L’avvocato di Fabio Di Lello: “Italo D’Elisa non si era mai pentito di aver ucciso Roberta. Faceva lo strafottente con la moto”

“Italo D’Elisa, dopo aver ucciso Roberta, nell’incidente, non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito di Roberta. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi”. Così, intervistato da Radio Capital, l’avvocato Giovanni Cerella, già legale di parte civile per il procedimento che riguardava l’incidente in cui aveva perso la vita la donna, ora difensore del marito, Fabio Di Lello, che ha sparato a D’Elisa.
“D’Elisa – dice l’avvocato – tre mesi dopo l’incidente aveva ottenuto il permesso per poter tornare a guidare la moto, perché gli serviva per andare a lavorare”.

“Fabio era sotto shock, era depresso per la perdita della moglie, andava molto spesso al cimitero – spiega ancora il legale – pensava giustizia non fosse stata fatta ma incontrandolo non ho mai avuto l’impressione che stesse ipotizzando una vendetta. Sono rimasto sbalordito quando ho saputo. Lui non aveva dimestichezza con le armi”.

Infine, sulla tesi difensiva di D’Elisa secondo la quale al momento dell’incidente Roberta Smargiassi avrebbe indossato male il casco Cerella dice: “C’è una perizia che ha fatto piena luce sulle responsabilità”.

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Emendamento Pd al decreto Salva Banche per reinserire i 97 milioni a garanzia della Ryder Cup

Erano usciti dalla porta. E ora sono rientrati dalla finestra. I 97 milioni di euro per la Ryder Cup che il Governo aveva inserito nella legge di Bilancio, successivamente depennati dopo le polemiche legate alle “marchette”, sono tornati. Attraverso una proposta di modifica alla legge di conversione del decreto Salva Banche – quello per intendersi varato il 23 dicembre scorso dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per stanziare i 20 miliardi necessari al salvataggio del Monte Paschi di Siena.

Con un emendamento presentato il 31 gennaio dal Pd Renato Guerino Turano infatti si chiede in sostanza di reinserire la garanzia dello Stato per un ammontare fino a 97 milioni di euro a favore della competizione di golf. Soldi che serviranno unicamente come garanzia, quindi, per la “realizzazione del progetto Ryder Cup 2022 relativamente alla parte non coperta dai contributi dello Stato”.Se ne è accorto Giuseppe Vacciano, senatore ex M5S noto per essere il parlamentare che non riesce a dimettersi dal suo scranno a causa della bocciatura delle sua richiesta da parte dei colleghi di Palazzo Madama (tre tentativi andati a vuoto). “La marchetta di cui non riusciamo a liberarci, l’irrinunciabile Ryder Cup garantita da soldi pubblici”, scrive Vacciano su Facebook allegando copia dell’emendamento.

Difficile dire quale sia il legame tra il golf e il provvedimento rivolto alla messa in sicurezza degli istituti di credito italiani, Mps in primis dopo il fallimento della strategia dell’ex governo Renzi per la ricapitalizzazione ad opera dei privati. Più facile ricordare le polemiche montate alla fine dell’anno scorso, quando erano in discussione gli emendamenti alla legge di Bilancio. Nel lungo articolato (104 articoli) della legge di Bilancio presentato dal Governo Renzi c’erano tantissime misure. Alcune prioritarie, altre meno.

Tra queste ultime, ad esempio, c’erano i fondi per il Centro meteorologico europeo, quelli per la Coppa del mondo di sci o, appunto, le risorse per la Ryder Cup. Casi che sollevarono polemiche perché, mentre da un lato venivano finanziate questi progetti meno “prioritari”, il Governo stoppava un altro emendamento alla legge di Stabilità che stanziava 50 milioni di euro per l’emergenza sanitaria di Taranto legata all’Ilva. Ci fu un acceso scontro tra l’allora premier Matteo Renzi e il presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia sulle responsabilità per la cancellazione dell’emendamento salva Ilva.

Dopo le polemiche, sparirono anche i 97 milioni di euro per la Ryder Cup. Ma sono tornati. Nella legge di conversione del decreto per il salvataggio Salva Monte Paschi.

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Michele Emiliano: “Massimo D’Alema? Non sono il suo candidato”

“Lo scopo dell’operazione è tenere insieme il partito. Il mio timore è che ci sia un accordo, spero tacito, sulla secessione tra Renzi e D’Alema. Il primo si comporta in modo speculare al secondo. Nessuno dei due vuole fare il congresso ed entrambi vogliono farsi il proprio partito”. Lo ha detto Michele Emiliano in un’intervista all’Unità.

