Matteo Renzi si paragona a Claudio Ranieri: “Prima esaltato, poi maramaldeggiato. Ma lui tornerà, chi lo ha tradito chissà”

Matteo Renzi come Claudio Ranieri. Dallo scudetto con il Leicester all’esonero, dal trionfo del 41% alla sconfitta del referendum. “Le favole finiscono. È normale. Prima o poi finiscono. Ma quando finiscono male la tristezza pervade non solo i bambini che hanno creduto alla favola” scrive l’ex premier sulla sua eNews.

“Lo scorso anno il calcio mondiale è stato letteralmente rivoluzionato da una piccola squadra inglese, il Leicester, che grazie a un italiano coraggioso e tenace come Claudio Ranieri ha trionfato in Premier League. A distanza di otto mesi la squadra gli si è rivoltata contro e mister Ranieri è stato esonerato: gli stessi che esaltavano l’impresa, hanno maramaldeggiato sul mister romano. Ma anche se le favole finiscono, prima o poi, le persone vere restano. Chi conosce Ranieri sa che lui tornerà, mentre i giocatori che lo hanno tradito… chissà. Viva il calcio, viva le favole”.

Nella eNews, Renzi torna a parlare di Pd e di Governo. Sul Partito Democratico l’ex segretario lancia un appello in vista delle primarie del 30 aprile e rilancia l’appuntamento al Lingotto dal 10 al 12 marzo: “Perché finalmente si discuta di cosa serve all’Italia, e non più di quanto è antipatico Tizio o Caio, è fondamentale rilanciare sui contenuti, sulle idee, sulle proposte. Sulla sanità, la cultura, le tasse, l’innovazione, il capitale umano”.

Sul Governo, Renzi scrive che “ha il compito di guidare il Paese fino alle elezioni e noi facciamo il tifo per l’Italia, quindi per tutto l’esecutivo. Ci sono cose da fare, avanti tutta! Nei mille giorni abbiamo commesso alcuni errori e ottenuto risultati storici, ma abbiamo anche lasciato un’eredità concreta. Non mi riferisco alle statistiche, ma ai progetti già finanziati. Ci sono quasi due miliardi di euro sulla povertà: niente chiacchiere, si spendano! Ci sono cinquecento milioni di euro già pronti sulle periferie (e con quelli già stanziati si arriva a oltre due miliardi): si parta, i progetti – alcuni molto belli – sono già pronti da mesi. E sull’Europa noi non vogliamo violare le regole, anzi. Nei mille giorni abbiamo ridotto al minimo le infrazioni europee, segno che vogliamo che le regole siano rispettate (quelle che non ci piacciono le vorremmo cambiare, ma questa è un’altra storia): l’importante è che il Paese sia forte e autorevole nella trattativa con Bruxelles sui numeri del bilancio. E noi stiamo dalla parte dell’Italia, sempre”.

Renzi scrive infine di essersi “rimesso in viaggio e continuerò a girare, con l’allegra curiosità di chi è innamorato della vita e del futuro, scrivendo i miei appunti su un taccuino che diventerà libro molto presto”.

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Matteo Renzi: “Una scissione di palazzo, disegno ideato e prodotto da D’Alema”

Dice che gli dispiace e che farà “di tutto perché si possa andare insieme”. Ma il buonismo verso gli ex compagni di viaggio finisce lì. Matteo Renzi preferisce non citare i nomi dei vari scissionisti che hanno dato vita a ‘Democratici e progressisti’. Tranne uno: Massimo D’Alema. E a lui che, nell’intervista a ‘Che tempo che fa’, la prima in tv dopo i mesi travagliati seguiti alla sconfitta nel referendum costituzionale, l’ex segretario del Pd imputa tutte le colpe della recente rottura. “Abbiamo fatto di tutto – dice – perchè chiunque non se ne andasse. Ma abbiamo avuto l’impressione che fosse un disegno già scritto, ideato e prodotto da D’Alema”.

Che la strategia fosse questa, si era già intuito nel pomeriggio quando, alle dichiarazioni di Roberto Speranza, che lo aveva accusato di essere fuggito in California mentre il suo partito implodeva, il vice segretario dem, Lorenzo Guerini, aveva risposto: “Arriverà un giorno in cui finalmente metteranno da parte l’odio personale e ci racconteranno cosa pensano dell’Italia”.

Nella sua narrazione, Renzi si trasforma addirittura in un rospo: non quello delle favole, ovviamente, ma piuttosto quello che gli ex Ds – dice – non hanno mai voluto digerire. “E’ come – è la sua metafora – se D’Alema e i suoi amici non abbiano mai mandato giù il rospo che uno che non fosse dei loro avesse combattuto nel Pd”.

