Sondaggio Scenari Politici, per avere la maggioranza l’unica opzione possibile sono le “larghissime intese” tra Renzi, Alfano e Berlusconi

“La sera delle elezioni sapremo chi governerà per i successivi cinque anni”. Era riassunto in questa frase dell’ex premier Matteo Renzi l’impianto dell’Italicum, la legge elettorale bocciata per buona parte dalla Corte Costituzionale. Ma quell’impianto è saltato: la Consulta ha cassato il ballottaggio. E la soglia del 40% per far scattare il premio di maggioranza resta, allo stato attuale, un miraggio per tutte le forze politiche in campo. In queste condizioni, se si andasse al voto, per avere una maggioranza sia alla Camera che al Senato le larghe intese non basterebbero. Ci vorrebbero le “larghissime intese”, e anche in questo caso la governabilità non sarebbe certo assicurata. L’ipotesi non è da scartare: dopo una riunione con Renzi al Nazareno, il presidente del Pd Matteo Orfini, in un’intervista all’Huffington Post, ha fissato il termine ultimo per trovare un’intesa tra i gruppi parlamentari sulla legge elettorale: dieci giorni, al massimo. Senza accordo, non ha lasciato spazio a dubbi: si va a elezioni con le leggi che ci sono.

In tal caso, “l’inciucio” sarebbe una strada forzata, secondo un sondaggio e relative simulazioni di Scenari Politici per HuffPost. Andiamo con ordine.

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Per quanto riguarda la Camera dei Deputati, si andrebbe al voto con un sistema proporzionale con premio che scatta se raggiunta la soglia del 40% (ribattezzato dal M5S come Legalicum). Laddove, come facilmente pronosticabile, non venisse raggiunta, la ripartizione dei seggi verrebbe fatta su base proporzionale. Fissata la soglia di maggioranza a 316 seggi, ci sarebbe un solo modo per poter assicurare la fiducia a un governo: le larghissime intese. Ovvero l’arco parlamentare composto da Partito Democratico, Forza Italia, Alleanza Popolare e Südtiroler Volkspartei. In particolare: 201 deputati per il Pd, 91 per FI, 20 per Ap e 5 per Svp. In questo modo, 317 seggi potrebbero assicurare, almeno sulla carta, la tenuta di un governo. Ma è evidente che un equilibrio così precario produrrebbe un esecutivo pronto a cadere alla prima folata di vento.

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Se invece i dem si alleassero con la sinistra (un ritorno all’Unione, in sintesi) si fermerebbero a 232 seggi a Montecitorio. Il Centrodestra unito che vede insieme Silvio Berlusconi, Angelino Alfano, Matteo Salvini e Giorgia Meloni (un ritorno al Popolo della Libertà, per intendersi) non supererebbe la soglia di 224 eletti. Ci sarebbe solo una via d’uscita per governare, una sorta di conventio ad excludendum da Prima Repubblica che tenga fuori i partiti ‘antisistema’ come M5S, Lega Nord e FdI: larghissime intese tra Renzi, Berlusconi e Alfano. E forse neanche basterebbero.

Situazione grossomodo analoga per il Senato redivivo. Per eleggere i membri di Palazzo Madama si andrebbe al voto, anche in questo caso, con un sistema proporzionale su base regionale, frutto dell’ex legge Calderoli (il cosiddetto Porcellum) depurata dal premio di maggioranza bocciato nel dicembre 2013 dalla Corte Costituzionale (che ha preso il nome di Consultellum).

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Accantonando per un attimo le differenze tra le leggi elettorali che regolano l’elezione per le due Camere (differenza sulle soglie di sbarramento, coalizioni ammesse al Senato ma non alla Camera), anche in questo caso, stando alle simulazioni di Scenari Politici, l’unica compagine in grado di votare la fiducia a un governo sarebbe composta da Pd (112), Forza Italia (44), Alleanza Popolare (5), Svp (3), per un totale di 164 seggi con soglia di maggioranza fissata a 158 scranni. A Palazzo Madama, quindi, le larghissime intese produrrebbero un margine di sicurezza più ampio rispetto alla Camera.

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Altre soluzioni? Niente da fare: anche un’ipotetica alleanza post-elettorale tra tutte le forze antisistema, con Movimento 5 Stelle (96), Lega Nord (36), Fratelli d’Italia (9) e altri di centrodestra raggiungerebbe la soglia di 146 seggi al Senato. Troppo pochi. E se il Pd ha intenzione di tener fede alle condizioni che ha posto, non resta molto tempo alle forze parlamentari per trovare un accordo. In caso contrario, le larghe intese sono a portata di mano. Larghissime, pardon.

Ripartizione su base regionale dei seggi al Senato con il Consultellum
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Intenzioni di voto al 28 gennaio
intenzioni

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Asse Trump-May all’ombra di Churchill: “Ridiamo prosperità ai nostri popoli”

Chissà cosa direbbe il povero Winston Churchill a vedere il suo busto lì, sullo sfondo delle foto che immortalano l’incontro tra il presidente Usa Donald Trump e la premier britannica Theresa May. Chissà cosa direbbe nel vedere i due leader stringersi la mano e lanciare un nuovo atlantismo di fronte al suo volto di pietra, appropriandosi di quella “special relationship” fino a distorcerla e farle cambiare completamente segno. Già, perché c’è del paradossale nell’usare come simbolo di questo patto proprio l’uomo che guidò il Regno Unito nella Seconda guerra mondiale per salvare l’Europa ed estendere i valori democratici oltre i confini del proprio Paese.

Così, nell’epoca della post verità e dei “fatti alternativi”, Churchill si ritrova addirittura raddoppiato nella Casa Bianca di Donald Trump: oltre al busto originale che il neo presidente ha voluto riportare nello Studio Ovale il giorno del suo insediamento, c’è un secondo busto che May ha consegnato – in prestito – a Trump per suggellare il nuovo giro di walzer della “speciale relazione” tra Washington e Londra. Peccato che, nell’ottica di Churchill, quella relazione aveva ben altri orizzonti rispetto ai nazionalismi e alle chiusure su cui oggi i due leader convergono. Il neo atlantismo che interessa a Trump e May non ha nulla di quei valori e quegli ideali, e a noi non resta che solidarizzare con il povero Churchill, che si ritrova tirato per la giacca in un quadretto da cui si sarebbe verosimilmente sfilato.