“Io sono un nativo Pd – ha continuato -, non sono mai stato iscritto a nessun altro partito, in Puglia sono sempre stato il principale oppositore di D’Alema e vedo che adesso mi fanno passare per il suo candidato”, D’Alema non mi ha parlato per un anno perché ho sostenuto Renzi, portandogli l’80% dei voti pugliesi. Col senno di poi aveva ragione lui. Ho commesso un errore a sostenere Renzi, ma non ho mai fatto parte della sua area politica Io e D’Alema ci ascoltiamo e ci rispettiamo, mai nostri rapporti si fermano qui. Non ho mai fatto parte né faccio parte di alcuna corrente”.

Parlando a Radio24, Emiliano ha poi parlato di Renzi. “Renzi ha sbagliato non solo tutto il resto, ma anche a fare legge elettorale. E ci ha portato, attraverso la Corte costituzionale, alla prima Repubblica”. Per Emiliano, “la gravità dei danni che Renzi ha provocato al Paese e al Pd sono senza precedenti; e al di là del fatto che oggi non scrive niente nessuno, nei libri di storia ci saranno queste cose”. “E, anche se dubito che qualcuno parlerà di me nei libri di storia, io vorrei evitare di stare dalla parte sbagliata”.

Per Emiliano “non è rimasto in piedi nulla di quello che in tre anni il governo Renzi ha fatto, se non delle cose molto negative”. Emiliano ha parlato ad esempio delle norme sul lavoro “che non hanno portato a nessun particolare risultato tant’è che stiamo festeggiando il 40%: non il 40% dei consensi, ma della disoccupazione giovanile che è una catastrofe”.

“Renzi – ha ricordato Emiliano – per me era una speranza straordinaria, ho investito su di lui moltissimo anche in termini di immagine, fino a quando ho compreso che stava inanellando una serie di errori uno più grave dell’altro e non era possibile influenzare le sue decisioni in nessuna maniera”.

“Un partito – ha rilevato – è un luogo dove un leader non fa tutto da solo, ma costruisce con la comunità una sorta di verifica permanente di ciò che fa, e questo dà assicurazione ai cittadini”. “Questo – ha detto ancora – non l’ho visto e i risultati sono disastrosi”. Su un eventuale scissione, Emiliano ha spiegato: “Se io capisco che il Pd è stato oggetto di un golpe, e quindi di una appropriazione al di là delle regole della politica e della democrazia, è chiaro che non posso rimanere nel Pd. Questo è inevitabile”.

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La Procura apre un fascicolo sul presunto dossier Raggi contro De Vito. L’amarezza di Grillo: “Forse abbiamo sottovalutato”

Virginia Raggi, accusata di abuso d’ufficio e falso, non è ancora stata interrogata dalla Procura a proposito della nomina di Renato Marra a capo del dipartimento Turismo, ma in casa 5Stelle scoppia già un altro problema. In realtà era un problema latente, forse sottovalutato come avrebbe ammesso lo stesso Beppe Grillo parlando con le persone a lui più vicine. Si tratta del presunto dossier contro Marcello De Vito, attuale presidente dell’Assemblea capitolina. Questo dossier sarebbe stato stilato un anno fa – secondo quanto ha rivelato Il Fatto Quotidiano – dall’attuale sindaco di Roma, dall’assessore Daniele Frongia e dal vicepresidente dell’assemblea Enrico Stefàno per far fuori Di Vito dalla competizione interna ai 5Stelle per la carica di sindaco. In pratica dalle comunarie. Così la procura di Roma ha aperto un fascicolo, al momento senza ipotesi di reato e indagati, per far luce su questo dossieraggio interno ai 5Stelle poiché dietro queste carte potrebbe esserci Raffaele Marra, ora in carcere per corruzione. Chi ha parlato con il leader M5S lo ha sentito amareggiato: “Forse un anno fa abbiamo sottovalutato cosa stava succedendo”.