“Nel mondo – rincara la dose – il problema della sinistra è Trump, è Le Pen. In Italia il problema sarei io? Rimettiamo al centro l’Italia. Io non ne posso più di questo dibattito. E oggi che ne sono fuori sono ancora più convinto che questo sia un Paese meraviglioso”.

L’ex segretario del Pd, insomma, dà tutta l’impressione di aver scelto chi mettere nel mirino, proprio come fece all’epoca della rottamazione, anche per separare “vecchio” e “nuovo”: ed è chiaro dove – a suo giudizio – si sente odore di stantio.
Anche per questo, Renzi ostenta il suo essere lontano dal potere, il non avere un seggio in Parlamento, non ambire a un vitalizio. Anzi, si descrive contento di aver ripreso il trolley e aver ricominciato a girare: da Scampia alla California. “Riparto da zero, con la forza delle idee. Ora – prosegue – tocca ai parlamentari, non a me. Ora fate le cose, non rinviate”, “c’è un altro capo. Lo stimo, gli voglio bene, ma tocca a lui. Io sono fuori, sono uscito”. Tanto fuori, sostiene, da non aver alcuna influenza sulla data delle prossime politiche. “Le elezioni – afferma – sono previste a febbraio del 2018, se Gentiloni vorrà votare prima lo deciderà lui”.

L’ex premier si mostra anche tranquillo sulle vicende giudiziarie che riguardano il padre in quel processo Consip a cui, in questi giorni, ha fatto riferimento anche il suo competitor alla segreteria, Michele Emiliano. “Essendo io un personaggio pubblico – osserva – non posso che dire che sto con i magistrati” ma “conosco mio padre e conosco i suoi valori”, però “i processi ci devono essere nelle Aule dei tribunali, non sui giornali”.
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“Our War”, il documentario che racconta chi sono i giovani occidentali in guerra contro l’Isis

L’ultimo ‘martire’ occidentale delle Ypg, le brigate di liberazione del popolo curdo, è stato Paolo Todd, nome in codice Kawa Amed, morto il 15 gennaio scorso a Small Siweida, villaggio nei pressi di Raqqa. Veniva da Los Angeles e chissà cosa lo ha spinto ad andare in Siria e unirsi all’avanzata delle Sdf (Syrian Democratic Forces, l’esercito a guida curda, con arabi, siriaci e turkmeni creato dagli Stati Uniti) per liberare la capitale del cosiddetto Stato Islamico.

Todd era uno dei centinaia di volontari stranieri che hanno percorso lo stesso tragitto dei giovani accorsi in Siria da tutto il mondo per onorare il jihad lanciato dal ‘Califfo’ Abu Bakr al-Baghdadi. Stesso percorso, ma motivazioni opposte: “C’è chi parte perché è un ex militare e si sente realizzato nel combattere contro l’Isis, chi lo fa per supportare politicamente la rivoluzione curda del Rojava (il Nord-est della Siria di cui i curdi hanno reclamato l’autonomia, Ndr) e chi perché è originario di quei luoghi e di quelle comunità. Sono i motivi principali, ma è difficile rinchiudere questi ‘foreign fighters’ in categorie rigide” spiega Benedetta Argentieri, giornalista e documentarista free lance che insieme ai colleghi Claudio Jampaglia e Bruno Chiaravalloti hanno realizzato il film documentario Our War, presentato fuori concorso a Venezia e attualmente in programmazione nelle sale italiane.

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Our War racconta l’esperienza di un italiano di Senigallia con origini marocchine, Karim Franceschi, di un ex marine che ha combattuto in Iraq e Afghanistan, Joshua Bell, e di una guardia del corpo mezzo svedese e mezzo curdo, Rafael Kardari, che per vie diverse hanno combattuto in Siria con le Ypg curde. “Ho conosciuto Bell in uno dei miei viaggi nel Rojava, era il novembre 2014” racconta Argentieri . “Era insieme ai primissimi stranieri arrivati, che stavano ancora cercando di capire come relazionarsi con i curdi e con una situazione che non si aspettavano. Joshua non capiva perché i capi delle Ypg non gli facessero fare nulla o lo tenessero in magazzino a pulire le armi. Non capiva come funzionava quell’esercito. Poi piano piano se ne è innamorato e ha imparato anche a parlare curdo”.