Dopo le strette di mano, la conferenza stampa, la prima di Donald Trump dal giorno del suo insediamento. Si parte dalla “relazione tra Stati Uniti e Regno Unito”, che “non è mai stata così forte”. Il Regno Unito – scandisce Trump – “ha diritto all’autodeterminazione. Il popolo britannico indipendente è un fatto positivo per il mondo”. La Brexit? Trump si dice certo che “sarà una cosa fantastica per il Regno Unito”. Davanti a noi e ai nostri popoli ci sono giorni grandiosi”, assicura. La sintonia tra il presidente Usa e la premier britannica passa anche dal colore: per il loro primo incontro alla Casa Bianca entrambi scelgono il rosso fiammante, quasi a voler sottolineare anche dal punto di vista cromatico il carattere deciso delle loro politiche. Politiche il cui imperativo è lo stesso: “ridare prosperità ai nostri popoli”, dichiarano durante la conferenza stampa congiunta.

Entrambi i leader esprimono la volontà di stringere accordi commerciali bilaterali, pur sapendo che non potranno essere avviati fino a quando non sarà finalizzata l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Sui rapporti commerciali, May evidenzia “l’ambizione” di dare prospettive alle rispettive economie facilitando il commercio tra le aziende dei due Paesi e di “approfondire” la relazione tra Uk-Usa specialmente ora che il Regno Unito sta lasciando l’Unione Europea.

La premier Tory sembra venuta a Washington anche ad attutire qualcuno degli acuti di Trump, proponendosi in cambio di intercedere ancora presso i partner europei. Così sulla Nato da una parte rassicura che Trump le ha confermato di essere “al 100% a favore dell’Alleanza”. E dall’altra promette la prima linea nell’esortare i partner atlantici a far fronte alle proprie responsabilità finanziarie, rispettando il 2% della spesa per la difesa.

Lotta all’Isis, Siria, Russia e rafforzamento delle relazioni commerciali tra Regno Unito e Stati Uniti. Questi i temi toccati nel corso del vertice, culminato in una conferenza stampa brevissima rispetto all’era Obama. Sulle sanzioni a Mosca May ribadisce che per sollevarle la precondizione è la piena attuazione degli accordi di Minsk sulla crisi ucraina, seguita dall’ammissione di Trump che è “troppo presto per parlarne con la Russia”.

Le divergenze certo non mancano. “Abbiamo parlato di molti temi, e continueremo a farlo in queste ore. Certo ci saranno delle divergenze su alcuni argomenti ma il punto importante nel rapporto che abbiamo è quello di avere un dialogo aperto e schietto”, afferma la premier. Rispondendo a una domanda su eventuali preoccupazioni in merito alle affermazioni di Trump in materia, ad esempio, di tortura o di aborto, May se la cava così: “Confermo che Trump mi ha ascoltato e io ho ascoltato lui, ed è questo lo scopo di un vertice bilaterale”. “Voglio essere chiara – assicura – ci sono molte questioni su cui Usa e Gb lavorano mano nella mano, ci sono molti punti di convergenza, ora possiamo partire per potenziare la nostra relazione, non solo negli interessi dei nostri Paesi ma di tutto il mondo”. Sotto lo sguardo di pietra di Churchill, le differenze si appianano e si pensa già al prossimo incontro. May, infatti, ha inviato ufficialmente la first couple a Londra per conto della regina Elisabetta II. La visita si terrà “più avanti entro il 2017”, quando il Regno Unito dovrebbe aver già avviato i negoziati per uscire dall’Ue. Allora sì che sarà più chiara l’influenza di questa “special relationship” su un’Europa che rischia di essere sempre più disgregata.

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Papa Francesco e Xi Jinping, prove di convergenze parallele fra i due “eserciti popolari” più numerosi del pianeta

Alla fine il Vaticano, per i cinesi, potrebbe costare meno, e contare di più, del Milan e dell’Inter, di Matt Damon e “The Great Wall”, il kolossal cinematografico sulla Grande Muraglia.Nella gigantesca e dispendiosa operazione “simpatia” che il governo di Pechino ha messo in campo world-wide, dal football ai blockbuster, per colmare il proprio deficit di soft power, la Chiesa e il Papa rivestono un ruolo strategico e più economico, rispetto agli altri asset. Nella “lunga marcia” che ha per meta i luoghi centrali e i protagonisti apicali dell’immaginario, Roma e il romano Pontefice si collocano ai vertici della hit: target imprescindibile per chi ambisce a sviluppare un modello di egemonia culturale alternativo al Washington consensus. Unico brand che la “fabbrica del mondo” nei distretti tuttofare dal Guangdong a Shanghai non saprebbe produrre in proprio.

È questo il movente di fondo, il tapis roulant geopolitico che spinge lentamente quanto inesorabilmente a un’intesa tra il Celeste Impero e il successore di Pietro, deponendo il “fardello della storia” – espressione del Cardinale Parolin in un colloquio con il Wall Street Journal – e superando l’anacronistico diaframma che inficia il profilo di entrambi, rendendolo di fatto incompiuto.

Già, incompiuto. Poiché un cattolicesimo senza Cina, nel XXI secolo, rimarrà pure sinonimo di “universalità” – dal greco kat’olón -, ma non potrà definirsi “globalizzato”. Così come la Cina, con la sua poderosa spinta globalizzante, non può dirsi e costituire un simbolo “universale”, se sbarra le frontiere al cattolicesimo.

