limitando così il rialzo delle prospettive economiche”. Con il declassamento di Dbrs, l’Italia perde l’ultimo giudizio in area A espresso delle principali agenzie di rating mondiali.

Anche le debolezze del sistema bancario dietro la retrocessione in serie B
Nel giudizio di Dbrs pesa anche “la persistente debolezza del sistema bancario in un periodo di crescita fragile”. L’agenzia di rating accende un faro sul livello dei crediti deteriorati che rimane “molto elevato” tale da “compromettere la capacità del settore bancario di agire come intermediario finanziario per sostenere l’economia”. Pesano, inoltre, il rischio di elezioni anticipate e una crescita della produttività “fragile”.

Perché la A persa metterà le banche italiane in difficoltà
La Banca centrale europea concede prestiti di liquidità alle banche che ne fanno richiesta (e tra queste figurano anche quelle italiane) chiedendo tuttavia delle garanzie. Gli istituti italiani forniscono come garanzia, tra gli altri strumenti, anche i Bot e i Btp, cioè i titoli di Stato. C’è una trattenuta sul prestito e il valore di questa trattenuta, il cosiddetto haircut, dipende dal rating del Paese che emette i titoli di Stato. Basta una sola A tra le quattro agenzie di rating che l’Eurotower prende in considerazione (Standard & Poor’s, Moody’s, Fitch e Dbrs) per applicare il minor taglio possibile sul prestito. Le altre tre agenzie avevano già declassato l’Italia in serie B: ora che anche l’agenzia di rating canadese ha trasformato la A in B, per le banche italiane il costo per chiedere soldi alla Bce in prestito aumenterà appunto in termini di garanzie.

Quanto costa alle banche perdere la A
Prendendo come riferimento uno studio di Rabobank, i prestiti che le banche italiane hanno chiesto alla Bce ammontano a un totale di 142 miliardi di euro. Per mantenere inalterato questo valore, le garanzie dovrebbero aumentare di circa 10 miliardi di euro. Dando in garanzia un Bot, ad esempio, in caso di scenario con rating A, la Bce trattiene solo lo 0,5 per cento, mentre in uno scenario con rating B la quota sale al 6%. Ancora più oneroso il Btp: si passa da una trattenuta del 6% a una del 13 per cento.

Il Tesoro: Nessun impatto rilevante sul debito
Fonti del Tesoro sottolineano che la decisione di Dbrs “non avrà impatti rilevanti sulla spesa per interessi sul debito pubblico”. “Potrebbero esserci degli effetti sui titoli più a breve, ma si potrà dire soltanto nei prossimi mesi”, aggiungono le stesse fonti.

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