Non ci sono stime ufficiali su quanti siano i volontari stranieri, ma si parla di alcune centinaia. Vengono dagli Stati Uniti, dall’Argentina, dall’Europa e ci sono anche molti australiani e qualcuno dalla Cina. La pagina Facebook The Lions of Rojava era lo strumento per contattare chi già era là e arruolarsi. Il flusso è cominciato nell’autunno 2014 e all’inizio i curdi non sapevano bene come comportarsi con questi occidentali che arrivavano dal nulla, a volte solo per farsi un selfie davanti a un carro armato e andarsene, a volte millantando esperienze militari mai avute: “Le Ypg provvedevano ad addestrarli, ma spesso li tenevano lontani dal fronte perché avevano timore che non fossero capaci di combattere in quello scenario.

La guerra contro l’Isis è fatta di avanzate e attese, di movimenti studiati in gruppo. Anche di rispetto del nemico ucciso. E a volte questo non veniva ben compreso” spiega Argentieri. Con il passare dei mesi i media occidentali iniziano a occuparsi delle storie dei loro connazionali in Siria, che diventano così una buona arma di propaganda per la causa curda. Il problema è che spesso il tempo e il denaro spesi per addestrarli non viene ripagato dall’impegno sul campo. Quindi le Ypg si organizzano e fanno firmare ai volontari un vero e proprio contratto: in cambio di armi e addestramento, loro si impegnano a restare in Rojava per almeno sei mesi.

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In Europa sono arrivate le storie dei bikers olandesi e tedeschi, fotografati a Kobane fucile in spalla e giubbotto di pelle con i teschi, o quella della ventisettenne Kimberley Taylor, la prima donna inglese a essersi unita alle Ypj, le brigate curde femminili. Meno frequentemente si è parlato di coloro che sono morti a migliaia di chilometri da casa. Adesso c’è un sito, ypg-international.org, che ne raccoglie le storie. Se ne contano 18, ma non è aggiornato all’ultimo mese: “Ne sono morti dodici solo negli ultimi sei mesi, anche perché l’esercito turco è entrato in Siria e spesso attacca i curdi” spiega Argentieri. Diciotto giovani soldati volontari che hanno deciso di rischiare la vita per un ideale o per un senso di appartenenza. Come era successo nella guerra di Spagna degli anni ’30, come succede sempre quando c’è una causa per cui combattere.



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Notte degli Oscar, le star del cinema protestano contro Trump. Bufera sulla Casa Bianca per bando media

Mancano poco più di ventiquattr’ore alla notte degli Oscar, che si prevede, come spiega l’agenzia LaPresse, sarà altamente politicizzata dopo che anche le star solitamente più schive hanno scelto di esporsi contro il presidente Donald Trump unendosi alle proteste che ormai ogni giorno si tengono nel Paese. Trump, in risposta, ha provocatoriamente twittato: “Forse i milioni di persone che hanno votato per ‘Rendere l’America grande di nuovo’ dovrebbero organizzare la propria manifestazione. Sarebbe la più grande di tutte!”. Ciò mentre la Casa Bianca è in una nuova bufera dopo che diversi giornalisti di grandi media statunitensi ieri non sono stati ammessi al briefing giornaliero del portavoce, Sean Spicer. E intanto emerge che il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, il generale H.R. McMaster, ha preso le distanze dalla rigida posizione dell’amministrazione sul mondo islamico, contestando la definizione di “terrorismo islamico radicale”. A questo poi si aggiunge lo scoop del Washington Post secondo cui la Casa Bianca avrebbe ingaggiato alti dirigenti dell’intelligence e del Congresso nel tentativo di confutare le notizie di stampa sui presunti contatti tra l’entourage di Donald Trump e l’intelligence russa, oggetto di inchiesta da parte dell’Fbi nonchè del Congresso.

JODIE FOSTER CONTRO TRUMP. La United Talent Agency di Beverly Hills quest’anno ha cancellato la festa in vista della notte degli Oscar, trasformandola in una manifestazione contro Trump. Vi hanno partecipato star e personaggi del cinema, e tra loro è spiccata Jodie Foster, solitamente restia a mostrarsi sotto i riflettori per prendere posizioni politiche. L’attrice, vincitrice dell’Oscar per ‘Il silenzio degli innocenti’ e ‘Sotto accusa’, ha dichiarato: “Non sono una persona che ama usare il suo volto pubblico per l’attivismo”, “ma quest’anno è diverso, è tempo di impegnarsi. È una periodo insolito nella storia”.