“Convergenze parallele” – le chiameremmo in Italia -, che hanno portato il segretario di Stato Vaticano e il presidente cinese Xi Jinping a difendere in simultanea, nel World Economic Forum di Davos, il dogma della globalizzazione, mentre Donald Trump, da Washington, lo demoliva nel discorso d’insediamento: congiuntura di eventi che annuncia e prepara un clamoroso rovescio di alleanze.

Questione di numeri: un miliardo e trecento milioni di cinesi versus un miliardo e trecento milioni di cattolici. Stessa profetica cifra. Due “eserciti popolari” fedeli e indottrinati. Agli ordini di un solo capo, circondato da una corte di mandarini, da un lato, e di porpore, dall’altro. Equazione che spiega in sintesi meglio di qualunque analisi perché Pechino non può fare a meno del Papa eppure ne ha paura. Si somigliano, si ammirano, si temono. Globalismo sinico e universalismo romano, quindi. Due dimensioni troppo complementari per non attrarsi a vicenda, sul piano della reciproca convenienza, e al tempo stesso non respingersi, nella cronica diffidenza di un negoziato interminabile. Ma non impossibile.

Demograficamente in equilibrio e diplomaticamente in stallo, la trattativa tra il Vaticano e Pechino procede alla stregua delle “ombre cinesi”, confondendo gli osservatori e nascondendo gli attori. Falsando la prospettiva e ingigantendo i problemi. Non sappiamo di conseguenza quanto durerà l’attuale impasse sulla procedura di nomina dei vescovi, che non va tuttavia considerata un rebus irrisolvibile, sottovalutando l’evoluzione del quadro politico. Anzi, se il meccanismo si è inceppato, questo si deve forse a un effetto stretch-back, cioè al tentativo di forzare i tempi e accelerare il rush finale, a rischio di scivolare sul filo d’arrivo: tentazione ricorrente in prossimità dei traguardi storici. “C’è bisogno di pazienza e perseveranza. E ci vorrà un lungo cammino, poiché abbiamo dietro di noi una storia molto, molto difficile”, ha chiosato Parolin con allusione all’ultimo stop.

L’incidente di percorso è noto: mentre a Roma si vagheggiava di accendere i fuochi d’artificio – altra specialità orientale – e bruciare le tappe, chiudendo la Porta Santa del Giubileo e aprendo i battenti della Città Proibita, Pechino bagnava le polveri e spegneva l’entusiasmo. Imponendo ed esibendo sull’altare, tra novembre e dicembre 2016, durante i riti di ordinazione di due nuovi presuli, la presenza del vescovo Paolo Lei Shiyin, eletto e consacrato senza l’input papale. Ergo scomunicato. Un sasso nell’ingranaggio binario e bonario, che aveva indotto Cina e Santa Sede a ritrovarsi ormai con tacito accordo sui medesimi nominativi. Mossa provocatoria, quindi. Ma non contraddittoria e neppure velleitaria. Messa lì volutamente a sottolineare un messaggio chiaro.

L’anomalia cinese, che nega il diritto del Pontefice – riconosciutogli pressoché in tutti gli Stati – di scegliere i vescovi in via esclusiva, si spiega infatti con il riflesso istintivo, a pelle, di un vulnus atavico. Una ferita che la Repubblica Popolare, ad onta dei suoi successi planetari, non riesce a cicatrizzare: quella dei “trattati ineguali”, cioè l’amputazione di sovranità che la Cina dovette subire nell’Ottocento, in un frangente di arretratezza tecnologica e debolezza istituzionale, cedendo alle potenze occidentali, e alle missioni cristiane, una serie di giurisdizioni speciali e zone franche, allora percepite come avamposti di colonizzazione culturale. Tutte le rivoluzioni cinesi del Novecento, al netto della loro bruta discontinuità tra collettivismo e capitalismo, e di un tributo altissimo di vite umane, dal “grande balzo in avanti” di Mao Zedong al tragico salto indietro di Piazza Tienanmen, si devono leggere in chiave unitaria come una sequenza ininterrotta di terapie d’urto, di elettroshock ideologici e politici per sollevare il gigante caduto e prevenire nuovi affronti all’indipendenza della nazione.

“Ci sono due chiese”, ha sintetizzato Parolin. Quella “ufficiale”, che ha “il problema della comunione con la Santa Sede”. E quella “cosiddetta sotterranea”, che ha invece “il problema del riconoscimento” da parte delle autorità. Stando così le cose, la soluzione potrà discendere solo da una “sanatoria” urbanistica, dove Roma legittima in blocco l’edificio gerarchico abusivo elevato in sessant’anni da Pechino e quest’ultima entra in società con il Pontefice, per così dire, lasciandogli l’imprimatur dottrinale, nonché disciplinare, ma continuando a esercitare l’imprinting sulla linea politica dei candidati all’episcopato.

Tra ombre cinesi e improvvisi annuvolamenti, gli ambasciatori di Francesco, il “Pontifex”, e i genieri del leader comunista, Xi Jinping, lavorano al progetto di un ponte a due corsie, parallele ma separate: riservate rispettivamente al Papa e al partito. A sopportare il peso del “trattato ineguale”, in tal caso, sarebbe principalmente la Santa Sede, invertendo le posizioni e i rapporti di forza di cent’anni or sono. Pareggiando i conti con la storia e regolarizzando, almeno in parte, un paesaggio ecclesiale imperniato su organismi altrove inesistenti, che fungono da longa manus del regime: l’Associazione Patriottica e il Consiglio dei Vescovi, emanazioni entrambe dell’Assemblea dei Rappresentanti Cattolici, ossia gli “stati generali” della chiesa in Cina, riuniti ogni cinque anni sotto l’egida dell’Amministrazione degli Affari Religiosi. Un convegno sui generis, all’incrocio tra dottrina e indottrinamento, giunto alla nona edizione e tenuto dal 27 al 29 dicembre in un hotel di Pechino, all’insegna dell’appeasement e senza il veto preventivo del Vaticano, a differenza del 2011.