Nel fascicolo in questione De Vito veniva accusato di aver compiuto una serie di atti contrari alla buona amministrazione e un reato. Cioè un abuso d’ufficio in relazione a una richiesta di accesso agli atti. De Vito, il 7 gennaio scorso, in piena campagna per le comunarie, viene convocato dai tre consiglieri alla presenza dei parlamentari romani tra cui Alessandro Di Battista, Roberta Lombardi e Carla Ruocco. Lui si difenderà poi con una mail, ma quando viene fuori la notizia di questo dossieraggio interno ai 5Stelle, il senatore Andrea Augello del gruppo Idea-Cuoritaliani presenta un esposto in Procura. E infatti sabato scorso è stata sentita come testimone Roberta Lombardi e, secondo quanto riportato sempre da “Il fatto quotidiano”, avrebbe riferito che dietro le accuse formulate a De Vito ci sarebbe stato Raffaele Marra, l’ex braccio destro di Virginia Raggi arrestato il 16 dicembre scorso per corruzione. Lo stesso De Vito sarebbe stato sentito dai pm di piazzale Clodio ed altri esponenti del movimento pentastellato saranno sentiti prossimamente dagli inquirenti. Con ogni probabilità chi era presente a quella riunione.

Andrea Augello ricorda: “Quando ho deciso di rivolgermi alla magistratura per fare chiarezza sulle inquietanti voci relative ad una presunta attività di dossieraggio, basata su false informazioni e finalizzata ad eliminare il consigliere De Vito dalla corsa per le primarie nel M5S che si concluse con la vittoria della Raggi, l’assessore Frongia minacciò querele. I primi interrogatori della Procura confermano invece lo squallido regolamento di conti che lacerò i Cinque stelle, aprendo una faida senza fine”.
Frongia, tirato in ballo insieme alla stessa Raggi, non ci sta e posta su Fb: “Continuano a uscire sui giornali ricostruzioni fantasiose su chat e dossier, prive di fondamento. Il senatore Andrea Augello da luglio continua a rilasciare dichiarazioni prive di senso sul mio conto. Forse ha un’ossessione per me”. Giovedì la sindaca dovrebbe essere sentita dai magistrati nell’ ambito dell’inchiesta sulla nomina di Renato Marra, fratello di Raffaele, per cui risulta indagata. In quell’occasione non è detto che i pm non le chiedano qualcosa anche su questo nuovo fronte giudiziario.

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Boy Scout aperti anche ai transgender, la rivoluzione negli Stati Uniti

Sentirsi di un sesso diverso da quello che il proprio corpo esteriormente suggerisce può essere difficile da accettare per alcuni, ma essere rifiutati dalla comunità in cui si vive è la peggior condanna possibile. Per fortuna, tuttavia, i piccoli transgender potranno sentirsi più accettati e condividere coi loro coetanei esperienze uniche: da lunedì 30 gennaio, infatti, saranno ammessi nel gruppo dei Boy Scout. Ma solo negli Stati Uniti.

Ad annunciare la novità che va incontro ai diritti della comunità LGTB è stato lo stesso corpo dei Boy Scout of America. La decisione va a modificare il precedente statuto, secondo cui l’eleggibilità o meno dei ragazzi veniva stabilità in base al sesso dichiarato all’anagrafe.

“Essendo una delle più grandi organizzazioni giovanili d’America, la nostra continua a lavorare per portare benefici a quanti più ragazzi, famiglie e comunità possibile” fa sapere Effie Delimarko, il direttore del gruppo. “Siamo impegnati a identificare un programma che possa essere al servizio di tutti” continua poi.

Tutto è nato dalla segnalazione di una mamma del New Jersey, che ha fatto causa al consiglio di zona per suo figlio Joe, cacciato dagli scout in quanto identificato come transgender. La storia di Joe e della mamma Kristie aveva fatto il giro dei media a stelle e strisce, poiché l’avvocato che rappresentava la famiglia aveva parlato di “violazione delle leggi statali” nella discriminazione sessuale del ragazzo. “Sono sconvolto e arrabbiato” aveva detto Joe alla CNN. “Non è giusto escludermi solo perché nato femmina”.

La risoluzione dei Boy Scout d’America arriva dopo anni dalla prima richiesta della comunità LGTB. Nel 2013 il consiglio direttivo aveva già deciso che i ragazzi gay avrebbero potuto iscriversi all’organizzazione, mentre nel 2015 si aprivano le porte ai capo gruppi omosessuali. Sui transgender, invece, si è deciso solo ora, all’inizio del 2017.

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Bad Bank europea da mille miliardi per i crediti deteriorati. L’idea dell’Eba

Torna l’idea di una bad bank europea per gestire i 1.000 miliardi di crediti deteriorati (npl) del Vecchio Continente ma, questa volta, senza venire meno alle regole Ue di aiuti di stato e bail in.
La proposta arriva dal presidente dell’autorità bancaria europea, l’italiano Andrea Enria e riceve anche il plauso dell’Esm, il fondo salva stati più volte chiamato in causa per i salvataggi bancari, proprio perché non distribuisce gli oneri sui contribuenti degli altri paesi.