Sul palco è salita anche la star di ‘Ritorno al futuro’, Michael J. Fox, che ha parlato di sé e delle star del cinema come di “quelli fortunati”, affermando di voler condividere un po’ di quella fortuna con i profughi che vogliono entrare negli Usa. Le proteste dei divi, così come quelle ormai quotidiane in tutto il Paese, contestano infatti le politiche migratorie di Trump, dopo il suo ordine esecutivo per bloccare l’ingresso negli Usa ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana. In video conferenza da Teheran è anche intervenuto il regista iraniano Asghar Farhadi, nominato agli Oscar come miglior film straniero ‘Il cliente’ ma che boicotterà la cerimonia. Con altri cinque candidati al miglior film straniero, ha inoltre firmato un comunicato in cui viene criticato il clima “di fanatismo e nazionalismo” degli Usa e di altre parti del mondo.

IL DIVIETO AI GIORNALISTI ALLA CASA BIANCA. I reporter di Cnn, New York Times, Politico, Los Angeles Times e BuzzFeed non sono stati ammessi al briefing ‘a telecamere spente’ di Spicer, senza una motivazione sulla scelta delle testate bandite. Trump si è più volte scagliato contro i media, che accusa di fornire “notizie false” e ha definito “nemici” degli americani. La decisione ha scatenato una dura risposta. “Nulla del genere è mai accaduto alla Casa Bianca nella nostra lunga storia in cui abbiamo seguito molte amministrazioni di diversi partiti”, ha scritto Dean Baquet, il direttore del New York Times, sottolineando che “il libero accesso dei media a un governo trasparente è ovviamente di cruciale interesse nazionale”.

Cnn ha twittato: “Questo è uno sviluppo inaccettabile”, “apparentemente legato al riportare fatti che a loro non piacciono, cosa che continueremo a fare”. Proteste sono arrivate anche dalla White House Correspondents Association, l’associazione dei corrispondenti dalla Casa Bianca. Proprio ieri, Spicer aveva ribadito: “Non lasceremo che racconti falsi, storie false e fatti inaccurati escano da qui”.

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Elisabetta Sterni, 30 anni: “Hanno diffuso sul web il mio video hot, ma io non farò la fine di Tiziana Cantone”. L’intervista a Repubblica

“Non farò la fine di Tiziana Cantone, la ragazza di Napoli che ha deciso di togliersi la vita, per questo sono uscita allo scoperto”: a parlare è Elisabetta Sterni, 30 anni appena compiuti, che ha permesso al suo ragazzo di riprenderla in momenti di intimità. Ora quel video, di pochi secondi, è diventato virale: è comparso su migliaia di gruppi Whatsapp ed è stato caricato anche su un sito porno. La giovane ha deciso però di far sentire la propria voce e di non farsi schiacciare dal peso della vergogna e dell’umiliazione. “Quel ragazzo mi piaceva, non ci ho pensato – ha detto in un’intervista a Repubblica -. Ho fatto quel video, mi sono fidata”.

Invece adesso si è ritrovata ad essere la protagonista di un filmato hot che rimbalza su tutti i telefonini.
“È stato girato la scorsa estate ma è diventato virale circa due settimane fa. Quando me l’hanno detto stavo per svenire”.

Chi l’ha avvisata?
“Il gestore del locale per cui lavoro mi ha chiamata in disparte una sera”.

E lei come ha reagito?
“Ci sono rimasta di sasso ma speravo fosse una esagerazione. Poi ho iniziato a indagare e mi sono resa conto che tutta la gente che mi stava intorno aveva quel video. È arrivato persino sul telefonino di mia nipote di 17 anni”.

Come ha gestito la situazione?
“Mi sono spaventata tantissimo e ho deciso di cancellarmi da tutti i social network. Ho eliminato qualsiasi profilo. Poi però mi sono detta che no, non era giusto”.

Elisabetta ha deciso di passare all’azione, di non rimanere passiva a guardare la sua reputazione fatta a pezzi in quel modo. “Denuncio tutti. Denuncio lui, perché ha tradito la mia fiducia – ha spiegato -. Ma è giusto che paghi anche chi ha moltiplicato quelle immagini con leggerezza, senza rendersi conto di come si può far male a una persona”.

Il suo scopo è quello di evitare di fare la fine di Tiziana Cantone: la giovane vuole rialzarsi, nonostante tutto. Per questo ha deciso di esporsi.

Lei ha deciso di uscire allo scoperto, con nome e cognome. Perché?
“Mi ha colpito molto la triste storia di Tiziana. Quando mi sono trovata nella sua stessa situazione ho pensato che dovevo necessariamente tirare fuori qualcosa di buono da questa storia”.

Qual è l’aspetto che più l’ha colpita nella tragedia successa a quella ragazza?
“I giudizi della gente che ti possono mettere il cappio al collo. L’hanno giudicata tutti, senza porsi domande, senza chiedersi come si poteva sentire”.