Non è la prima volta che Francesco si mostra propenso a cedere spazi, pur di “avviare processi”, secondo il criterio cardine di tutta la sua geopolitica, teorizzato in Evangelii Gaudium, Magna Carta del pontificato: “il tempo è superiore allo spazio”. Un principio applicato a Cuba, l’inverno scorso, nell’incontro con il patriarca russo Kirill, sottoscrivendo una “Yalta” dell’ecumenismo e impegnandosi a non fare proseliti nelle altrui zone d’influenza: e nemmeno a promuovervi l’evangelizzazione. O in autunno a Lund, con i protestanti scandinavi, arrivando quasi a canonizzare Lutero e a celebrare come festa cattolica il mezzo millennio della Riforma.

Bergoglio del resto non ammira solo il passato ma il presente della Cina con le sue straordinarie performance economiche, in termini di “democrazia sostanziale”, rilevante ai suoi occhi non meno di quella formale. Il paradiso delle libertà marchiate Occidente può attendere, insomma, e affermarsi gradualmente con proprie caratteristiche made in China, se nel frattempo una leadership fa uscire dall’inferno dell’estrema povertà centinaia di milioni di uomini, adempiendo un ulteriore precetto della Evangelii Gaudium: “la realtà è più importante dell’idea”. Di rimando, anche Xi Jinping, al pari del padre della patria Sun Yat-sen, avverte il fascino modernizzatore, e moralizzatore, del cristianesimo: altrimenti non si comprende la recente, sorprendente dichiarazione del portavoce del Ministero degli Esteri, secondo cui la Chiesa cattolica deve svolgere il compito di evangelizzare la Cina: auspicio inconcepibile nel lessico politicamente corretto dell’Unione Europea.

Tutto muove perciò nella direzione, e accelerazione, del connubio tra i due globalismi. L’uno e l’altro sonoramente anticapitalisti, a parole, ma serenamente capitalisti, nelle opere: altra peculiarità che li accomuna. Come abbiamo già scritto su queste pagine, la normalizzazione dei rapporti con l’Impero di Mezzo sancirebbe il punto di arrivo, forse l’approdo esaustivo del pontificato, colmando il vuoto nella geografia della Chiesa e completando la biografia di Francesco, papa d’Occidente con un DNA d’Oriente, dove da giovane avrebbe voluto recarsi e trascorrere la vita, impedito per ragioni di salute dai superiori. Un traguardo emotivo e anagrafico che in questo 2017 diventa imperativo e geopolitico: la Cina configura infatti la posta in gioco e la risposta obbligata di Francesco a Trump, nel riposizionamento generale delle alleanze. Di qui l’augurio per l’inizio dell’anno lunare, che comincia il 28 gennaio, rivolto ai popoli d’Oriente dalla finestra dell’Angelus.

Se lo scontro fra globalizzazione e de-globalizzazione assurge a spartiacque dell’attuale passaggio storico, le ragioni che sollecitano la Cina e il Vaticano ad allearsi, superando le storiche divisioni, non sono meno suadenti, e vincolanti, di quelle che sul fronte opposto ispirano il riavvicinamento tra Russia e Stati Uniti. L’universalismo cattolico, che già con il magistero di Ratzinger ha indicato nella globalizzazione uno strumento “provvidenziale”, atto a realizzare l’unità del genere umano, può fornire al motore di Pechino l’additivo delle motivazioni spirituali, utili a non andare giù di giri, mentre ovunque si alzano muri. “Mandarini” e “porpore”, a ben guardare, rivelano singolari affinità non solo cromatiche. Un gusto agrodolce in cui prevalgono le asprezze, quando si coglie il frutto anzitempo. Ma che al momento giusto, quando viene la “pienezza dei tempi”, possiede i requisiti per esaltarsi. E confermare la bontà dell’innesto.

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Intesa Sanpaolo vuole crescere con Generali, ma “non siamo corsari”. L’a.d. Messina scarica tutto su una fuga di notizie

Quella che punta dritto al controllo di Generali non è un’avventura da “corsari”, ma un’operazione da condurre alla luce del sole, scegliendo la via migliore, quella cioè in grado di generare un nuovo business e allo stesso tempo di preservare la forza patrimoniale della banca. Dopo giorni di indiscrezioni, confermate poi con l’interesse ad attivare “combinazioni industriali” con il Leone, è l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, a spiegare la filosofia che guida l’iniziativa di Ca’ de Sass. Parole perentorie, accompagnate da una stoccata nei confronti di chi vuole difendere l’italianità parlando in francese, riferimento implicito all’asse transalpino che si muove a difesa di Generali: l’a.d., francese, Philippe Donnet, sostenuto da Mediobanca, l’azionista di maggioranza relativo, che a sua volta ha in pancia, come due primi azionisti, UniCredit guidata dal francese Mustier e la quota di Vincent Bollorè, patron di Vivendi, colosso transalpino dei media. Messina schiaccia il piede sull’acceleratore e prova a dare un segnale forte nel giorno in cui la Borsa sembra aver svanito l’euforia intorno al risiko delle Generali.

Forte come la posizione che Messina conferisce a Intesa, quando spiega che è una cosa sono le indiscrezioni di stampa, altra cosa è esaminare con lucidità e appunto da una “condizione di forza” le possibilità di guardare oltre al cortile di casa propria. Nel giorno in cui si celebrano i dieci anni della fusione tra Banca Intesa e Sanpaolo Imi, Messina invoca la prudenza, affermando che il management della banca si prenderà tutto il tempo che serve per valutare le opzioni in campo, ma quello che conta è che la partita per la conquista di Generali è viva.