L’idea, che comunque bisognerà vedere quale accoglienza avrà nelle capitali europee e sul mercato, non è nuova e se ne parlava già nel 2009. Potrebbe, forse, essere utile per gli istituti italiani che detengono il 16% della massa dei crediti che oramai ha raggiunto i 1.000 miliardi e verso i quali la Bce non allenta la presa. In un’intervista a Repubblica la presidente del consiglio di vigilanza dell’istituto centrale Daniele Nouy infatti sprona ad affrontare “il rischio di credito e i crediti deteriorati”. La Nouy sarà martedì e mercoledì di questa settimana a Roma per incontrare sia i responsabili della Banca d’Italia che diversi banchieri. Si parla di Massiah (Ubi), Viola (Veneto banca e Popolare Vicenza), Castagna (Bpm) e Papa (Unicredit) ma la lista non è esaustiva. Sono di sabato le parole del governatore Visco che ha chiesto di agire sugli Npl ma ha ribadito come le banche sane non debbano avere fretta nella cessione invitando anzi gli istituti a gestire questi crediti invece di venderli in blocco.

La soluzione individuata da Enria quindi sembra cercare una soluzione per risolvere ‘il fallimento del mercato’ e non spalmare l’onere sugli altri stati aggirando le regole del bail in. Circostanza questa che provocherebbe il veto della Germania.

In sostanza come ha spiegato il responsabile dell’Esm questa ‘bad bank’ potrebbe ricevere crediti dalle banche per 250 miliardi. Il trasferimento, secondo Enria, avverrebbe al loro valore di mercato e la differenza fra gli attuali prezzi di mercato e il valore reale potrebbe essere teoricamente esente dall’aiuto di stato e coperta, ad interim, dalla stessa Bad bank e da investitori privati. Nel caso la bad bank non riuscisse poi a cedere questi crediti in un tempo fissato (per esempio tre anni) allora le banche dovrebbero riprendersi questi Npl e assorbire in toto le perdite facendo scattare la ricapitalizzazione preventiva da parte dei singoli stati membri (come nel caso Mps). Misura accompagnata quindi dal bail in con perdite sugli azionisti. Non ci sarebbe così una mutualizzazione dei rischi sugli altri stati dell’Unione e si rispetterebbero le regole e le risoluzioni sugli aiuti di Stato. Una circostanza che non convince il docente della Bocconi Carlo Alberto Carnevale Maffè secondo cui proprio per questo “nasconde solo sotto un tappeto blu a stelle i crediti” comprando tempo, ma “i rischi restano tutti a obbligazionisti e azionisti” e agli stati nazionali.
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M5s, intervista a Massimo Bugani: “Pronti a governare, ma servono persone preparate. Pizzarotti ha lasciato M5s per il potere”

“Se me lo chiede le dico sì, che siamo pronti per le urne e per governare: ma c’è bisogno di un progetto coeso, non possiamo lasciare più niente al caso. Abbiamo bisogno di gente preparata. Ci sono alcuni persone con cui stiamo collaborando – ma non posso dirle i nomi – e queste saranno importanti e decisive per portare il MoVimento a governare”. Di più non scuce. Massimo Bugani, capogruppo M5s a Bologna, da sempre vicino a Beppe Grillo e attivo nella Casaleggio Associati, osserva dall’alto della torre degli Asinelli la rapida evoluzione dei Cinque Stelle che, parola di Grillo, dopo la bocciatura all’Italicum sono pronti per una vittoria con il voto a primavera.

A gonfie vele nei sondaggi, ma con le realtà locali piene di problemi tra fuorusciti e indagati. Cosa succede nel MoVimento?
“Succede che manca esperienza nella gestione delle tensioni. Mi spiego: nei vecchi partiti chi inizia a far politica passa per ruoli nei quartieri, poi nei consigli cittadini e poi finisce magari in Regione. Un percorso con una rigidità militare che in qualche modo ti prepara, in cui i partiti quando c’è un problema si chiudono attorno a te. Da noi questa rigidità, nonostante le tante illazioni che vengono fatte, non esiste. Contano i cittadini, le idee del M5s, non i percorsi rigidi. Ma in qualche modo è una mancanza che alla fine la paghi: con la rapida crescita che abbiamo avuto, basta un piccolo errore che ti trovi sotto attacco da tutte le parti e fai fatica a difenderti”.