Nonostante questo lei ha deciso di non nascondersi.
“L’ho fatto solo per dire a chi sta vivendo disavventure come la mia che mi può scrivere. Che non è sola”.

Qualcuno le ha già scritto?
“Certo, ho ricevuto decine di messaggi. Prima ero una poco di buono, ora sono diventata una specie di eroina. Mi dicono: brava, vai avanti senza paura. Vuol dire che aver denunciato è stata la cosa giusta”.


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Lo stress ferma ancora Virginia Raggi, ricoverata. Poi va alla riunione sullo stadio. Verso accordo su Tor di Valle

Si va verso la chiusura dell’accordo: lo Stadio della Roma si farà a Tor di Valle. Campidoglio e società sarebbero arrivati a un punto d’incontro per un taglio di circa il 50% delle cubature previste e una riduzione proporzionale delle operte pubbliche. La società a questo punto potrebbe però chiedere il rinvio della conferenza dei servizi aperta presso la Regione di un mese per la definizione dei dettagli del progetto. Al tavolo con l’amministrazione capitolina siedono il costruttore Luca Parnasi e il ds della Roma Mauro Baldissoni, in rappresentanza del presidente James Pallotta.

La giornata è stata di quelle tormentate. Proprio nella giornata clou, quella in cui era attesa alla sua grande prova sullo Stadio della Roma, Virginia Raggi è stata e per tante ore si è pensato anche che potesse restare ricoverata all’ospedale San Filippo Neri dove è arrivata questa mattina intorno alle nove. L’incontro con la società, con i proponenti, si fa o non si fa? La domanda è rimbalzata per tutto il giorno. “Voglio essere presente alla riunione e dovrà essere oggi come stabilito”, andava ripetendo il sindaco di Roma mentre i medici hanno controllato per nove ore il suo stato di salute.

Si è trattato di un malore improvviso, forse dovuto allo stress. E non è il primo per Virginia Raggi, che già una volta in questi mesi si era recata in ospedale per accertamenti ed è svenuta durante l’interrogatorio, davanti ai pm, nell’ambito dell’inchiesta sulle nomine. “Sono stati eseguiti gli accertamenti clinici e diagnostici necessari e non sono state riscontrate alterazioni significative”, hanno sottolineato i medici nel bollettino. Adesso “le condizioni cliniche appaiono in netto miglioramento. Il Sindaco verrà mantenuto regolarmente in osservazione per valutare la sua dimissibilità nelle prossime ore”.

Questo intorno all’ora di pranzo. Poi il Campidoglio contatta i proponenti dello stadio per chiedere di spostare la riunione dalla 16 alle 19, segno che la sindaca vuole essere presente e che è fuori pericolo. Infatti intorno alle 18 Raggi viene dimessa e lascia l’ospedale insieme al suo vice Luca Bergamo che intanto l’ha raggiunta per decidere la linea da tenere con la società durante la riunione. Tra l’altro è lo stesso ex marito della sindaca, che è andato a trovarla, ad annunciare ai cronisti che il sindaco avrebbe con ogni probabilità partecipato all’incontro: “Sicuramente non è una vita facile questa, però piano piano si sta riprendendo. È un po’ magra, dovrebbe mangiare di più”.

Arrivata a Palazzo Senatorio il sindaco si chiude in una riunione fiume con i consiglieri mentre la società aspetta di incontrarla. Sul fronte dei proponenti, resta sul tavolo la contrarietà a ogni ipotesi di ubicazione alternativa dello stadio, rispetto al progetto approvato dalla giunta Marino, protocollato come di pubblica utilità e approdato in quanto tale in conferenza dei servizi. Nelle ultime ore, la diplomazia ha incessantemente lavorato a un compromesso sulla cubatura delle ormai famose torri di Libeskind, cercando di non pensare alle frasi con cui, in sostanza, Beppe Grillo ha accolto le tesi dall’ala ortodossa del Movimento, contraria in toto al progetto attualmente sul tavolo della sindaca Raggi.

La carta giocata oggi dalla As Roma e dal costruttore Parnasi, oltre al “controsondaggio”, è stata quella di chiamare a raccolta i tifosi organizzati facenti capo all’Unione Tifosi Romanisti (non gli ultrà, quindi), che si sono dati appuntamento (non moltissimi) in piazza del Campidoglio per intensificare il pressing sulla Giunta nel senso del sì allo stadio, intonando slogan a favore del progetto e contro la sindaca. Una manifestazione, tra l’altro, che è finita nei radar della Digos, che starebbe procedendo all’identificazione dei partecipanti attraverso le riprese a circuito chiuso, poiché a quanto pare non vi era stata alcuna richiesta di autorizzazione. Anche Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera e consigliere comunale Pd, era presente: “Mi autodenuncio per aver partecipato alla manifestazione non autorizzata dei tifosi della Roma oggi in Campidoglio. Farebbe ridere, se non fosse avvilente, leggere che – niente di meno – la Digos sia stata mobilitata per la manifestazione pacifica e non violenta dei tifosi romanisti a piazza del Campidoglio per chiedere all’amministrazione di interrompere il balletto sul progetto dello stadio”.