La direzione dell’espansione “esogena” viene considerata come naturale per una banca che assapora la possibilità di rafforzare la sua posizione nel campo delle assicurazioni, unendosi al Leone in un megapolo europeo. Poco importa, quindi, se il consiglio d’amministrazione convocato per domani ufficialmente non si occuperà di questo dossier. Conta la direzione di marcia e quella è più che chiara. Le autoraccomandazioni innanzitutto. L’operazione Generali va condotta senza diluire la forza patrimoniale. Dietro questo elemento si celano le analisi che il management della banca sta conducendo negli ultimi giorni e se cioè scegliere la strada dell’offerta pubblica di scambio, carta contro carta, oppure optare per un’offerta mista, fatta di contanti e nuove azioni. Ci sono i dividendi da tutelare e questo tema rimanda ai due soggetti che con Messina sostengono più di tutti l’operazione sulle Generali, cioè la Fondazione Cariplo e la Compagnia di San Paolo. Non a caso il ceo di Intesa le difende, anzi ne esalta il ruolo: “Se questa azienda è forte lo deve anche alle Fondazioni, investitori strategici, di lungo periodo, che danno in momenti difficili”. Di più. Messina si dice contrario al fatto che le Fondazioni debbano ridurre le proprie quote nelle banche e manda così un segnale chiaro al Governo invitandolo a “riflettere”.

Niente atteggiamento da “pirati” per Intesa che prova a infiammare una giornata negativa a Piazza Affari per i titoli dei soggetti coinvolti nell’operazione Generali, con Mediobanca che cede il 3,2%, Intesa il 2,2% e UniCredit lo 0,5%. Il mercato sembra aver compreso che dopo i fuochi d’artificio iniziali ora i tempi per il lancio di un’offerta si faranno più lunghi. UniCredit, che ieri aveva registrato un boom sulla scia delle indiscrezioni dei giorni precedenti in merito a una possibile dismissione della quota in Mediobanca a favore di Intesa, si tira fuori da questo scenario. Come anticipato dall’Huffington Post e ribadito oggi dal vicepresidente, Fabrizio Palenzona, la quota della banca guidata da Jean Pierre Mustier non si tocca. UniCredit gioca la partita Generali dal proprio posto, dentro cioè la pancia di Piazzetta Cuccia. Per questo, spiegano fonti vicine al dossier, nel corso dell’audizione davanti ai commissari della Consob la delegazione della banca ha fornito le risposte ai chiarimenti chiesti dalla Commissione evidenziando il fatto che a muovere i fili dell’operazione non è di certo Gae Aulenti. Audizione in Consob anche per le Generali, rappresentate dal presidente Gabriele Galateri di Genola. No comment all’uscita e tanta attesa, a Trieste, per capire quali saranno le mosse di Intesa. Generali ha già alzato le barriere difensive, acquistando il 3% di Intesa in modo da far scattare la regola delle partecipazioni incrociate e smorzare così le frecce nell’arco di Ca’ de Sass. Il risiko Generali, che si fa sempre più intricato, approderà domani al Forex di Modena, dove sarà presente il gotha del mondo bancario. Si parlerà dei problemi e delle prospettive delle banche. L’attenzione, di sicuro, sarà tutta rivolta ai manager di quelle banche che animano la contesa per il controllo delle Generali.

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Trump crede nella tortura. “Waterboarding funziona. Dobbiamo rispondere al fuoco con il fuoco”. Verso ordine esecutivo per ripristinare prigioni segrete

Dopo il muro, il fuoco. I primi giorni da presidente non vanno certo sprecati per Donald Trump, tanto da mettere subito le cose in chiaro: non solo la barriera anti migranti da costruire al confine con il Messico ma anche l’assolutà validità dei metodi di tortura americani “perchè dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco”. The Donald tira dritto e parlando nella sua prima intervista post giuramento, alla Abc news, annuncia di credere “assolutamente” nelle torture come il waterboarding. Un metodo, spiega lui, utile per combattere il terrorismo, punto che discuterà con il segretario alla Difesa, James Mattis e il direttore della CIA, Mike Pompeo. Dai due – dice il presidente – ha già avuto conferme sull’efficacia delle torture in ambito militare e le parole di Trump fanno pensare a un ritorno a torture già abbandonate da Cia e servizi segreti.

“Mi affiderò a Pompeo e Mattis ed al mio gruppo e se loro non vorranno, va bene, ma se verranno io mi impegnerò a renderlo possibile, voglio che sia fatto tutto nell’ambito di quello che è legalmente possibile” ha detto il presidente. “Ho parlato nelle ultime 24 ore con persone ai più alti livelli dell’intelligence ed ho chiesto loro: la tortura funziona? e la risposta è stata, assolutamente sì. Quando tagliano la testa dei nostri e di altri, solo perché sono cristiani in Medio Oriente, quando lo Stato Islamico fa cose di cui nessuno ha sentito dai tempi del Medioevo, cosa dovrei pensare del waterboarding? Per quanto mi riguarda, dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco”.

Parole che arrivano a ridosso della possibile firma di Trump su un ordine esecutivo che servirà a ripristinare la detenzione carceraria di sospetti terroristi in strutture blindatissime e segrete e che lasciano immaginare un totale ripristino delle vecchie tecniche di tortura.
“Il presidente può firmare tutti gli ordini esecutivi che vuole ma la legge è la legge. Non possiamo riportare indietro la tortura negli Stati Uniti d’America “, ha detto il senitore John McCain, in contrasto con Trump. Dello stesso parere l’ex capo Cia Leon Panetta che parla di un errore l’idea di reintrodurre certi tipi di tortura negli interrogatori e spiega come questo “violerebbe i valori Usa e la costituzione”. Dalla Gran Bretagna in nome dell’Europa si fa sentire subito Theresa May, pronta ad opporsi alla idea di torture abbozzata da Trump. La May incontrerà The Donald domani ed esporrà al presidente Usa tutto il suo dissenso.

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Consulta. Chi frena sul voto spera in Mattarella. Ma il Colle aspetta le motivazioni che scioglieranno i nodi

Sorrisi e mugugni. Il partito del voto subito e quello del voto nel 2018. Quando la Consulta dice la sua finalmente sull’Italicum, il Transatlantico della Camera si divide in due, quasi sembra il mar Rosso di Mosè. Ci sono i renziani contenti: sentenza subito applicabile, si può andare al voto. Così pure i Cinquestelle e la Lega. E poi c’è il partito del no al voto anticipato, quelli che allungherebbero i tempi anche fino al 2018. Dentro c’è il Pd non renziano, la minoranza bersaniana ma anche una bella fetta di maggioranza. Dentro c’è anche Forza Italia. Sono nervosi. E tutti ora guardano al Quirinale: cosa farà l’arbitro Sergio Mattarella? Intanto il presidente aspetterà le motivazioni della Corte Costituzionale che tra qualche settimana spiegheranno la sentenza di oggi e non è detto che non esprimano una valutazione sull’omogeneità delle due leggi elettorali tra Camera e Senato.