Attacchi che arrivano anche dagli ex cinquestelle. Dopo Effetto Parma di Pizzarotti è nato anche Effetto Genova dei fuorisciti consiglieri grillini. Sta nascendo un sotto movimento degli scontenti?
“Ma questa cosa c’è da sempre. E’ nata proprio nel sottobosco emiliano e ora si sta espandendo a macchia d’olio. Ci sarà sempre chi non si adatta, chi vuole andare alla ricerca di potere. Sì, non nego che in alcune città ci sono dei problemi, ma li stiamo gestendo. Diciamocelo: Grillo e Casaleggio hanno dato la possibilità a chiunque, a cittadini comuni, di candidarsi. E’ una cosa totalmente fuori dalle dinamiche di partito. E allora accade che si scoprono persone straordinarie come Di Battista o Di Maio, ma anche attivisti totalmente “sbagliati”, che non credono nei nostri valori”.

E allora come si fa a scegliere le persone giuste da candidare? Che consiglio darebbe a Grillo?
“Io posso parlare per Bologna. Da noi, a livello comunale, abbiamo sempre promosso persone conosciute, che abbiamo visto crescere fin dal 2005, gente fidata, che sappiamo come lavora, con cui costruire progetti chiari e visibili. L’unico consiglio che potrei dare a Beppe è di prendere una strada come questa, di guardare bene con chi lavori”.

Però con comunarie lampo o scelte fatte fra pochi iscritti il problema si ripresenta.

“Per me, se continueranno ad esserci persone che lasciano M5s perchè non si attengono o non credono nella linea, questo farà soltanto bene al MoVimento: migliorerà in maniera naturale. Spesso si tratta di persone che cercano visibilità ma che poi finiscono nell’anonimato. M5s ha dei dei doveri da rispettare, degli obiettivi da perseguire: può farlo solo chi ha una visione comune”.

Il riferimento è a Pizzarotti?
“Vale in generale. Pizzarotti, legittimamente, fa politica: solo che la fa in altri modi rispetto a M5s, con un’altra etica. Con suoi obiettivi, che poi sono obiettivi di potere. Lo stesso fece Favia, che come Federico aveva obbiettivi romani. E’ inutile che ci giriamo intorno: Pizzarotti è come una persona che vuole lasciare la moglie facendole crederle che la colpa è proprio della moglie. Ma non è così: lui ha voluto evitare le battaglie che sono nelle corde dei Cique Stelle, non ha creato la partecipazione con i cittadini, non ha fatto i dibattiti che facciamo ovunque, non si è impegnato sul referendum per la scuola. Lui ha scelto la sua strada, quella di dialogare con il potere. Non è la nostra”.

Per questo lei ha deciso di prendere in mano direttamente la situazione di Parma?

“Guardi, non è che la prendo in mano io. A Parma M5s di fatto non c’è mai stato: poco dopo le elezione si è visto che strada ha preso. Dunque siamo agli albori, dobbiamo ricostruire il moVimento. Io andrò a Parma l’8 febbraio prima di tutto per ringraziare due consiglieri (Nuzzo e Savani, i dissidenti, ndr) e con loro ragionare se ci sarà la possibilità per creare eventualmente una lista in vista delle amministrative. Ma è soltanto una fase iniziale. Sia chiaro, non abbandoneremo Parma”

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Francia, Hamon supera Valls alle primarie del partito socialista. Vince il candidato anti establishment

La sinistra francese ha finalmente il suo candidato. Con il risultato (ancora provvisorio) di 58,65% a 41,35%, il frondista Benoît Hamon conferma l’exploit del primo turno, battendo Manuel Valls al ballottaggio delle primarie.

Al di là del risultato, il Partito Socialista può dirsi soddisfatto in termini affluenza. A metà pomeriggio avevano già votato 1,3 milioni di persone, il 22,8% in più rispetto a domenica scorsa.

Dopo Nicolas Sarkozy, l’elettorato d’oltralpe mette alla porta anche l’ex Primo Ministro, confermando quella voglia di cambiamento che si era già manifestata a novembre in occasione delle primarie della destra vinte da François Fillon. Ed è stata proprio la strategia del “tutto tranne Valls” la chiave di volta con cui Hamon è riuscito a rimontare nei sondaggi aggiudicandosi la candidatura alle prossime presidenziali. La sfida in questa seconda tornata elettorale ha visto contrapporsi le due “sinistre inconciliabili” che in questi ultimi anni hanno spaccato il partito a metà.