Un confronto difficile ed estenuante, dunque, che ormai si sta svolgendo su due piani paralleli: quello formale fatto di cifre, dati, percentuali, coordinate e quello, per ora sottaciuto, delle carte bollate, dei dossier che gli uffici legali di entrambi le parti dovrebbero avere già messo a punto per l’inevitabile guerra legale in caso di rottura.
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“È facile fare la spesa se sai leggere l’etichetta”, arriva in libreria la guida al consumo consapevole

Imparare a leggere l’etichetta quando si fa la spesa è il miglior modo per diventare consumatori consapevoli. Questo è il tema di “È facile fare la spesa se sai leggere l’etichetta”, il libro di Enrico Cinotti vicedirettore del mensile dei consumatori “il Salvagente”.

Il libro, in uscita per Newton Compton, è una guida utile a tutti che fa riflettere su stili di vita e consumi alimentari e aiuta a scegliere quando si fa la spesa. Quali sono i prodotti più sicuri, e soprattutto come sceglierli al supermercato? Imparare a leggere le etichette sulle confezioni è un primo passo per diventare consumatori consapevoli. L’etichetta informa sul contenuto del prodotto in modo chiaro, semplice, leggibile e veritiero.

supermarket

Con sempre meno tempo a disposizione e pochi soldi per fare la spesa questo libro punta a far diventare i consumatori dei i veri e propri esperti di termini di scadenza e modalità di conservazione così da evitare truffe e contraffazioni nel settore dell’agroalimentare.

Essere consumatori consapevoli significa anche saper tutelare la propria salute. Saper leggere l’etichetta ci permette di capire da dove provengono gli alimenti e conoscere la tipologia dei diversi allergeni, comprendere le differenze tra un prodotto fresco e uno surgelato, scoprire l’esatta natura degli additivi e i loro effetti sulla nostra salute.

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Unicredit, successo per l’aumento di capitale. Adesioni oltre il 99,8%

Si chiude con un’adesione altissima, pari al 99,8%, la fase di offerta ai soci dell’aumento di capitale di Unicredit. E una spinta decisiva per il successo della ricapitalizzazione da 13 miliardi di euro, la più grande mai realizzata in Italia, è arrivata dai fondi e dei grandi investitori istituzionali che ormai presidiano gran parte dell’azionariato della banca. I pochi diritti di opzione non esercitati – equivalenti a una trentina di milioni di euro in nuove azioni – verranno ora offerti in Borsa e andranno esercitati entro il 6 marzo.

Festeggia anche il nutrito consorzio di banche – che nelle prime linee vede schierate Morgan Stanley, Ubs, Bofa Merrill Lynch, Jp Morgan e Mediobanca – che si spartirà oltre 400 milioni di euro e non corre il rischio di doversi fare carico dell’inoptato.

L’esito dell’aumento dimostra l’apertura di credito del mercato verso il piano ‘Transform 2019’ messo a punto dall’amministratore delegato Jean Pierre Mustier, che attraverso la cessione di asset (Pioneer, Banca Pekao e quote di Fineco) e la ricapitalizzazione ‘monstre’, ha curato il tallone d’Achille di UniCredit – quello della fragilità patrimoniale – e riallineato i suoi ratio di capitale a quelli delle altre banche di rilevanza sistemica.

L’aumento ha inoltre permesso di fare pulizia nel portafoglio crediti deteriorati, recependo 12,2 miliardi di euro di rettifiche nel quarto trimestre dell’anno e avviando il deconsolidamento di 17,7 miliardi di sofferenze in un veicolo partecipato da Pimco e Fortress. Mustier ha promesso agli investitori 4,7 miliardi di utili al 2019 con un Cet1 – indicatore del livello di capitale di migliore qualità – sopra il 12,5%. E il mercato dimostra di credergli. L’aumento è anche destinato a rivoluzionare la compagine sociale di Unicredit, riducendo ulteriormente il peso delle Fondazioni e rafforzando quello dei grandi fondi d’investimento.