Così trapela dal Colle. E in effetti pare che la discussione in Consulta si sia dilungata proprio sul tema dell’omogeneità dei due sistemi. Rivisto l’Italicum, resta in piedi un impianto che alla Camera prevede un premio di maggioranza per la lista che raggiunga il 40 per cento dei consensi. Non così al Senato dove non c’è premio, ma c’è uno sbarramento su base regionale all’8 per cento. Ci sono i capilista bloccati, cioè decisi dai partiti. Non c’è più il ballottaggio. A grandi linee il sistema è di fatto un proporzionale, ma non proprio uguale per entrambe le Camere. Nel discorso di fine anno Mattarella ha chiesto al Parlamento di lavorare per avere un sistema omogeneo. Ma ora è possibile che anche questa grana venga risolta dalla Corte Costituzionale con le motivazioni che andranno a spiegare meglio la chiusa della sentenza di oggi, quel “suscettibile di applicazione immediata” che ha fatto contenti i renziani, i grillini e i leghisti.

Il partito del ‘voto non subito’ non si rassegna. Il Pd naturalmente si spacca. Velenoso il tweet di Enrico Letta:

Pierluigi Bersani attacca: “Il Parlamento comunque si deve esprimere sulla legge elettorale. Abbiamo avuto una legge votata con la fiducia, ora c’è la Consulta… E il Parlamento che fa? Una valutazione dovrà farla o no? Altrimenti andiamo tutti a casa…”. Roberto Speranza pure annuncia così la prossima battaglia: “Il cuore dell’Italicum è saltato: la nostra battaglia politica contro quella legge, per la quale mi sono dimesso da capogruppo, aveva un fondamento. Ora il Parlamento deve lavorare, nei tempi necessari, per un sistema elettorale che rispetti i due principi di un equilibrio corretto tra rappresentanza e governabilità” e non avere “mai più un Parlamento di nominati”.

La maggioranza Dem non renziana resta muta. Franceschini è impegnato a Londra e da lì non si sogna di commentare la fine dell’Italicum. Così anche il ministro Orlando. In Parlamento però si mugugna. “Il sistema va reso omogeneo, non lo è così come è uscito dalla Consulta”, dice Andrea Martella del Pd, veltroniano, in maggioranza nel partito, concordando con Pino Pisicchio che proprio in quel momento sta spiegando ai cronisti: “Sì, il Parlamento deve lavorare su questa sentenza. Soprattutto deve decidere se vuole le coalizioni, che in questo ‘Consultellum’ non ci sono…”. Forza Italia sulla stessa linea: “La sentenza di oggi della Corte Costituzionale conferma l’esistenza di due sistemi elettorali profondamente differenti tra Camera e Senato, con le coalizioni solo al Senato e il premio di maggioranza solo alla Camera e con soglie di sbarramento completamente diverse. Il Paese, come sottolineato dal Presidente Mattarella, ha bisogno invece di leggi elettorali omogenee”, dice il capogruppo al Senato Paolo Romani.

Chi frena sul voto è in allarme. Ci sono gli inconfessabili scongiuri per scavallare la metà di settembre e guadagnare il vitalizio. Ci sono le certezze di chi sa che non verrà ricandidato, in un sistema fatto di capilista decisi dalle segreterie dei partiti. Ma il vento del voto a giugno è forte della propaganda a cinquestelle e leghista, qualora non bastasse quella di Renzi che però fuori dal palazzo è più debole. Due partiti variopinti in un solo Parlamento. E un presidente della Repubblica che non ha intenzione di cavalcare l’una o l’altra onda, ma di fare l’arbitro, come si dice sempre quando si parla di Colle.

Ma l’obiettivo di Mattarella è garantire il funzionamento del sistema. Oltre la sentenza della Consulta, in Parlamento, si vede solo impasse per il momento. Del resto, anche il ‘problema Porcellum’ fu risolto non a caso dalla Corte Costituzionale. Da qui nasce quel “suscettibile di immediata applicazione”, appiglio utile a superare un’eventuale palude parlamentare sulla legge elettorale. Ecco perché proprio su questo la Consulta tornerà nelle motivazioni che potrebbero avviare così il countdown verso il voto anticipato.
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Canta “Superstition” nella hall di un hotel, ma tra il pubblico c’è Stevie Wonder: ne nasce un duetto inaspettato

La sua passione per la musica lo ha portato a diventare un artista di strada, in giro con la sua chitarra per l’America a strimpellare e cantare dove gli capita. Ma Grayson Erhard mai avrebbe pensato che esibirsi nella hall di un hotel a 5 stelle lo avrebbe portato a coronare uno dei suoi sogni di quando era bambino: duettare con una star del calibro di Stevie Wonder.

Il celebre cantante, infatti, stava soggiornando presso l’hotel Anaheim Marriott quando ha sentito un giovane e molto meno famoso collega interpretare la sua Superstition. Wonder ha quindi atteso che il brano finisse per poi avvicinarsi al ragazzo e proporgli un duetto indimenticabile.

L’artista di strada, inizialmente imbarazzato, ha ammesso candidamente di non conoscere il testo della strofe centrali della canzone, ma Stevie Wonder lo ha tranquillizzato, suggerendogli all’orecchio le parole. Grayson ha poi condiviso su Facebook il video girato da una persona del pubblico, video che è diventato subito virale.