Dato inizialmente come favorito, nel corso della sua campagna elettorale Valls ha perso progressivamente punti, costretto a barcamenarsi tra un programma povero di novità e la difesa dell’operato del governo, il più impopolare nella storia della V Repubblica. Protezionista sul tema dei migranti, conservatore in campo delle politiche sociale e rigido sulla laicità di stato: le proposte dell’ex premier non hanno saputo convincere i simpatizzanti di sinistra, che hanno respinto la sua linea politica, giudicata troppo istituzionale.

Dal canto suo, l’ex ministro dell’istruzione ha saputo sfruttare al meglio la situazione, concentrando la sua campagna su alcune proposte innovatrici come il reddito universale di cittadinanza, argomento che in questi ultimi giorni ha occupato una buona parte del dibattito politico.

Oltre a contare sull’appoggio dell’amico Arnaud Montebourg (arrivato terzo al primo turno), Hamon ha ricevuto il sostegno di tutta l’ala frondista del partito, che con questa vittoria è riuscita a prendersi una rivincita sul governo di Hollande.

Nella settimana che ha separato i due turni, lo scontro tra i due candidati si è fatto più acceso, con il disperato attacco di Valls che si è scagliato contro il suo avversario tentando il tutto per tutto. Rimasto sulla difensiva, Hamon ha saputo gestire lo stress del rush finale, mostrandosi più sicuro e determinato.

Per il nuovo leader della sinistra, però, la strada per l’Eliseo è ancora lunga. Secondo gli ultimi sondaggi, il candidato del Partito Socialista si fermerebbe al quinto posto, lasciando a François Fillon e Marine Le Pen la sfida del ballottaggio.

Il primo compito del nuovo candidato sarà quello di riunire le gauche sotto un’unica bandiera, cercando di evitare una diaspora elettorale che andrebbe a favorire altri candidati, primo fra tutti Emmanuel Macron. La vittoria di Hamon potrebbe infatti giovare all’ex ministro dell’economia, che grazie alle sue proposte social-liberali avrebbe una forte influenza sui simpatizzanti di Valls. Secondo un’indiscrezione diffusa venerdì dal sito Europe 1, un gruppo di deputati vicino all’ex-premier sarebbe già pronto ad abbandonare il Partito Socialista per unirsi a Macron. A questo si aggiunge poi la figura di Jean-Luc Melenchon, ex-socialista candidato per la sinistra radicale, che andrebbe a rubare consensi proprio tra gli elettori di Hamon.

Il Partito socialista si ritrova così in balia dei suoi avversari, incapace di trattenere a sé quella base elettorale necessaria per ripartire. Per riacquistare credibilità, Hamon dovrà incarnare un’alternativa politica convincente, legata a quei valori della sinistra francese che in questi ultimi anni sembrano essersi persi.
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Proteste contro Donald Trump all’aeroporto di New York per la stretta sull’immigrazione. Primi ricorsi contro il tycoon

Sono già arrivati i primi ricorsi contro la stretta sull’immigrazione decisa dal presidente Donald Trump. Il Jfk, il principale aeroporto di New York, si è trasformato nel simbolo della protesta contro l’ordine esecutivo con il quale ha sospeso temporaneamente l’arrivo di tutti i rifugiati e delle persone provenienti da sette Paesi islamici (Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen). Centinaia di persone si sono riversate davanti ai terminal con cartelli e striscioni favorevoli all’accoglienza, chiedendo la liberazione dei passeggeri detenuti in base al nuovo bando (molti in possesso di regolare green card).

Tra le centinaia di persone che hanno protestato in favore della libertà, anche Micheal Moore, il noto regista “controcorrente”, che dai suoi account social ha sollecitato a prendere parte alla protesta e ha trasmesso una diretta sulla sua pagina Facebook. Migliaia di utenti hanno commentato e condiviso le proprie storie.

Vicinanza a chi è sceso in strada è stata espressa anche da Justin Trudeau, primo ministro canadese, che, di contro a quanto deciso da Trump, si è dimostrato favorevole all’accoglienza: “A tutti coloro che scappano dalle persecuzioni, dal terrore e dalla guerra, i Canadesi sono pronti ad accogliervi, indipendentemente dalla vostra fede religiosa. La diversità è la nostra forza”, ha scritto sulla sua pagina Facebook.