Gli americani di Capital Research (6,7%) e gli arabi di Aabar (5,04%) avrebbero sottoscritto per intero le loro quote, secondo Bloomberg, che da sole valgono ormai quasi tre volte il peso delle Fondazioni, sceso tra il 4,5 e il 5%. Solo Crt e Cariverona, diluitesi entrambe all’1,8%, conservano un minimo di peso ma l’ente veronese ha già detto che intende mantenere il profilo dell’investitore istituzionale senza partecipare alla governance. Il rimescolamento di carte imporrà anche una riflessione sulla rappresentatività dell’attuale Cda, in cui le Fondazioni conservano un peso che non è riflesso dagli assetti di capitale.

A chiedere espressamente nell’assemblea dello scorso 12 gennaio una discontinuità in consiglio era stata ancora una volta Cariverona, che imputa agli attuali consiglieri di aver prima sostenuto che la banca non aveva bisogno di capitale e poi, con l’avvicendamento tra Federico Ghizzoni e Mustier, aver riconosciuto la necessità di una manovra senza eguali nella storia finanziaria italiana.
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Carlos Tavares (ceo PSA): “Fusione tra Peugeot Citroën e Opel darebbe vita a un campione europeo dell’auto”

La fusione tra il gruppo PSA Peugeot Citroën e Opel darebbe vita a un “campione europeo” dell’auto. L’accordo sarebbe “vincente” per entrambi: lo ha detto il numero uno di Peugeot-Citroen-Ds, Carlos Tavares, presentando i risultati del gruppo a Parigi. “Pensiamo che con la nostra esperienza possiamo aiutare Opel”, ha aggiunto Tavares, ricordando che la filiale europea di General Motors “brucia attualmente 1 miliardo di euro all’anno”.

Parlando più in generale dell’eventuale accordo con Opel, Tavares ha poi affermato: “Da sempre ho detto che dobbiamo essere in buona salute, dalle cifre degli ultimi tre anni possiamo dire di aver fatto un lavoro fantastico”.

E ancora: “Continuiamo a crescere e abbiamo sempre detto che quando saremmo stati in buona salute avremmo trattato di opportunità strategiche, anche al di là dei risultati a cui porteranno le attuali trattative con Opel”. Insomma, per Tavares, la parola d’ordine è “guardare le opportunità” come “qualcosa di buono ma non obbligatorio”. “Siamo aperti alle opportunità”. E tuttavia – ha concluso – è “molto semplice: guardare il lungo termine se non si generano risultati nel breve non serve a nulla”.

“Sulla base della nostra esperienza e visto che adesso il gruppo PSA Peugeot Citroen è in salute pensiamo di poter aiutare Opel, che ha bisogno di sostegno visto che brucia cash per un miliardo di euro all’anno e questo non potrà andare avanti per sempre. Inoltre manterremo Opel come una società tedesca, un brand tedesco perché questo è vantaggioso per noi”. Così il ceo del costruttore francese, Carlos Tavares, rispondendo agli analisti sul progetto di acquisizione di Opel (gruppo General Motors). Tavares ha detto che il consiglio di sorveglianza “lo sta sostenendo” nell’operazione e ha rilevato le elevate sinergie, vista la linea di prodotti dei due partner, da realizzare velocemente, e la complementarietà tra i due gruppi per creare “un campione dell’auto europeo con una combinazione di un gruppo tedesco e francese”, un’operazione che genererà anche “creazione di valore”. L’operazione – ha detto – “è la soluzione di cui hanno bisogno”. Peugeot “è in salute adesso e così possiamo guardare a opportunità strategiche”, ha aggiunto Tavares, che ha spiegato: “quello che succede a Opel è analogo a quanto abbiamo visto in Peugeot quattro anni fa. Sulla base della nostra esperienza pensiamo di poter aiutare Opel”, mentre ha rilevato che “malgrado i progressi (da parte di Peugeot), alcuni clienti non considerano le marche francesi, ma preferiscono le tedesche, e lo stesso vale al contrario”, quindi una combinazione tra marche tedesche e francesi è considerata di valore da Tavares.


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Il governo prepara la ‘manovrina’ per l’Ue, gelo del Pd con Padoan. Renzi dice no a tasse e privatizzazioni

Il rapporto debito/Pil si è “finalmente stabilizzato ma è interesse nazionale ridurlo con un aggiustamento contenuto del percorso di consolidamento”, scrive Pier Carlo Padoan via tweet: sintetico, dritto al punto per far capire che non ci sono margini. Insomma, le privatizzazioni sono necessarie, non si può tornare indietro. Così come è inevitabile una correzione dei conti da fare entro fine aprile, come conferma anche Gentiloni a fine giornata. Il governo infatti deve varare una manovra correttiva di 3,4 miliardi di euro, come chiede la Commissione Ue che oggi ha scelto di non aprire una procedura di infrazione verso Roma ma di aspettare aprile. La manovra dovrà essere condotta in porto nei prossimi due mesi. Pena una procedura di infrazione contro l’Italia a maggio. Al ritorno da Bruxelles, dopo la riunione dell’Ecofin, Padoan entra a Palazzo Chigi per discuterne con il premier Paolo Gentiloni. Cioè con colui che deve mediare tra il Pd di Matteo Renzi e il Tesoro. Le frizioni tra l’ex premier e il ministro dell’Economia non si sono placate. Anzi minacciano di acuirsi sull’onda della ‘manovra bis necessaria’.