La star di colore si trovava in California per partecipare alla celebre National Association of Music Merchants (una delle più importanti fiere dedicate ai prodotti musicali) e ha voluto dedicare la performance improvvisata alla marcia delle donne contro il neoeletto presidente Trump.
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Raggi indagata ma non scaricata. Come i 5s hanno preparato il paracadute per il sindaco di Roma

Sono stati giorni di vertici, incontri, riunioni. Veri e propri gabinetti di guerra per capire come gestire la cosa, dal punto di vista politico e comunicativo. Virginia Raggi, tutto il suo entourage e tutto il Movimento 5 stelle capitolino e nazionale, sapeva che a giorni sarebbe arrivata la notizia d’indagine sul collo della prima cittadina. Quando la Procura si è mossa, tutto era preparato. Abuso d’ufficio e falso in atto pubblico sono i reati contestati.

Imputazioni pesanti, soprattutto da chi ha fatto della diversità morale la propria cifra di governo. Per questo evitare territori scivolosi, buchi comunicativi causati da pressappochismo e impreparazione, è stata la bussola di queste ultime due settimane. Raggi ha riunito il giro più stretto, in costante contatto con i dioscuri nazionali che coadiuvano il Campidoglio, i deputati Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro.

Al centro di tutti i colloqui la gestione di una notizia che non si poteva controllare. La bussola è stata una: evitare il pastrocchio del caso Muraro. Quel groviglio di mail male interpretate, mezzi silenzi e verità monche, che si sono appiccicate per mesi sulla giacca del sindaco e del suo assessore. Di conseguenza la strada scelta era inevitabile: comunicare tutto e subito. Tanto al quartier generale milanese quanto più ai cittadini romani.

Così, poco prima di cena, ecco comparire il post su Facebook: “Oggi mi è giunto un invito a comparire dalla Procura di Roma [il prossimo 30 gennaio, ndr] nell’ambito della vicenda relativa alla nomina di Renato Marra a direttore del dipartimento Turismo che, come è noto, è già stata revocata. Ho informato Beppe Grillo e adempiuto al dovere di informazione previsto dal Codice di comportamento del MoVimento 5 Stelle”.

Poche righe dalle quali viene furbescamente spuntata la parola “indagata”; nelle quali si parla della revoca di Marra Jr. come se fosse elemento di per sé sufficiente a smontare il lavoro dei magistrati che indagano; e in cui ben si sottolinea da un lato la telefonata al fondatore (Pizzarotti non lo fece squillare, e a questo s’aggrapparono per metterlo in naftalina), dall’altro il rispetto delle procedure codici stellati alla mano.

Il sindaco è sotto inchiesta per aver detto alla responsabile anticorruzione del Comune Mariarosa Turchi di aver deciso da sola sulla nomina di Marra Jr (l’ipotesi di falso), nel merito della quale sarebbe invece intervenuto anche il fratello Raffaele. Quanto all’ipotesi di abuso d’ufficio, la sindaca non avrebbe effettuato una comparazione valutativa dei curricula, procedendo a valutazioni parziali sempre sotto l’occhio vigile dell’ex capo di Gabinetto (l’abuso d’ufficio), indagato anch’egli con lo stesso capo d’accusa.

Le ipotesi su cui sarebbe arrivata la comunicazione della magistratura erano note da tempo. E forse il sedimentarsi tra i corridoi di Palazzo Senatorio hanno contribuito a disinnescare lo psicodramma, genere su cui si sono cimentati poco volentieri ma con molto profitto i grillini capitolino ogni qual volta in questi mesi sono stati travolti da una bufera mediatico/giudiziaria. Casi che ormai non bastano le dita di due mani per essere contati.

L’area che ruota attorno a Marcello De Vito, la vera controparte romana della Raggi, e che, per la proprietà transitiva delle cordate politiche, in ultimo fa capo a Roberta Lombardi, lascia trasparire un certo nervosismo, ma sembra aver riposto nel cassetto gli strali d’altri tempi. Una fonte di primo livello imputa al sindaco e al suo entourage la colpa del sostanziale immobilismo dell’amministrazione: “Ogni volta che iniziamo a lavorare sui temi concreti, ecco che spunta l’ennesima grana legata alle nomine o a vicende giudiziarie”. Ma aggiunge anche significativamente: “Il clima è cambiato, Virginia dopo gli ultimi fatti ha capito la lezione, e questa volta la gestirà bene”. De Vito in chiaro detta la linea: “Al sindaco va tutto il mio sostegno e quello dei portavoce comunali del M5s. Governare Roma è un’impresa, la sindaca ce la sta mettendo tutta, e siamo certi che abbia sempre operato avendo come unica bussola l’interesse dei cittadini romani”

Lo stesso Grillo aveva preparato la strada, con il Codice di comportamento pubblicato una ventina di giorni fa. Che eliminava l’equivalenza tra indagine/condanna politica, e da molti è stato letto come un vero e proprio “salva Raggi”. E a qualcosa è servito il paziente lavorio di Fraccaro e Bonafede, in costante via vai tra Montecitorio e il Comune, al fianco del sindaco anche nelle ore della comunicazione della Procura.

Certo, la ricostruzione di un rapporto fiduciario e lontana dall’essere giunta sopra la soglia d’attenzione. I molti critici non hanno perdonato alla prima cittadina il “è uno dei 23mila funzionari del Comune” tributato dalla Raggi all’onnipotente Marra. E insistono con la richiesta di pubblicare (almeno a uso interno) il contenuto delle chat dei “quattro amici”, perché “siamo stufi di venire a sapere le cose dai giornali”.

Nessuno, a nessun livello, ha interesse a scaricare il sindaco in questo momento. La gestione dell’indagine a suo carico, anzi, potrebbe essere l’occasione per ricostruire un rapporto con le varie anime che le si oppongono, e di rilanciare la sua azione di governo. Un’operazione alla portata, ma comunque molto complesso. Il filo che la lega ai vertici del Movimento rimane ancora molto sottile.