A mettere un po’ di chiarezza nella situazione è stata Ann Donnelly, giudice federale di New York, che ha emesso un’ordinanza di emergenza che temporaneamente impedisce agli Stati Uniti di espellere i rifugiati che provengono dai sette paesi a maggioranza islamica soggetti all’ordine esecutivo emanato dal presidente Donald Trump, che ha congelato gli arrivi da quei paesi per tre mesi. L’ordinanza di emergenza del giudice Donnelly annulla una parte dell’ordine esecutivo del presidente Donald Trump sull’immigrazione, ordinando che i rifugiati e altre persone bloccate negli aeroporti degli Stati Uniti non possono essere rimandate indietro nei loro paesi. Ma il giudice non ha stabilito che queste stesse persone debbano essere ammesse negli Stati Uniti ne’ ha emesso un verdetto sulla costituzionalità dell’ordine esecutivo del presidente.

I legali che hanno citato in giudizio il governo per bloccare l’ordine della Casa Bianca hanno detto che la decisione, arrivata dopo un’udienza di urgenza in una corte di New York, potrebbe interessare dalle 100 alle 200 persone che sono state trattenute al loro arrivo negli aeroporti statunitensi sulla base dell’ordine esecutivo che il presidente Donald Trump ha firmato venerdì pomeriggio, una settimana dopo il suo insediamento.


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Rimini. Renzi riunisce gli amministratori Pd ma si ferma solo per lanciare il nuovo azzardo: 40 per cento per evitare il caos

“Non possiamo essere accusati per la riforma costituzionale e poi anche per le complicazioni assurde della sconfitta. Prima il rischio autoritario e ora le larghe intese… C’è un modo per evitare il caos: arrivare al 40 per cento!”. La sala del Palacongressi di Rimini viene giù in applausi. Matteo Renzi, figura tutta in nero casual sul palco, è a metà del suo intervento di un’ora davanti agli amministratori locali del Pd. Si è già goduto la standing ovation quando lo hanno chiamato sul palco. Roberto Speranza e Nico Stumpo, i due bersaniani venuti in terra ‘ostile’, si guardano intorno sperduti e poi sono costretti ad alzarsi anche loro. Renzi d’altronde non li attacca, non attacca nemmeno Massimo D’Alema che da Roma ha evocato la scissione del Pd. Il segretario pensa invece a fissare il prossimo azzardo: conquistare il 40 per cento alle prossime elezioni col premio di maggioranza per governare. Un voto che Renzi vuole vicino perché “l’Italia torni a contare in Europa e non giochi in serie B”.

E’ la sua nuova roulette russa (politica). Ma nella continua scommessa Renzi trova la sua ragion d’essere (politica). Lo ha fatto puntando al referendum, dopo la batosta delle amministrative. Lo fa di nuovo adesso, dopo la sconfitta referendaria. Il sistema proporzionale disegnato dalla sentenza della Consulta sull’Italicum gli sta bene. “Verificheremo in Parlamento se si potrà cambiare”, dice timidamente a Rimini. L’offerta alle altre forze politiche – leggi: a Forza Italia – è di cambiare subito, se si vuole. Una finestra di disponibilità che si chiude, se non si va al voto entro giugno, dicono i suoi. La scommessa è in questo pacchetto.

Al 40 per cento “noi ci siamo abituati”, dice pensando alle europee del 2014 e con una punta di polemica implicita contro la minoranza interna. Nei pensieri di tutti c’è il Massimo D’Alema che ha appena finito di evocare la scissione da Roma. Dalla prima fila, Speranza ascolta nervoso: c’era pure lui da D’Alema prima di venire qui. Ma Renzi non polemizza con gli anti-renziani del Pd: li ignora. E’ convinto che i bersaniani non seguiranno Massimo: bloccati da quell’8 per cento di soglia che complica l’accesso al Senato per le forze più piccole. Non a caso agita il drappo rosso dei posti in Parlamento come davanti a tori pronti per la corrida: “I capilista sono cento, poi ci sono le preferenze… E lo dico a qualcuno…”. Non sono tanti, ma ce n’è per più di qualcuno.

Semplifica. “La prossima competizione elettorale sarà una competizione a tre: il Pd, l’area di centrodestra che vedremo se sarà più vicina al Ppe o se Berlusconi e Salvini torneranno insieme, sembra Beautiful….”, risate in sala. E “…un’area indistinta… il M5s…”. Stop.