Di fronte all’annuncio di Padoan il Pd di Renzi resta freddo. Gelo in Transatlantico alla Camera tra i parlamentari del Pd. “Il governo farà una sua proposta e valuteremo”, ci dice il capogruppo Dem Ettore Rosato, tono pacato ma distaccato rispetto a quanto sta avvenendo a Palazzo Chigi, dove Padoan sta appunto discutendo con Gentiloni dove andare a prendere i 3,4 miliardi per soddisfare l’Ue.

“E’ vero che dobbiamo confrontarci con l’Ue e rispondere ma siamo stati mille giorni al governo senza alzare le tasse: non vorremmo smentirci all’ultimo minuto”, mette in chiaro Rosato. “Quanto alle privatizzazioni: abbiamo già detto più volte che per noi Poste e ferrovie sono asset di valenza sociale, dunque non si toccano”, aggiunge, andando a colpire uno dei cavalli di battaglia del Tesoro per ridurre il debito.

Anche oggi a Bruxelles Padoan ha difese le privatizzazioni. “La via maestra per ridurre il debito è la crescita – ha spiegato il ministro – le privatizzazioni hanno diversi motivi, uno dei quali è la riduzione del debito”. Un invito a pensarci su: “E’ di oggi la notizia che la privatizzazione di Enav è stata premiata quale migliore Ipo d’Europa”.

Affermazioni che cadono nel giorno in cui il presidente e reggente del Pd Matteo Orfini chiama ad uno “stop delle privatizzazioni” e a due settimane dall’invito a “riflettere sulle privatizzazioni delle Fs” avanzato dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio nella direzione Dem del 13 febbraio scorso. Il Pd di Renzi resta di questa idea e ritiene di aver trovato sponda niente meno che in Romano Prodi.

Delrio ha letto infatti come un punto a suo favore l’editoriale del professore bolognese sul Messaggero di domenica scorsa. ‘Ultimo bivio per il futuro dei servizi pubblici’, è il titolo. L’argomentazione: “Mentre il processo di privatizzazione delle aziende operanti in regime di concorrenza è intellettualmente semplice, la messa sul mercato delle imprese con grande contenuto di utilità sociale e operanti in situazione di monopolio naturale deve essere portata avanti tenendo conto di tutti i conseguenti gravami. Per questo motivo gli altri grandi paesi europei sono stati estremamente prudenti a procedere alle privatizzazioni di questi settori”.

Se lo dice il padre nobile del centrosinistra, sarà vero: è l’argomento di forza nella disputa col Tesoro.

Eppure proprio oggi Renzi si è sbilanciato a favore del governo, scrivendo dalla California che “sta facendo molte cose importanti di cui si parla poco…”. La manovrina annunciata da Padoan è il boccone indigesto che Renzi non aveva messo in conto di digerire a gennaio, quando la Commissione ha chiesto la correzione dello 0,2 per cento del pil. Ora ci siamo. Rosato esclude che la manovra bis possa essere la buccia di banana per scivolare fino al voto anticipato a giugno. “Io sono stato un sostenitore del voto anticipato ma ormai quella finestra si è chiusa”, dice.

Riaprirla per Renzi vorrebbe dire mettere in crisi il rapporto con Dario Franceschini, che su input del Colle ha sempre cercato di frenare le ansie di tornare al voto al più presto. E si sa che l’appoggio del ministro per i Beni Culturali è fondamentale per vincere il congresso del Pd: Renzi non può perderlo.

E’ questa la cruna dell’ago da cui dovrà passare il rapporto tra Pd e governo. Padoan cerca di far ingoiare la pillola. “Se la Commissione non avesse riconosciuto la legittimità delle ragioni italiane (spese legate a causa di forza maggiore come il terremoto e il flusso di migranti) l’esigenza di correzione dei conti sarebbe stata almeno tripla”, dice da Bruxelles. Ma questo non basta a lenire le preoccupazioni di un Pd incastrato tra la manovrina che non voleva e la difficoltà di tornare al voto a giugno per evitarla.
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