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Come è morta Birna? L’hanno cercata in 700 nel paese a sud di Reykjavik con meno di omicidi l’anno

L’Islanda è sotto shock dopo il ritrovamento su una spiaggia del corpo di una giovane ventenne scomparsa otto giorni prima in circostanze ancora misteriose. Un giallo trattato dalla polizia come “omicidio” avvenuto in un Paese dove è bassissimo il tasso di criminalità: la media è infatti di 1,8 all’anno e gli assassini o hanno problemi mentali oppure sono ubriachi.

La vicenda, un noir in stile nordico, si dipana tra ghiacci eterni ed aurore boreali, nel buio del lungo inverno islandese.
Oltre 700 volontari hanno cercata per giorni la ragazza fino al drammatico ritrovamento del corpo ieri su una spiaggia desolata vicino ad un faro a sud di Reykjavik. Una mobilitazione senza precedenti per iPerché l piccolo Paese.

Birna Brjansdottir lavorava in un negozio di abbigliamento. Bella, bionda, occhi chiari, è stata vista l’ultima volta il giorno della sua scomparsa intorno alle 5 del mattino, ripresa dalle videocamere della sorveglianza. Le immagini la ritraggono mentre attraversava da sola le strade innevate e invase dalla nebbia dopo avere acquistato un kebab e avere trascorso la notte nei bar della capitale. Dopo la sua scomparsa furono ritrovate le sue scarpe nel porto di Hafnarfjordur, a sud della capitale, non lontano dal molo dove era ormeggiato un peschereccio groenlandese, il Polar Nanoq.

Nei video compare anche una piccola macchina rossa parcheggiata vicino al peschereccio intorno alle 6 e mezzo del mattino, identica a un veicolo osservato vicino al posto dove Birna era stata vista per l’ultima volta. All’interno dell’auto rossa sono state rinvenute tracce di sangue della ventenne. Ore dopo la notizia della scomparsa, il Polar Nanoq ha mollato gli ormeggi ma le forze della sicurezza, insospettite, sono intervenute con un elicottero e hanno interrogato l’equipaggio. La nave è stata obbligata a rientrare a Reykjavik e due marinai sono stati fermati, ma hanno negato le accuse.

Dopo il ritrovamento del corpo la polizia ha annunciato che tratterà il caso come un “omicidio” sebbene al momento “sia ancora presto per determinare la cause della morte”. Secondo il quotidiano locale Iceland Monitor, gli inquirenti sarebbero convinti che la ragazza possa essere stata uccisa all’interno dell’auto. Ma mancano conferme ufficiali.

Numerosi gli interrogativi ancora senza risposte. Dove e da chi è stata uccisa la giovane, ma soprattutto manca il movente.
Si indaga su un simile caso avvenuto l’anno scorso in Danimarca ai danni di una 17enne scomparsa e poi trovata morta e sui possibili collegamenti. L’Islanda oggi si è unita nel dolore ricordando Birna, in attesa di risposte.
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Nel Palazzo si risente odore d’Ulivo. In un convegno a Montecitorio tante facce della stagione prodiana

Che dice, “si sente odore di Ulivo?” Forse per qualcuno del Pd è un fantasma, temendolo lo tiene alla larga ma nei palazzi della politica in questi giorni si sente, eccome. E ad alimentarlo è forse il rinnovato attivismo di Romano Prodi che nel giro di una settimana ha rilasciato diverse interviste, facendo sentire più volte come la pensa. A tutto campo: sull’Europa, su Trump e quel rammarico sullo stallo della politica italiana che non lo lascia per nulla sereno. Così la domanda maliziosa sull’aria ulivista che aleggia, arriva fino al parterre messo su da Walter Verini e Sandra Zampa. Con la padrona di casa Laura Boldrini viene presentato il racconto del viaggio ad Auschwitz di una scuola di Gaggio Montano in provincia di Bologna. Ragazzi accompagnati da Francesco Guccini che sessant’anni fa compose la canzone simbolo della tragedia dei campi di sterminio.

Verini e Zampa però non sono due parlamentari qualsiasi. Sono i due collaboratori più stretti di Walter Veltroni e Romano Prodi, ospiti eccellenti insieme a Guccini della ‘prima’ del docu-film.

Certo, la serata sollecitava tutt’altre riflessioni. Ma gli incontri che abbiamo fatto non potevano non farci notare parecchi altri indizi dell’aria di Ulivo che si respirava. E così tra i banchi dell’auletta di Montecitorio, oltre a Veltroni, abbiamo incrociato Arturo Parisi, Giovanna Melandri e Cesare Damiano, già ministri dei due governi del professore. “Si sente quell’odore di ulivo penetrante, quello dei frutti appena colti”, ci racconta un collaboratore che arriva quasi alle minacce per proteggere il suo anonimato. Sorridono i giornalisti Giovanni Minoli e Furio Colombo. Hanno fiutato anche loro guardando la carrellata di personaggi che “per puro caso” si sono ritrovati. Manca Pierluigi Bersani emiliano e nostalgico di quella stagione che “ci sarebbe voluto essere” ma l’appuntamento gli è sfuggito.

Serata toccante, la proiezione non lascia molto spazio alla politica e ai suoi scenari. “Sono una mummia”, ci risponde il professore che chiude la bocca sfoggiando quel sorriso sornione ed enigmatico che in tanti conoscono. Sul perché di tanto attivismo chiediamo aiuto a Sandra Zampa, punto di riferimento a Montecitorio per interpretare il pensiero prodiano. “Vuole dire a tutti datevi una mossa, l’Ulivo che non è irripetibile non significa altro che questo”, un centrosinistra riunito non è impossibile. Il progetto di Pisapia? Possibile che “lo veda bene”, come chiunque dia il suo apporto a rimettere insieme i pezzi. Il Professore prende la via dell’uscita con la moglie Flavia e Arturo Parisi. Allora riproviamo a stuzzicare sulla voglia di Ulivo che si sta facendo risentire. “Macché, ci vediamo in continuazione”, replica il compagno di ventura allargando le braccia, e “non è ancora primavera”. Già, non ancora.

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