Renzi immagina dialoghi con Giuliano Pisapia per la costruzione di un centrosinistra. “Deve farlo però, iniziare subito”, avverte il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina che incrociamo al bar del Palacongressi. L’ex sindaco di Milano non vuole il listone unico, ma si vedrà. Il tutto passa attraverso accordi a livello territoriale, per le singole candidature in ogni singolo collegio. In modo da fare il pieno per scongiurare il rischio di dover governare con Berlusconi dopo il voto. Eventualità che Renzi ha ben presente e mette nel conto. Ma preferisce puntare alto: sfida aperta al M5s. Altro che D’Alema. “I giornalisti si aspettano che replicheremo ad altre assemblee: ma gli è andata male. Riprovare prego. L’avversario politico non è chi cerca di fare polemica nella nostra area, ma chi scommette sulla paura, l’individualismo, l’insicurezza…”.

Dunque i cinquestelle, quelli che possono contendere il tanto agognato 40 per cento. Con le loro “post-verità”. E quelle “trasmissioni televisive con i giornalisti che le cavalcano… Ma dov’è l’ordine dei giornalisti in questi casi?!”, urla il segretario e qui l’assemblea si scatena con lui in altrettante urla e applausi. Speranza e Stumpo restano impassibili. Il segretario è in campagna elettorale, anche se non lo dice. “Prima o poi si voterà, entro un anno o quando sarà. Ma c’è un solo modo per non farlo: dichiarare guerra a qualcuno e mi sembra un po’ forte…”. Qui anche i due bersaniani accennano un sorriso, cedono alla battuta. Poco dopo Speranza si sganascia dalle risate quando Renzi racconta della sua vita attuale, più famiglia e meno politica. “Mi piace fare la spesa. L’altro giorno ho incontrato uno al supermercato che mi ha detto: ‘Ma tu che ci fai qui? Io comunque ho votato no’. Gli ho risposto: allora, hai capito che ci faccio qui…”.

La battuta non gli manca. Del resto, a Rimini ci è arrivato riposato nel primo pomeriggio, direttamente da casa a Pontassieve. Si è risparmiato la “carrellata” (parole sue) di amministratori che si alternano sul palco dal mattino. Ci sono i governatori Nicola Zingaretti e Stefano Bonaccini. I sindaci che lui coccola, come Mattia Palazzi di Mantova, il fedelissimo Antonio Decaro di Bari, Dario Nardella di Firenze. Solo per citare alcune delle presenza di un Palacongressi gremitissimo. A Rimini – kermesse dedicata a Jessica, una delle vittime dell’hotel Rigopiano, “militante del Pd” – però Renzi ci resta solo per il tempo del suo intervento, poi due chiacchiere con i fedelissimi nel backstage, anche lì parlano del M5s e Orfini ne approfitta per spedire un tweet al loro indirizzo. E poi via di nuovo a casa: a Rimini Renzi ha convocato gli amministratori locali del Pd per due giorni ma lui ci resta solo per un paio d’ore, nemmeno domani sarà qui.

La possibilità di andare al voto lo ha distratto di nuovo dalle ‘beghe’ della nuova segreteria. Scomparsa di nuovo all’orizzonte. Renzi è lì che combatte con la finestra elettorale per tornare in pista, possibilmente da premier. Per far tornare l’Italia in pista, dice lui, pensando a Bruxelles che minaccia la procedura di infrazione contro Roma per mancata riduzione del debito.

“Ci sono paesi che hanno sforato il 3 per cento e non hanno procedure di infrazione – attacca Renzi – Abbiamo un’Europa che anziché riflettere sul futuro, su Trump, i populismi, si mette a mandare letterine con il tal parametro, il comma, il protocollo…”. E’ la tavola imbandita della prossima campagna elettorale. La miccia si potrebbe accendere già la prossima settimana, sempre che il governo superi i timori di Padoan e risponda no alla Commissione sulla manovra correttiva. A quel punto, confermano fonti renzianissime di governo, si potrebbe determinare un’accelerazione che potrebbe finire con il voto anticipato, a giugno ma perché no finanche ad aprile.

Se D’Alema da Roma si prepara ad “ogni evenienza” imbastendo una scissione, Renzi si prepara ad ogni evenienza convocando la direzione del Pd per il 13 febbraio. Potrebbe essere quella che decide l’accelerazione verso le urne, chissà. Tra i suoi c’è qualche perplessità. Matteo Richetti avverte che non bisognerebbe correre a tutti i costi verso il voto, “ci sono cose da fare prima…”. Ma Renzi così si gioca la sua partita, con il 40 per cento da acchiappare. “Non pensiamo che il nostro compito sia rassegnarci ai tempi cupi, anche se abbiamo perso la battaglia. Il livido fa male ma quando si perde, ci sono vari modi per reagire…”. E sparisce in una nuvola di abbracci e selfie.
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